giovedì 30 novembre 2017

Zure van Tildonk 2013 No.1

Il birrificio  Hof Ten Dormaal  si trova a Tildonk, nella municipalità di Haacht (Fiandre Orientali): una fattoria che è gestita da tre generazioni dalla famiglia Janssen che ospita anche un agriturismo.  Andre Janssen, ex-commercialista, era stato costretto ad abbandonare la sua attività a causa di un infarto e decide quindi di dedicarsi all’azienda di famiglia:  ai trenta ettari coltivati, principalmente cicoria e cereali, decide di affiancare la produzione di birra, una delle sue passioni.  
Nel corso di un viaggio negli Stati Uniti acquista nel Montana un impianto da 16 ettolitri che viene trasportato in Belgio e messo in funziona con l’aiuto del consulente Peter Kindts. E’ lui a guidare i primi passi di Hof Ten Dormaal  che debutta nel 2009 con la Dormaal Amber, seguita l’anno successivo dalla Blond e, nel 2011, dalla Dormaal Wit Goud, la prima birra belga prodotta con cicoria; in attesa di avere una linea d’imbottigliamento, Janssen si rivolge a Frank Boon. L’orzo prodotto sui propri terreni viene fatto maltare e nel 2010 l’azienda agricola inizia anche a coltivare il luppolo, con lo scopo di arrivare ad essere completamente autosufficiente. 
Nel 2012 ecco i primi esperimenti con i lieviti selvaggi, le fermentazioni spontanee e gli invecchiamenti in botte: nel gennaio del 2015 un incendio colpisce il birrificio danneggiando parte degli impianti produttivi, distruggendo la linea d’imbottigliamento e rovinando quasi tutta la birra in magazzino. La ricostruzione, affidata ancora a Peter Kindts è l’occasione per sostituire l’impianto con uno più grande da 25 hl; quello usato viene venduto in Vietnam: a Tildonk la produzione riparte a settembre 2016.  Il birrificio – e la fattoria – sono visitabili tutti i sabati dalle 14 alle 18.

La birra.
Zure van Tildonk, ovvero “l’acida di Tildonk”: se non erro si trattava del primo esperimento acido di Hof Ten Dormaal, datato 2013. Il mosto fu versato in una ventina di secchi che vennero poi disseminati sul terreno della fattoria per l’inoculo dei lieviti e dei batteri naturalmente presenti nell’aria. Le migliori colture di lievito vennero poi utilizzate per creare il ceppo usato per la realizzazione della Zure van Tildonk. Se non erro la birra è poi stata fermentata in botti di legno presso le cantine del monastero di Engelenburch.
Dorata e leggermente velata, forma un discreto cappello di schiuma biancastra dall'ottima persistenza. La componente funky/rustica dà subito il benvenuto trasportando idealmente chi ha il bicchiere in mano in una polverosa cantina nella quale ci sono profumi di legno e di muffa. Aprendo gli occhi arrivano profumi di arancia e pesca zuccherata, chiudendoli di nuovo c'è una surreale visione di fragola. Al palato ha una consistenza morbida e abbastanza sostenuta, se la si confronta con la tradizione belga: corpo medio, la giusta quantità di bollicine. La bevuta non brilla di pulito e risulta nel complesso un po' sgraziata e poco definita: ma quella che normalmente sarebbe una critica in questo caso diventa un elogio. Ne risulta una farmhouse ale ruspante, con l'acidità bilanciata da un dolce fruttato non ben identificabile che sembra suggerire pesca e arancia. La chiusura è secca, con un finale amaro molto leggero nel quale s'intravede qualche nota di scorza di limone e terrosa. L'alcool (6%) è quasi inavvertibile e la Zure van Tildonk rinfresca e disseta con grande efficacia.
Non c'è grande profondità ma il risultato è comunque autentico e sincero: una birra rustica, piacevole, che parla di campagna e di un tempo andato che è ancora possibile ritrovare in alcuni villaggi del Belgio.
Formato: 37.5 cl., alc. 6%. lotto 2013, scad. 12/2017, pagata 3,15 € (drink store, Belgio)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 29 novembre 2017

DALLA CANTINA: Paul-Bricius & C 'Mpardist Ale 2010

Secondo i dati riportati da Microbirrifici.org Paul Bricius è uno dei più longevi birrifici artigianali siciliani, un primato condiviso assieme al brewpub La Caverna Del Mastro Birraio di Acireale. Correva l’anno 2004 quando Fabrizio Traina,  Paolo Trainito decisero di trasformare l’hobby dell’homebrewing in qualcosa di più grande e professionale: a Fabrizio l’onore e l’onere di ricoprire il ruolo di birraio, iniziato quasi per caso nel garage di casa quando nel 1995 acquistò per curiosità un kit da birra. Dopo un paio d’anni gli estratti furono abbandonati a favore dell’All Grain: fondamentale il coinvolgimento dell’amico Paolo che, titolare di un pastificio, disponeva di un macchinario che poteva servire a macinare il malto. 
Paul Bricius (ovvero Paolo e Fabrizio) apre le proprie porte nel 2004 a Vittoria (Ragusa) con un impianto progettato e costruito da soli, grazie l’aiuto di un fabbro: oltre ai due compagni di homebrewing c’è il socio Luigi Carrubba.  Da cinque anni il birrificio ha anche iniziato a coltivare il proprio orzo che viene poi fatto maltare altrove;  in oltre dieci anni d’attività l’offerta brassicola ha subito pochissimi cambiamenti e si compone di una “Special Ale” una Strong Dark Ale, una Strong Red Ale, una IGA prodotta con mosto di Nero d’Avola, un barley wine chiamato 'Mpardist Ale e una Belgian Strong Dark Ale prodotta in collaborazione con l’Abbazia di Monreale.

La birra.
Malto Maris Otter e luppoli inglesi sono le materie prima utilizzate per realizzare un potente (11%) barley wine chiamato 'Mpardist Ale. La bottiglia che andiamo a stappare fa parte di un lotto di 4554 esemplari prodotto nel 2010 e che ha dormito per qualche anno in cantina: immagino che ne siano stati poi realizzati altri lotti più recenti. 
A sette anni d’età la 'Mpardist di Paul Bricius si presente di torbido colore ambrato, piuttosto carico; la schiuma di modeste dimensioni e piuttosto grossolana, svanisce piuttosto rapidamente. Il naso, al di là delle inevitabili ossidazioni, è una piacevole sorpresa: caldo e intenso, con mela caramellata e pera a guidare le danze accompagnate da toffee, uvetta e datteri, marzapane, vino marsalato. In sottofondo cartone bagnato e qualche nota ematica non disturbano un bouquet aromatico comunque interessante anche se un po’ sbilanciato sull’asse mela-pera. La sensazione palatale è ancora solida: corpo medio, poche bollicine, bevuta potente sostenuta da una robusta gradazione alcolica che riscalda ogni sorso, a tratti bruciando un po’. Purtroppo il gusto non è interessante e ricco quanto l’aroma: caramello, uvetta e datteri sono a tratti soffocati dalla componente etilica, c’è qualche nota ematica e nel finale un pochino di cartone bagnato porta una lieve astringenza.  
E’ un barley wine che si sorseggia senza particolari difficoltà e che riesce comunque a riscaldare e a coccolare in una fredda serata d’inverno; una componente aromatica molto interessante non trova adeguati riscontri in bocca dove la birra ha sicuramente già superato il suo picco e ha iniziato la sua inevitabile parabola discendente. 
Formato: 33 cl., alc. 11%, bottiglia 4216, imbott. 27/08/2010, scad. 01/08/2040.

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 28 novembre 2017

Pipeworks S’More Money, S’More Problems

La storia di Pipeworks, birrificio di Chicago, l’avevo già raccontata qualche mese fa. Beejay Oslon e Gerrit Lewis, entrambi devoti homebrewers e beergeeks, si conoscono mentre lavorano in un negozio di liquori e abbozzano l’idea di fondare un birrificio. Per raccogliere parte dei fondi necessari ad ottobre 2010 Oslon e Lewis lanciano un crowfunding su Kickstarter con l’obiettivo di racimolare i 30.000 dollari necessari per il trasferimento in locali commerciali e la messa in funzione dell’impianto che già possedevano. Pipeworks debutterà a marzo 2012 e nel 2015 si trasferirà poi in un nuovo capannone dove troverà posto il nuovo impianto da 35 ettolitri, frutto di un ambizioso piano di espansione finanziato con un mutuo ventennale da 1 milione di dollari circa. 
Ma torniamo alla campagna Kickstarter del 2010 che termina a gennaio 2011 raccogliendo  da 492 persone ben 10.000 dollari in più di quanto richiesto; a giugno Pipeworks annuncia di aver finalmente individuato la location giusti dove portare gli impianti: 1675 N Western Ave, Chicago. Tra le varie modalità di finanziamento (dai 5 ai 10.000 dollari) vi era un pacchetto  da 2.500 dollari che, tra vari benefit, includeva l’opportunità di creare la ricetta di una birra assieme ai birrai  e vedere il proprio nome pubblicato sulla etichetta. Quattro persone l’hanno sottoscritta, tra questi Keith Lonergan: a gennaio 2014 gli impegni vengono mantenuti con la messa in commercio della imperial stout chiamata S'more Money S'more Problems. Una “pastry stout” la cui ricetta prevede l’utilizzo di graham crackers, fave di cacao e vaniglia per tentare di ricreare nel bicchiere uno “s'more” (un marshmallow arrostito su di un falò e poi infilato dentro due graham crackers con un pezzetto di cioccolata). Un dolce ma – dicono i personaggi coinvolti nella realizzazione della birra – anche un ricordo delle serate passate in campeggio con gli Scouts a bere imperial stout davanti al fuoco. Da allora la imperial stout S'more Money S'more Problems è stata occasionalmente prodotta altre volte; difficile dire quando visto che Pipeworks non mette nessuna data sulle proprie bottiglie.

La birra.
Nel bicchiere è nera ma il suo aspetto  è un po’ penalizzato dalla pochezza della schiuma che si dissolve molto rapidamente. Nemmeno l’aroma è particolarmente goloso: c’è la vaniglia, ci sono i graham crackers, il “fumo del falò“ sconfina un po’ nella plastica bruciata, in sottofondo appare qualche nota di carne. Il mouthfeel è invece solidissimo: imperial stout potente e viscosa, poche bollicine, morbida anche senza dispensare particolare cremosità. Il gusto è un crescendo dolce di cioccolato e caramello, vaniglia e liquirizia, graham crackers: all’alcool (10%) il compito di riscaldare il bevitore e di attenuare un po’ la dolcezza, funzione alla quale contribuisce in chiusura l’amaro delle tostature e del cioccolato fondente. Liquirizia, frutta sotto spirito e cioccolato danno poi forma ad un lungo retrogusto delicatamente etilico che soddisfa e accompagna per molti minuti. 
La S'more Money S'more Problems è una birra-dessert (o pastry stout, se preferite usare una terminologia ora molto in voga) che pecca un po’ di pulizia e di eleganza, e che appare un po’ confusa in alcuni passaggi: nel complesso è comunque godibile, se vi piace il genere. Mettetevi comodi e sorseggiatela con calma al posto del dolce.
Formato 65 cl., alc. 10%, lotto e scadenza non riportati, prezzo indicative 12 $  (food store, USA)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 27 novembre 2017

Moor: Nor'Hop & Raw

Ritorna sul blog il birrificio inglese Moor, fondato nel 1996 da Freddy Walker, chiuso nel 2005 e poi rilevato nel 2007 dall’attuale proprietario Justin Hawke, un californiano la cui formazione brassicola è passata attraverso quattro anni in Germania nell’esercito americano, viaggi in Inghilterra assieme al padre a bere Real Ales e l’homebrewing a San Francisco. Hawke ha lentamente sostituito le birre della precedente gestione con ricette più moderne che utilizzano spesso luppoli extra-europei.  Sino al 2014 il birrificio ha operato negli edifici di un ex caseificio sperduto nella campagna del Somerset: in quell’anno è avvenuto finalmente il trasloco a Bristol, nel sobborgo industriale di St. Phillips, dove ha trovato posto il nuovo impianto da 20 barili, la nuova linea per la produzione di lattine e anche la “Brewery Tap”, aperta dal mercoledì alla domenica. 

Partiamo da una delle tre birre che il birrificio definisce “Ultra Pale Ales”, ovvero birre chiare, leggere, prodotte tutto l’anno e caratterizzata dall’utilizzo di diverse varietà di luppolo. La Union’Hop, come il nome può far intuire, è prodotta con materie prime inglesi; la So’Hop, precedentemente disponibile solo in autunno e nota con il nome Southern Star, utilizza luppoli provenienti dell’emisfero australe. La sua controparte che impiega un non specificato luppolo americano, anch’essa prodotta occasionalmente, era invece chiamata Northern Star. Nel 2012 cambia il nome in Nor’Hop e viene prodotta tutto l’anno.  
Il suo colore è un bel dorato, leggermente velato e sormontato da una cremosa e compatta testa di schiuma dall’ottima persistenza. Al naso profumi floreali, di arancia e pompelmo, lemon grass, crackers, qualche lieve suggestione tropicale. Freschezza e pulizia non mancano ed è subito voglia di portare il bicchiere alle labbra: la bevuta è snella e leggera, scorrevolissima, senza nessuna debolezza acquosa. Una session beer (4.1%) “delicatamente intensa”, se mi passate il gioco di parole, dal carattere prevalentemente agrumato: la controparte è una lieve base maltata (crackers) e qualche nota dolce di frutta a pasta gialla e polpa d’arancia. Il finale è secco, l’amaro (zesty, erbaceo) è della giusta e moderata intensità per non stancare mai il palato e renderlo subito desideroso di un altro sorso. Molto pulita, fragrante ed elegante, la Nor’Hop può tenervi compagnia per tutta la giornata senza mai annoiarvi: utilizza luppoli americani con grande creanza e nel risultato finale troverete anche qualcosa che vi farà pensare alle Golden Ales inglesi. 

Raw è invece una bitter che fu in origine realizzata per essere una delle “house beers” dei pub Real Ale Weston e Royal Artillery Arms, ora purtroppo chiusi. I loro clienti già apprezzavano Merlin’s Magic, la bitter prodotta da Moor, e ne volevano una più luppolata: furono realizzate tre diverse birre sperimentali con da un diverso dry-hopping, la migliore delle quali venne poi chiamata Raw.
Nel bicchiere si presenta abbastanza velata e di colore ambrato: la schiuma biancastra è perfetta, a trama fine, cremosa, compatta e molto persistente. Al naso, fresco e pulito, i delicati profumi di biscotto e caramello convivono con quelli di frutta secca e arancia: anteprima di un gusto che prosegue nella stessa direzione ma con maggior intensità.  Rispetto alla Nor’Hop la presenza dei malti è più evidente e c’è una maggior presenza a livello di sensazione palatale, pur mantenendo la stessa elevata facilità di bevuta. Biscotto e caramello sono perfettamente integrati al dolce della marmellata d’arancia, presente in maniera assolutamente delicata (non pensate al “marmellatone” delle IPA Americane “defunte”).  La chiusura è moderatamente amara, con note terrose e di frutta secca mentre nel retrogusto appare quel “nutty”  tipicamente britannico. Ottima intensità per una session beer (4.3%) che rispetta la tradizione “aggiornandola” con qualche nota fruttata in più. Aroma e gusto viaggiano in sintonia, ogni cosa è al posto giusto, ottima bevuta.
Nel dettaglio:
Nor'Hop, formato 33 cl., alc. 4.1%, lotto 845NH125, scad. 08/2018
Raw, formato 33 cl., alc. 4.3%, lotto 838RAW114, scad. 08/2018

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 24 novembre 2017

Jolly Pumpkin Fuego del Otono 2016

Tra le cinque le succursali  del birrificio Jolly Pumpkin (Ann Arbor, Dexter,  Royal Oak, Detroit e Old Mission Peninsula) quest’ultima è indubbiamente quella che dovreste visitare in autunno: si tratta di una stretta striscia di terra che si addentra nel lago Michigan per una trentina di chilometri. 
A partire dalla fine di settembre, quando le temperature iniziano a diventare più rigide, i terreni ricchi di frutteti, vigneti, foreste e minuscoli villaggi regalano uno splendido panorama dipinto di giallo, arancio e rosso. Oltre che visitare i numerosi produttori di vino, non dimenticate di fare una sosta al brewpub di Jolly Pumpkin per assaggiare la loro birra stagionale chiamata  Fuego del Otoño, “fuoco dell’autunno”. 
Ron Jeffries, fondatore di Jolly Pumpkin, la definisce una “sour saison” che viene prodotta con un bouquet di spezie autunnali come castagne, anice stellato, zenzero cristallizzato, cannella; la ricetta si completa con malti Pilsner, Pale, Vienna, Crystal 75, Chocolate e frumento maltato, luppoli Perle e Willamette.  La Fuego del Otoño matura poi per sei mesi in botti di rovere. Quest’anno non credo sia stata ancora prodotta, quindi le ultime bottiglie in circolazione risalgono allo scorso ottobre, quando la vecchia etichetta era stata completamente rivisitata.

La birra.
Il suo color ambrato, impreziosito da riflessi ramati e dorati, ricorda effettivamente il foliage autunnale: la schiuma biancastra è cremosa e compatta e mostra un’ottima persistenza. Ad un anno dalla messa in bottiglia le spezie “autunnali” sembrano orami essere svanite e non vi è quasi più traccia della loro presenza (fortunatamente, aggiungerei): eccezione fatta per qualche nota di frutta secca, il bouquet non è diverso da quello di altre Jolly Pumpkin; funky, mela verde, limone, legno, una suggestione di Big Babol. Al palato l’acidità è abbastanza contenuta con un delicato tappeto caramellato che accompagna tutta la bevuta contrastando l’aspreza del limone e dell’uva; di spezie non vi è traccia, ci pensa il legno ad arricchire una birra che non scalda l’animo ma contibuisce a dissetarlo. Qualche spunto vinoso fa capolino più di una volta, il finale è delicatamente amaro distreggiandosi tra tannini, scorza di limone e note terrose.  Le delicate bollicine sembrano quasi accompagnare la contemplazione del paesaggio autunnale rinunciando alla vivacità delle giornate invernali trascorse sulle sponde del lago Michigan. Pulizia ed eleganza non mancano e questa Fuego del Otoño è una godibilissima saison, “sour ma con garbo”, che potete gustarvi in qualsiasi momento dell’anno.
Formato: 75 cl., alc. 5.8%, IBU 22, imbottigliata 02/10/2016, prezzo indicativo 13.00-15.00 euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 23 novembre 2017

Dunham Stout Impériale Russe

Ritorna sul blog il birrificio canadese Dunham che vi avevo presentato un anno e mezzo fa;  il brewpub-Brasserie nasce nel 2006 e viene poi rilevato nel 2010, sull’orlo del fallimento,  da una cordata d’imprenditori tra i quali Sébastien Gagnon, proprietario del Vice & Versa di Montreal, un bar che da anni offre una curata selezione di Craft Beer. La nuova proprietà investe per aumentare la capacità produttiva ma soprattutto la qualità,  portando in sala cottura il birraio Eloi Deit  e dandogli carta bianca nella realizzazione delle ricetta; in un paio d’anni Deit cancella le anonime birre che venivano prodotte e fa arrivare alla Brasserie Dunham le prime medaglie ai concorsi e i meno “ufficialI” apprezzamenti dai siti di beer-rating. 
Alla produzione di stili classici anglosassoni e belgi si è affiancata quella realizzata con lieviti selvaggi e quella degli affinamenti in botte: il distributore americano Shelton Brother non si è fatto sfuggire l’occasione di stringere un accordo commerciale soprattutto per quel che riguarda le Farmhouse Ales, che in negli Stati Uniti hanno una buona fetta di mercato disposto a pagare prezzi premium. Eloi Diet fa arrivare a Dunham centinaia di botti nelle quali mette a maturare o invecchiare diverse tipologie di birre inaugurando un ambizioso programma: le birre acide vengono anche mescolate con birre fresche dando il via ad una serie chiamata "Assemblage". Oltre ad un ulteriore espansione della capacità produttiva (sala cottura da 35 hl con un potenziale annuo di 3500 hl) Diet ha in mente di iniziare ad utilizzare foeders nei quali realizzare una serie di birre a fermentazione spontanea, sfruttando le caratteristiche microbiologiche dell'aria di Dunham, ricca di meleti.

La birra.
Debutta nel 2012 la prima imperial stout della Brasserie Dunham:  qualche anno dopo viene seguita dalla sua versione invecchiata in botti di whisky canadese, bourbon, tequila e da altre varianti che prevedono l’aggiunta dei soliti ingredienti che arricchiscono le imperial stout: caffè e vaniglia, per esempio. Impossibile risalire alla data di nascita di questa bottiglia che ha tuttavia passato un anno e mezzo nella mia cantina. 
Il suo colore è nero e quel “dito” di schiuma che si forma è veloce nel dissiparsi. Al naso coesistono intense tostature, caffè, caramello brunito, ricordi di cioccolato fondente e una nota di carne che tuttavia tende a scomparire con il passare di minuti: il tutto è avvolto da una percepibile componente etilica. L’aroma è pulito e abbastanza bilanciato nelle varie componenti. Al palato questa Stout Impériale Russe è gradevole e abbastanza morbida, leggermente oleosa in modo da scorrere senza particolari difficoltà: il corpo è medio.  La bevuta è potente, sospinta da un buon tenore alcolico (9%) che non intende nascondersi e da vigorose tostature: se si esclude la patina caramellata in sottofondo, il suo percorso è una progressione amara di torrefatto e caffè che trova il suo epilogo in un intenso finale potenziato dalla (ancora) generosa luppolatura. C’è anche spazio per qualche fugace suggestione di cioccolato fondente, poi il lungo viaggio nella buia notte si conclude con un caldo retrogusto etilico e torrefatto.
Imperial Stout solida e dura, per palati tosti: anziché amicarsi chi ha il bicchiere il mano con inutili orpelli sembra quasi sfidarlo. In lei l’edonismo coincide con la sostanza.
Formato: 34,1 cl., alc. 9%, lotto e scadenza non riportati, prezzo indicativo 6.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 21 novembre 2017

Evil Twin Even More Coco Jesus

Nonostante la craft beer continui a sfornare una novità dietro l’altra, la sensazione di deja-vu è sempre dietro l’angolo: è il solito concetto “azzecca una birra e moltiplicala all’infinito” già affrontato di recente più di una volta. Nello specifico parliamo della Even More Jesus, massiccia imperial stout che ha senz’altro contribuito al successo internazionale della beerfirm Evil Twin guidata da Jeppe Jarnit-Bjergsø, “gemello cattivo” di Mikkel Borg Bjergsø alias Mikkeller. 
Divertendosi a spulciare Ratebeer si può calcolare che la beerfirm danese-americana Evil Twin ha prodotto dal 2010 ad circa 300 birre, ovvero più di 30 etichette nuove ogni anno, delle quali ben 71 inserite nella categoria categoria Imperial Porter/Imperial Stout. Ovviamente non la maggior parte altro non sono che variazioni sullo stesso tema, figlie di quattro “birre madri”:  Even More Jesus, Imperial Biscotti Break, Soft Dookie, Imperial Doughnut Break. 
Evil Twin ha la sede operativa a Brooklyn, New York, ma ha utilizzato  impianti terzi dislocati in almeno sette diverse nazioni: Stati Uniti, Inghilterra, Danimarca, Scozia, Norvegia, Spagna e Olanda. Nell’autunno del 2016 Jeppe aveva annunciato l’apertura del suo primo birrificio a Ridgewood, Queens, New York: 1000 metri quadri nei quali collocare una taproom ed un impianto che dovrebbe garantire un potenziale di circa 6000 ettolitri all’anno. In pratica un luogo dove poter sperimentare le nuove ricette che verranno poi prodotte in larga scala presso impianti terzi: l’apertura era prevista per l’estate 2017 ma evidentemente c’è stato qualche ritardo.

La birra.
Even More Coco Jesus è l’ultima variante nata della Even More Jesus, commercializzata a partire da giugno 2017: come il nome può far intuire la ricetta è stata arricchita con cocco e – sorpresa non inclusa nell'appellativo – sciroppo d’acero.
Nel bicchiere si presenta nera con una testa di schiuma cremosa che si scompone abbastanza rapidamente ma è altrettanto pronta a rigenerarsi roteando un po' il bicchiere. L'aroma non può che essere dolce, nella sua ricchezza di caramello, zucchero di canna, cocco e vaniglia; lo sciroppo d'acero rimane in secondo piano, così come l'orzo tostato ed il caffè, il tutto avvolto da una percepibile componente etilica. L'intensità c'è, la finezza potrebbe invece essere migliore. Al palato è oleosa e morbida senza cercare di essere ingombrante, il corpo si colloca tra il medio ed il pieno e se ne avesse un pochino di più non sarebbe affatto male, anzi. La bevuta si mostra coerente con il biglietto da visita aromatico, quindi dolce e zuccherina, ricca di caramello sciroppo d'acero e cocco, uvetta, fruit cake, vaniglia. A bilanciare c'è una discreta nota etilica (12%) che riscalda ogni sorso e un finale amaro, non particolarmente elegante, nel quale caffè e torrefatto vengono supportati dai luppoli. Una imperial stout dolce ma non stucchevole, abbastanza vicina al concetto di birra-dessert (o pastry stout, se preferite) ma ancora distante dagli estremi "omnipolliani": sa ancora di "birra", per intenderci. Bene intensità, migliorabile l'eleganza, sopratutto per quel che riguarda l'ingrediente sciroppo d'acero, piuttosto deludente se penso invece a come l'ha utilizzato The Bruery nella birra The Grade.
Si sorseggia con buona facilità ma la sua dolcezza non rende semplice terminare il mezzo litro: prendetevela molto comoda. Il rapporto qualità prezzo è comunque abbastanza buono, anche se per il mio gusto personale preferisco la Even More Jesus "normale". 
Formato: 47.3 cl, alc. 12%, lotto #002, prezzo indicativo 7,00-9,00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 20 novembre 2017

Birra Fon: Rio Saaz, Grhop & Sweet Dreams

Tempo di debutti sul blog:  nello specifico quello di Birra Fon, una realtà piuttosto giovane operativa a Fondo, in Val di Non (TN) dallo scorso maggio 2017. Non ho trovato molte informazioni in rete, ma il team è composto da cinque amici (Alberto, Alessandro, Daniele, Giordano e Marco) che dopo anni di homebrewing hanno deciso di fare il salto nel mondo dei professionisti. Birra Fon ha iniziato producendo presso terzi (The Wall e Serra Storta) ma sta installando in queste settimane il proprio impianto da 5 HL fornito dalla Socis: un passaggio di “status” necessario visto che ritengo non sia il massimo per un consumatore leggere in etichetta “birrificio artigianale trentino” se gli impianti non ci sono e se le birre vengono prodotte in Lombardia. Tra poco la situazione verrà “sanata” e il Birrificio Fon potrà vantarsi di utilizzare “l'acqua proveniente dalle fonti naturali dell'Alta Val di Non”: in parallelo i ragazzi hanno anche iniziato la coltivazione di luppolo. Tre sono le birre al momento disponibili, che andiamo ad assaggiare. 

Si parte con Rio Saaz (5.3%), definita Golden Ale in etichetta e Koelsch sul sito di Birra Fon. Al di là delle discordanze, il suo nome si riferisce al torrente Rio Sass che nel corso dei secoli ha  originato il canyon di Fondo, creando un dislivello di 145 metri ancora oggi attraversato dall’acqua.  La ricetta della birra prevede lievito SafAle K-97, malto Pils e luppoli  tedeschi Magnum, Saaz e Hallertauer Mittelfrüh. Nel bicchiere è dorata, leggermente velata  e forma una bella testa di schiuma cremosa e compatta, dall’ottima persistenza. Al naso crosta di pane, cereali, leggeri profumi erbacei e una delicata speziatura da “luppolo nobile”: un aroma fresco, delicato e pulito.  Il gusto prosegue con la stessa semplicità, aggiungendo qualche nota di miele a supporto della generosa luppolatura che sfocia in un finale amaro di buona intensità tutto giocato sull’erbaceo e sullo speziato. La bevuta è molto bilanciata e pulita, abbastanza attenuata  e piuttosto gradevole a livello tattile, rinfrescante: una birra semplice ma ben fatta. Evidente l'inspirazione tedesca e quindi incomprensibile la scritta Golden Ale riportata in etichetta: è tuttavia una "svista" che il contenuto della bottiglia fa subito dimenticare. 

Non ci sono invece dubbi stilistici sulla Grhop, un'American IPA  (5.6%) prodotta con malti Pale, Maris Otter e Caramunich, segale e fiocchi d'orzo; i luppoli sono Magnum, Simcoe, Amarillo, Centennial e Citra, il lievito è l'immancabilie US-05. Il suo colore si colloca tra il ramato e l'oro antico, la schiuma è impeccabilmente cremosa e compatta: al naso, con discreta intensità, ci sono profumi di pompelmo e resina, aghi di pino, qualche nota dank. Anche in questa birra c'è pulizia e freschezza a valorizzare un bouquet aromatico semplice ma riuscito. E' un'American IPA un po' old school, senza eccessi fruttati: ai malti (caramello, lieve biscotto) il compito di bilanciare la resina e il vegetale dei luppoli. L'unica divagazione è rappresentata da qualche leggera nota di pompelmo, mentre il finale è una lunga scia amara di buona intensità, pungente e non priva di una certa eleganza. Solida e pulita, ben fatta, fresca: un carattere un po' più fruttato le donerebbe un po' di complessità e di modernità, ma qui entriamo nella sfera dei gusti personali. Oggettivamente è una birra di buon livello, facile da bere, pulita e priva di difetti.

Chiudiamo con la Stout chiama Sweet Dreams (5.5%) prodotta con malti Maris Otter, Chocolate, Roasted e Cafè, fiocchi d'avena e lattosio, lievito US-05 e luppolo Challenger. Nel bicchiere è splendida, quasi nera e sormontata da un cappello di schiuma molto fine e compatto. L'aroma regala profumi di caffè (chicchi e macinato) e caffelatte, orzo tostato: pochi elementi ma disposti con precisione e pulizia. La sensazione palatale è molto gradevole, l'avena e il lattosio le donano una morbidezza a tratti quasi cremosa.  La bevuta parte del dolce del caramello per virare poi progressivamente verso l'amato del caffè e delle tostature. C'è meno pulizia ed eleganza rispetto all'aroma, ma l'intensità dei sapori rimane di tutto rispetto; il lattosio le dona una dolcezza che ricorda a tratti la panna, c'è qualche suggestione di cioccolato fondente, frutti di bosco e, nel finale, un po' di tabacco accompagna l'amaro del caffè e del torrefatto. C'è ancora spazio per una maggiore pulizia al gusto e una maggior eleganza nelle tostature, ma la bevuta è assolutamente gradevole.
Nel complesso tre birre di livello davvero buono per una beerfirm-quasi-birrificio in attività da pochissimi mesi: anziché cercare subito di stupire prendendosi rischi mi sembra - giustamente - che Birra Fon sia sia concentrata su semplicità, precisione dell'esecuzione e pulizia. Una scelta azzeccata, perché solo dopo aver messo i piedi ben saldi a terra si può provare a spiccare un salto.

Nel dettaglio:
Rio Saaz, 33 cl., alc. 5.3%, IBU 25, lotto 10517, scad. 28/09/2018, prezzo indicativo 3.50 Euro
Grhop, 33 cl., alc. 5.6%, IBU 65, lotto 8617, scad. 28/08/2018, prezzo indicativo 4.00 Euro
Sweet Dreams, 33 cl., alc. 5,5%, IBU 34, lotto 23417, scad. 01/02/2019, prezzo indicativo 4.00 Euro

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 17 novembre 2017

De Kale Ridders Tumulus Nera

De Kale Ridders, se non erro “i cavalieri calvi”: questo l’originale nome scelto per una beerfirm belga operativa dal 2009 a Landen. A fondarla sono Bart Landuyt e Bart Liesenborghs che, dopo alcuni di appassionato ed intenso homebrewing, si lasciano convincere dagli amici a produrre anche commercialmente su grande scala quelle birre che tanto erano state apprezzate. I cavalieri, effettivamente tutti o quasi con la testa rasata, diventano poi sei grazie all’aiuto di Dominik, Alain, Johan e Paul arrivano a dare una mano quando c’è da macinare il malto, riempire il bollitore, pulire e imbottigliare.  Le loro mansioni cambiano quando nel 2008 debutta la Tumulus Magma, una Belgian Strong Ale (8%) ispirata (?) alle Weizen tedesche che viene prodotta presso gli impianti di De Proef: Dominik è un commerciale e quindi gli viene affidato il compito di vendere la birra; Alain segue la parte logistica, coerentemente con il suo lavoro svolto presso l’Aeronautica Belga, Johan è un avvocato e mette a disposizione la sua esperienza mentre Pal, ex bancario ora in pensione, segue la parte amministrativa. 
Nel 2009 arriva una seconda birra chiamata Tumulus 800 (6 %), una Belgian Ale molto luppolata (50 IBU) sviluppata in collaborazione con il professor Verstrepen dell’Università di Lovanio, fornitrice di uno speciale ceppo di lievito. Nel 2010 debutta la Tumulus Nera, una stout, e nel 2012 arriva la Tumulus Aura, sorella minore (5.5%) e meno luppolata (35 IBU) della Tumulus 800. Il nome Tumulus fa riferimento ai tumuli di Haspengouw che si t rovano a pochi chilometri di distanza da Landen.

La birra.
De Kale Ridders definiscono la propria Tumulus Nera come “il matrimonio perfetto tra una stout anglosassone ed una tripel belga”; per la sua produzione viene impiegata un’elevata quantità di frumento maltato tostato e un luppolo nobile non specificato. Nel 2012 ottenne la medaglia d’argento nella propria categoria al Brussels Beer Challenge. 
Nera di nome e (quasi) nera di fatto, forma nel bicchiere una splendida testa di schiuma fine, cremosa e compatta, dall’ottima persistenza. Il naso è molto pulito e abbastanza elegante: orzo tostato, pane nero, prugna e frutti di bosco, in secondo piano caffè, cioccolato, liquirizia.  Il DNA belga è evidente al palato dove c’è una carbonazione piuttosto elevata ed una consistenza leggera per fare scorrere questa stout senza nessun impedimento. Al palato si nota pulizia, intensità ed equilibrio tra tutti gli elementi in gioco: dal dolce del caramello si passa all’amaro di caffè e tostature, c’è molta liquirizia, qualche estero fruttato. Nel finale l’amaro del torrefatto s’intensifica ulteriormente, c’è qualche fondo di caffè ed una leggerissima astringenza: l’alcool è nascosto piuttosto bene, in quella maniera subdolamente belga che presenta il conto solo a fine bevuta. Qualche avvisaglia la si può percepire dal lieve tepore del retrogusto.
Tumulus Nera, stout belga molto pulita e precisa, forse persino troppo (ah… De Proef!), al punto da risultare un po’ avara nel regalare emozioni: comunque una bella bevuta.
Formato: 33 cl., alc. 8%, IBU 45, scad. 20/01/2018, pagata 1,80 Euro (drink store, Belgio)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 16 novembre 2017

[Le birre rivisitate] AleSmith Speedway Stout

Di solito sul blog presento spazio sempre birre diverse senza ritornare su quelle già ospitate e il motivo è abbastanza semplice: non credo che a chi legge interessi ritrovare  la stessa birra a breve distanza di tempo.  Penso che sia però interessante confrontare gli appunti di bevuta a distanza temporale: non solo a volte cambiano le birre ma, soprattutto, cambia il palato di chi beve sotto l’influenza dell’esperienza e di quello che il mercato propone. E cambiano anche i birrifici: s'ingrandiscono, vengono acquistati, evolvono! E’ il momento di una “birra ritrovata”, insomma. 
Parliamo della Speedway Stout di Alesmith, una delle imperial stout più famose negli Stati Uniti e, qualche anno fa, uno sorta di chimera in Europa;  qualche bottiglia ogni tanto appariva, ma erano eventi più unici che rari. Nel 2012 a San Diego riuscivo finalmente a mettere la mani su di una bottiglia: qui potete trovare la storia di questa birra e la descrizione della sua bevuta, avvenuta nel 2014. 
Alla fine del 2015 Alesmith ha completato un piano di espansione da 15 milioni di dollari con la realizzazione del nuovo stabilimento da 10.000 metri quadri in Empire Road (poi rinominata AleSmith Court dalla città di San Diego) a pochi isolati di distanza dal precedente, nel quale ora ha trovato posto Mikkeller San Diego in una compartecipazione societaria del quale fa ancora parte Peter Zien (il sig. Alesmith).  Con il nuovo impianto da 80 ettolitri, che garantisce un potenziale da 250.000 ettolitri l’anno, le birre di Alesmith hanno cambiato formato per andare incontro alle esigenze del mercato americano, sempre in evoluzione. I bomber (65 cl.) e le bottiglie da 75, sino ad allora gli unici formati contemplati da Alesmith, sono stati affiancati prima dalle bottigliette e poi dalle lattine, entrambe da 12 once (35.5 cl.): un formato alla quale la craft beer revolution sembra ormai non poter rinunciare e che si rivela anche utile a “rinfrescare” le vendite di una birra il cui grande successo è magari insediato dalle sempre più numerose concorrenti. 
Nei primi giorni del 2017 sul profilo Instragram di Alesmith appare una misteriosa lattina nera da una pinta accompagnata dal commento “coming soon…”.  L’enigma viene svelato il 27 gennaio quando il birrificio di San Diego annuncia l’arrivo dell’iconica Speedway Stout in lattina, disponibile inizialmente solo in birrificio al costo di 7.99 dollari; nelle settimane successive viene anche distribuita in ventuno stati americani e ad un importatore danese che le ha fatte poi arrivare in tutta Europa. 
Piccola parentesi beer-rating: nel 2014, quando la bevevo per la prima volta, la Speedway Stout era considerata dal popolo del beer-rating come la decima miglior birra al mondo e la nona miglior imperial stout al mondo. Posizione mantenuta nella categoria di appartenenza, mentre a livello mondiale è attualmente scesa al dodicesimo posto.

La birra.
Non vorrei dirlo ma  devo ammettere che l’emozione di berla ora dalla lattina non è la stessa di tre anni fa, quando stappai per la prima volta la generosa bottiglia da 75 centilitri che – per me – era quasi circondata da un’aurea mistica. Terminai il posto sul blog con queste parole: “a bicchiere vuoto sei completamente soddisfatto, ma anche avvolto da un po' di tristezza: quando mai ti capiterà  di riberla”? Non è passato molto, e grazie all’aumento della capacità produttiva è oggi possibile trovare una lattina di Speedway Stout in molti negozi italiani ed europei. 
Il suo aspetto è impeccabile: nera, generoso cappello di schiuma cremosa e compatta dall’ottima persistenza. Al naso è protagonista l’eleganza dei chicchi di caffè (fornito dalla Ryan Bros. Coffee) accompagnata da profumi di orzo tostato, tabacco e cuoio, frutti di bosco, cioccolato; c’è grande pulizia, mentre l’intensità non è particolarmente elevata.  Corpo “quasi” pieno, poche bollicine, sensazione palatale ricca, oleosa quanto basta, morbida e appagante: un buon compromesso che le permette di mantenere comunque una buona bevibilità se si considera la componente etilica  (12%).  Il caffè è il protagonista anche al palato di una imperial stout molto pulita e intensa: annoto caramello e frutti di bosco, eleganti tostature, accenni di cioccolato e liquirizia. L’alcool riscalda tutta la bevuta coccolando chi si trova il bicchiere tra le mani, nel finale una generosa luppolatura arriva a pulire il palato rinforzando l’amaro del caffè e del torrefatto. Speedway Stout: potente e intensa, pulita, elegante, una bevuta sempre di alto livello senza inutili orpelli. Se sono invece gli ingredienti "strani" ad incuriosirvi potete sempre cercare una delle tantissime sue varianti che AleSmith ogni tanto propone.
Formato: 47,5 cl., alc. 12%, IBU 70, lotto e scadenza non riportati, prezzo indicativo 10,00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 14 novembre 2017

Cloudwater Brew Co.: DDH Pale Southern Passion Citra & DDH IPA Nelson Sauvin Galaxy


A distanza di pochi giorni torniamo a parlare di Cloudwater, birrificio di Manchester che vi avevo presentato in questa occasione. Ma devo attenermi alle istruzioni riportate in etichetta: “i luppoli svaniscono in fretta, prima la bevete meglio è”. 
Partiamo dalla DDH Pale Southern Passion Citra che, come il nome suggerisce, è un’(American) Pale Ale prodotta con un doppio dry-hopping di Southern Passion e Citra; la ricetta prevede anche malti Pilsner, Golden Promise, frumento maltato, avena maltata, caramalt, maltodestrine, lieviti A38 e WLP095. Per l’amaro è stato usato estratto di luppolo Pilgrim in Co2. Due parole sul luppolo Southern Passion, proveniente dal Sud Africa e nato dall’incrocio di due luppoli nobili: Saaz ed  Hallertau Hallertauer.

Nel bicchiere non è molto bella: anche se la foto inganna un po' il suo colore è un arancio molto pallido e molto torbido; va meglio la schiuma, bianca, cremosa e abbastanza compatta, dalla buona persistenza.  Questa DDH Pale Southern Passion Citra è stata messa in lattina alla fine dello scorso agosto: l’aroma emana ancora freschezza ma l’intensità non è particolarmente elevata. A deludere un po' sono pulizia e finezza, con la sensazione generale di un cocktail di agrumi e tropicale nel quale non si riesce però ad identificare con precisione i singoli elementi.  La bevuta è altrettanto fruttata, senza mai raggiungere eccessi sfrontati e cafoni: in sottofondo c’è una patina maltata (pane?) ad accompagnare soprattutto il dolce degli agrumi (arancia e mandarino) che domina sul tropicale. L’amaro (scorza d’agrumi) è molto delicato, quasi assente, con l’unica funzione di bilanciare la birra: nel complesso questa DDH Pale Ale di Cloudwater è piuttosto piacevole e gradevole, d’ottima intensità ma “tecnicamente” non è molto pulita e definita. La sensazione generale è comunque di un buon succo di frutta che vi disseta e rinfresca, senza regalare grossi sussulti o emozioni. Il mouthfeel è quello richiesto dal protocollo “New England”, ovvero tutt’altro che snello: si beve facilmente ma non ad elevata velocità.  

Passiamo ora alla serie della Double Dry Hopped IPA, inaugurata da Cloudwater  a giugno 2017 con la DDH IPA Citra; ad agosto sono poi arrivate la DDH IPA Chinook Citra, la DDH IPA Amarillo e ad inizio settembre la birra che andiamo a stappare, ovvero la  DDH IPA Nelson Sauvin Galaxy. La sua ricetta indica malto Golden Promise, avena e frumento maltati, lievito WLP095, luppoli Nelson Sauvin, Galaxy e Chinook in dry-hopping, il solito estratto di luppolo Pilgrim in Co2 per l’amaro. 
Il suo colore arancio, benchè opalescente, è molto più appetibile di quello della DDH Pale Ale; al naso freschi profumi di ananas, mango e papaia, arancia e pompelmo, qualche nota aspra di uva bianca aspra del Nelson Sauvin. Il bouquet è pulito e molto intenso, abbastanza elegante, quasi sfacciato. Al palato mango e ananas guidano le danze rilegando in secondo piano pesca, arancia e pompelmo, uva bianca: l’alcool (7%) è davvero impercettibile, a rallentare il ritmo di bevuta ci pensa come al solito la consistenza tattile di questa “juicy” IPA, morbida a tratti un po’ masticabile. Le note amaricanti parlano di resina e di quel vegetale tipico del Nelson, con la frutta tropicale che ritorna subito sul palcoscenico nel retrogusto. Questa DDH IPA Nelson Sauvin Galaxy è un intenso succo di frutta dolce ma ben bilanciato da una lieve asprezza (uva) e da un discreto livello di amaro. Secca, molto pulita e molto intensa, non priva di una certa eleganza e soprattutto priva di quel “pizzicore vegetale/effetto pellet” che spesso affligge questo tipo di birre. Il livello è piuttosto alto, sicuramente tra le migliori Cloudwater assaggiate sino ad ora.

Nel dettaglio:
DDH Pale Southern Passion Citra, 44 cl., alc. 4.9%, lotto 22/08/2017, scad. 01/12/2017
DDH IPA Nelson Sauvin Galaxy, 44 cl., alc. 7%, lotto 01/09/2017, scad. 01/12/2017

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 13 novembre 2017

Hammer Daarbulah 2016

A molti le parole “beergeek” e “beer-rating” non diranno granchè ma sono due fenomeni con i quali chi s’interessa alla birra artigianale deve avere a che fare, volente o nolente, sia che si tratti di un professionista che di un semplice bevitore. Il beer-rating è stato capace di decretare il successo di birrifici, di birre e di stili di birra e quindi di smuovere un po’ di soldoni, soprattutto nel mercato statunitense e in quello scandinavo.  
Le imperial stout sono tra le birre più amate e ricercate dai beergeeks e sono tra le birre che ottengono i voti più alti sui siti di beer-rating; fatevi un giro su Ratebeer, prendete un birrificio a caso e ordinate le sue birre per ordine di punteggio discendente. Nella maggioranza delle volte, se il birrificio produce un’imperial stout, quella birra sarà in cima alle preferenze; se non è un’imperial stout, sarà un’imperial IPA. A meno che il birrificio non produca birre acide. 
Sono soprattutto le imperial stout, meglio se invecchiate in botte, che generano le file davanti agli stand dei birrifici ai festival e che danno vita ad un mercato “secondario” nel quale i prezzi delle bottiglie impennano rapidamente. Difficilmente ad un festival troverete 50 persone in fila per un assaggio di una pils; difficilmente troverete beergeeks americani accampati fuori dal birrificio sin dalla notte per riuscire ad accaparrarsi un paio di bottiglie di una bock. E’ triste se ci pensate, ma così stanno le cose. 
E in Italia? Non è un mistero che gli italiani “preferiscono le bionde” e le birre scure (porter, stout, brown ales) non conquistano una grossa fetta di mercato all’interno della nicchia della birra artigianale; immagino che le imperial stout siano un’ulteriore “nicchia nella nicchia”.  E’ probabile che la scarsa domanda domestica non motivi i birrifici a lavorare e a sperimentare maggiormente in questo ambito: in molti si sono buttati a produrre le New England IPA, quasi nessuno (vado a memoria) ha mai tentato di produrre una  imperial stout densa e viscosa, magari invecchiandola in botti di bourbon. Una birra come BORIS The Crusher è ormai accessibile in Europa senza grosse difficoltà, basta ordinarla on-line: che nessuno abbia cercato non dico di clonarla, ma di fare qualcosa che potesse somigliarle? I maligni potrebbero dire che “non siamo semplicemente in grado di farle”.  Eppure le imperial stout ci sono in Italia  - alcune anche buone - ma non riescono ad arrivare al livello dei “mostri” americani o scandinavi, quelli per i quali la gente è disposta a fare la fila, quelli che generano “hype”.  Non dico che per essere buona un’imperial stout debba essere necessariamente “viscosa o catramosa” e non possa essere scorrevole come quelle di Samuel Smith o di The Kernel: dico solo che i beergeeks vanno in estasi per altro.  Il risultato è – giusto per fare un esempio – che nei festival europei più “cool”, come ad esempio Mikkeller Beer Celebration Copenhagen o Beavertown Extravaganza di birrifici italiani ne vengono invitati molti pochi, se non nessuno. 

Il birrificio Hammer rappresenta indubbiamente una delle eccellenze del panorama brassicolo italiano, soprattutto per quel che riguarda le birra luppolate: birre come Killer Queen, Wave Runner  e Mini non hanno nulla da invidiare alle analoghe produzioni di molti birrifici europei attorno ai quali si è generato parecchio hype, e farebbero ottima figura a qualsiasi festival del nostro continente.  E per quel che riguarda l’imperial stout? L’etichetta della Daarbulah è stata virtualmente presente sul sito di Hammer sin dal debutto avvenuto a maggio 2015, ma ci è voluto oltre un anno per vederla in una bottiglia: il suo debutto è infatti avvenuto solo a novembre del 2016.

La birra.
Niente da dire sul suo aspetto: il bicchiere si veste di un nero mantello sul quale si forma una bella testa di schiuma cremosa e compatta, dalla buona persistenza. L’aroma non è particolarmente intenso ma si avvertono ugualmente profumi di fruit cake e toffee, uvetta e prugna; in secondo piano caffè, lievi tostature, qualche nota di carne leggermente affumicata. Al palato non ci sono velleità edonistiche: si privilegia la scorrevolezza, con un corpo medio ed una consistenza leggera, né viscosa né oleosa. La bevuta mostra una buona intensità ma non rispetta gli elevati standard di pulizia che ho sempre trovato nelle birre di Hammer: c’è un generale carattere torrefatto, un po’ confuso, sostenuto dal dolce del caramello e della frutta sotto spirito. Suggestioni di liquirizia, caffè e cioccolato fanno ogni tanto capolino in una imperial stout bilanciata ma poco precisa: l’alcool è molto ben gestito e apporta quel calore atteso e necessario ad accompagnare le tostature e frutta sotto spirito nel finale di media durata. Una birra discreta ma piuttosto deludente, soprattutto se contestualizzata nella gamma di un birrificio che mi ha abituato a ben altri livelli: mi riferisco in primis alla pulizia ed alla definizione dei singoli elementi, ma in generale anche la Daarbulah si aggiunge alla lista delle imperial stout italiane non molto corpose e non molto viscose, da bere anziché da sorseggiare in tutta tranquillità. Ed è una scelta che va bene se il mercato di riferimento è quello nostrano, ma i grandi palcoscenici europei richiedono ben altro. 
Da quanto ho capito ho assaggiato una bottiglia del primo lotto di Daarbulah, al quale ne sono seguiti altri che hanno apportato alcuni correttivi: il prossimo weekend al Dark Fest organizzato da Hammer avrete invece l’occasione di assaggiare la Daarbulah 2.0, una versione più alcolica (10.5%) e corposa.  E prima o poi la troverete anche sulle pagine del blog.
Formato: 33 cl., alc. 9%, IBU 60, lotto 2798, imbott. 11/2016, scad. 30/11/2017.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 12 novembre 2017

Magic Rock / Modern Times Timequake

Nel 1997 lo scrittore Kurt Vonnegut immaginò un cronosisma (timequake, in lingua orginale): un terremoto temporale che il 13 febbraio 2001 colpisce l'universo, in crisi di autostima, riportando la terra ed i suoi abitanti dieci anni indietro. E' in teoria una grande occasione per rivivere il passato ed evitare di ripetere gli errori fatti: ma gli esseri umani non riesco a fare altro che rifare le stesse azioni, pronunciare le stesse parole, scontare le stesse pene. Terminato il decennio provocato dal cronosisma il tempo riprende a scorre ma l'umanità piomba in uno sconforto ancora più grande, essendosi ormai abituata a vivere in assenza di libero arbitrio. 
All'ultimo romanzo di Vonnegut il birrificio inglese Magic Rock e quello californiano Modern Times probabilmente vogliono dedicare il frutto della loro collaborazione: una (New England) Session IPA alla segale che  viene realizzata alla metà dello scorso settembre quando Andrew Schwartz, birraio di Magic Rock, arriva nello Yorkshire. A dirla tutta l'idea non è proprio originalissima, visto che un paio di mesi prima Modern Times aveva realizzato un'altra NE-Session IPA alla segale in Arizona assieme al birrificio Pedal House. La ricetta della collaborazione anglo-americana prevede malti Acidulated, Golden Promise, segale e avena, lievito WYeast 1318 London Ale III, luppoli Mosaic (Cryo), Amarillo (Cryo), Citra (Cryo), Motueka e HBC 438.

La birra.
Nel bicchiere si presenta di colore arancio opalescente e forma un bel cappello di schiuma cremosa e compatta, dalla buona persistenza. Al naso c'è una buona intensità e il solito cocktail di frutta tropicale che questa volta include papaia e mango, ananas, pesca, arancia; in secondo piano, ma non troppo, ci sono note vegetali e quel dank che ricorda un po' la marijuana. Al palato è davvero impressionante l'intensità dei sapori a fronte di un ABV (4.5%) abbastanza contenuto: è una Session IPA nella quale l'impalcatura dei malti, benché impercettibile al sapore, riesce a sorreggere la massiccia luppolatua (whirpool e dry-hopping) che le conferisce un carattere spiccatamente tropicale e succoso. Pesca, mango, ananas e papaia guidano le danze accompagnate da arancia e pompelmo zuccherato: la chiusura è secca con un amaro resinoso e dank piuttosto corto e di moderata intensità, quasi delicato. La sensazione palatale è morbida, nonostante la presenza della segale, e sorprendentemente ricca per una session beer. E' leggermente sacrificata la facilità di bevuta e  viene quasi spontaneo sorseggiare questo succo di frutta anziché procedere a grandi sorsi, ottenendo tuttavia lo stresso effetto dissetante e rinfrescante. Livello molto alto per questa collaborazione tra Magic Rock e Modern Times: pulizia ed eleganza, spesso estranee a queste interpretazioni New England/juicy qui sono presenti in quantità soddisfacente.
Formato: 50 cl., alc. 4.5%, lotto 1520, scad. 08/04/2018.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 10 novembre 2017

Il Conte Gelo Gragnola

Ritorna sul blog il birrificio Conte Gelo, operativo dal 2014 a Vigevano, Lomellina, zona ad elevata concentrazione birraria: il nome che può sembrare alquanto particolare in realtà è  l’unione dei cognomi dei due proprietari, Paola e Andrea (Conte-Gelo). Entrambi appassionati birrofili e beer-hunter, hanno abbozzato a metà 2013 il progetto per aprire un proprio birrificio, idea che si è poi concretizzata ad ottobre 2014.  Il Conte Gelo ha dunque da poco compiuto un anno; in sala cottura ha trovato posto Davide Marinoni, homebrewer (con alle spalle corsi di degustazione Unionbirrai  I° e II° livello) che è poi passato nel mondo dei professionisti con un periodo di apprendistato da Bad Attitude ed un’esperienza al BQ di Milano. 
Al momento Conte Gelo produce sei birre disponibili tutto l’anno: Gragnola (Golden Ale), Lucy (Wit), La Cosacca (Ambe Ale), Gelo Jack (IPA), Valhalla (Rye IPA), Lavalanga (Tripel). Due quelle stagionali riservate ai mesi più freddi dell’anno: l’imperial stout Kamchatka e la dubbel Nonno Gelo.

La birra.
Malti Pale, Pils ed un tocco di Monaco, liveito inglese e un mix di luppoli inglesi e tedeschi: questa la ricetta della Golden Ale chiamata Gragnola. Nonostante l’etichetta faccia pensare al Far West e quindi al continente a stelle e strisce, nel bicchiere chi ama l’Inghilterra troverà un ambiente familiare. E’ dorata e leggermente velata, la schiuma è cremosa e compatta ed ha una buona persistenza. L’aroma è pulito e ancora fragrante, delicato nei suoi profumi tenui di fiori e mandarino, arancia; in sottofondo cereali e qualche lieve suggestione più “moderna” di frutta tropicale. Il corpo è quello leggero che ti aspetteresti da una session beer (4.3%); bevuta agile ma non sfuggente, poche bollicine, che scorre ad alta velocità. 
Il gusto ripropone con precisione gli elementi dell’aroma, crackers e agrumi, accenni tropicali, un finale secco e moderatamente amaro nel quale la scorza degli agrumi incontra l’erbaceo, portandosi con sé una scia di cereale che per il mio gusto personale cercherei di limitare il più possibile. Il retrogusto è corto e lascia subito il palato pulito e pronto ad affrontare un nuovo sorso. Una Golden Ale tradizionale che non rinuncia a qualche concessione moderna, ovvero tropicale: non cercate in lei intensità olfattive da dry-hopping estremo o gustative da succo di frutta. Qui c’è molta flemma inglese, una birra delicata, quasi sussurrata. Livello di pulizia buono, intensità giusta: c’è ancora spazio per migliorare ma Gragnola è una Golden Ale è capace di tenervi compagnia nel corso di un’intera giornata senza richiedere la vostra attenzione e senza mai stancarvi. Cercate ovviamente di berla fresca, il passare del tempo dalla messa in bottiglia non è un suo alleato.
Formato: 33 cl., alc. 4.3%, IBU 24, lotto 2317, scad. 09/2018.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 9 novembre 2017

DALLA CANTINA: Struise Cuvée Delphine 2011

Non è facile orientarsi tra i millesimi che il birrificio De Struise riporta in etichetta, soprattutto se si tratta di birre invecchiate in botte. L’anno non corrisponde quasi mai a quello della messa in commercio ma a quello in cui è stata effettuata la cotta e la successiva messa in botte. Spulciando in cantina leggo che la Struise Ypres Reserva 2011 è stata imbottigliata a settembre 2014, stessa data per la Cuvée Delphine 2012; la Pannepot Grand Reserva 2010 a novembre 2014, la Pannepot Grand Reserva 2011 a marzo 2016 mentre la Blue Monk Special Reserve 2013 ad ottobre 2013. Alla fine del 2016 è arrivata la  Cuvée Delphine Oscar 2015 (in bottiglie da 75 cl., due passaggi in botte diversi) mentre poche settimane fa (quindi 2017) è arrivata la  Cuvée Delphine 2015 nel solito formato da 33 cl.
Potete solo ipotizzare che lasso di tempo trascorso dal millesimo in etichetta a quello della data d’imbottigliamento sia corrispondente alla durata dell’invecchiamento in botte: possibile che la Pannepot Grand Reserva 2011 abbia passato quasi cinque anni in botte prima di essere messa in bottiglia a marzo 2016? Poco probabile. Siamo in Belgio e stiamo parlando di birra, quindi mai fidarsi delle apparenze: anche le etichette costano e quindi conviene utilizzarle anche “fuori annata” piuttosto che buttarle via e stamparne delle nuove. 
Detto questo, oggi dalla cantina riesumo una bottiglia di Cuvée Delphine, versione barricata (bourbon Four Roses) dell’imperial stout Black Albert; la sua storia l’avevo raccontata qui.  In origine la si voleva chiamare Four Black Roses ma dalla distilleria del  Kentucky che aveva gentilmente fornito le botti non arrivarono dei segnali incoraggianti ad utilizzarlo.  Gli Struise decisero allora di optare per Cuvée Delphine in onore di quella Delphine Boël che da anni cerca di far valere le sue ragioni e farsi riconoscere come figlia dal re Alberto II, a cui era stata invece dedicata la Black Albert; gli ultimi aggiornamenti della vicenda giudiziaria non sembrano essere favorevoli alle richieste di Delphine.

La birra.
Con tutti i se ed i ma del caso, seguendo la regola dei 24 mesi d’invecchiamento, direi che la Cuvée Delphine 2011 sia stata messa in commercio nel 2013; a quel tempo l’etichetta non riportava la data d’imbottigliamento ma solo il lotto di produzione, ovvero 271515062011. La riesumo dalla cantina per vedere se i quattro anni passati al buio e al fresco le hanno fatto bene. Interessante sarà il confronto con la Cuvée Delphine 2012 bevuta qualche tempo fa ad un anno dalla messa in bottiglia.
Il tempo ha influito sicuramente sulla schiuma, cremosa e abbastanza compatta ma di dimensioni piuttosto contenute rispetto allo splendore di una versione giovane. L’aroma è pulito e intenso, marcatamente dolce e ricco di melassa, caramello brunito, bourbon, uvetta e prugna sotto spirito, qualche nota di legno e di carne. Manca forse un po’ di complessità e di profondità. Ha retto invece benissimo il mouthfeel: corpo pieno, poche bollicine, una consistenza ancora viscosissima, masticabile e avvolgente, una coltre nera sostenuta da una decisa componente etilica che riscalda con il vigore del bourbon senza arrivare mai a bruciare. Al gusto le tostature si sono affievolite e il dolce è ancora più evidente: uvetta e prugna, ciliegia sotto spirito, melassa, fruit cake; nel finale spunta anche una curiosa nota salina, un tocco legnoso, un amaro molto delicato di tostature e caffè. Una breve intermezzo prima del lunghissimo retrogusto ricco di bourbon e frutta sotto spirito. 
Birra che ha sicuramente superato il suo picco ed ha intrapreso – senza fretta - la fase calante, spostandosi un po’ troppo sul dolce nonostante il bourbon sia ancora in grado di contrastarlo. La bevuta rimane potente ed intensa, meno complessa rispetto ad una Delphine più giovane ma sempre di alto livello; a quattro anni dalla nascita la Cuvée Delphine 2011 è ancora quella compagna di una fredda serata d’inverno che immaginavate prima di stapparla.
Formato: 33 cl., alc. 13%, lotto 271515062011, scad. 12/2017.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 8 novembre 2017

Dark Star Revelation

Mancava sul blog da tanti, troppi anni: Dark Star Brewing Company, attivo dal 1987 ed uno dei precursori della craft beer revolution inglese, soprattutto per quel che riguarda l’utilizzo di luppoli americani. Il nanobirrificio nasce in un angolo della cantina dell’Evening Star Pub di Brighton, una sorta di istituzione per gli appassionati di Real Ale, di proprietà dell’imprenditore Peter Halliday, del publican Peter Skinner e del birraio Rob Jones; i clienti sembrano apprezzare e l’impianto, poco più grande della pentola di un homebrewer, è insufficiente a soddisfare le richieste che iniziano ad arrivare anche da altri pub. Il birrificio viene inizialmente chiamato Skinners, ma visto che in Cornovaglia ne esisteva già uno con lo stesso nome, viene scelto il nome Dark Star. Così Rob Jones aveva chiamato la sua bitter quando lavorava alla Pitfield Brewery di Londra, ispirandosi all’omonima canzone dei Grateful Dead.  
Nel 2001 viene inaugurato ad Ansty il nuovo impianto da 17 ettolitri e viene assunto il birraio Mark Tranter che resterà alla guida di Dark Star sino al 2013, anno in cui si metterà in proprio fondando il birrificio Burning Sky. Nel 2010 c’è un nuovo trasloco, quello nella sede attuale di  Partridge Green, venti chilometri a nord ovest di Brighton, nel quale trova posto il nuovo impianto da 50 ettolitri; nel 2011 viene acquistato il pub The Partridge, sempre a in Partridge Green, che funziona come taproom del birrificio. Per anni Dark Star ha privilegiato fusti e cask (90%) rispetto alle bottiglie: nell’agosto 2015 sono arrivate le prime lattine con il debutto dell’American Pale Ale. Attualmente l’head brewer è Andy Paterson, alle spalle tre anni di esperienza presso BrewDog.

La birra.
Nel 2012 Dark Star annuncia la nascita di una nuova American Pale Ale (5.7%) chiamata Revelation. Il birraio Mark Tranter raccontava: “otto o nove anni fa, quando feci la mia prima American Pale Ale, avevo intenzione di darle un contenuto alcolico del 5.7%; parlando con publican e distributori decidemmo di abbassarlo al 4.7% per meglio soddisfare le richieste del mercato inglese. Nessun problema, ma quel  “5.7%” è sempre rimasto nei miei pensieri e, ora che il mercato domestico è evoluto e la gente è disponibile a bere birre più alcoliche in minor quantità,  pensiamo sia il momento giusto per riproporlo”. La ricetta prevede malto Best Pale Ale e un mix di luppoli americani che include Warrior, Cascade, Columbus, Crystal  e Chinook; visto il grande successo riscosso dalla American Pale Ale, a novembre 2015 la Revelation ha anche debuttato nella versione lattina, corredata di iscrizione Pro amore humulus (per amore del luppolo) e decorata dalla bella grafica pensata da Lon Chan, illustratore free lance di Brighton. 
All’aspetto è di colore oro antico quasi limpido; la bianca schiuma è cremosa e compatta ed ha un’ottima persistenza. L’aroma è pulito ma poco e intenso e non particolarmente fresco; pompelmo zuccherato, arancia, profumi floreali. Non c’è molto su cui soffermarsi ed è quindi meglio avvicinare subito il bicchiere alle labbra: il gusto è molto più intenso ed è guidato da un ottimo equilibrio.  La base maltata non è invadente ma è ben percepibile: miele, qualche accenno biscottato e caramellato supportano la generosa luppolatura che ripropone pompelmo e arancia, mentre il finale amaro oscilla tra il resinoso e il vegetale ed è di buona intensità. Un’American Pale Ale semplice, pulita e molto bilanciata, poco carbonata, morbida e gradevole al palato, capace di accompagnarvi con soddisfazione nel corso di un’intera serata reclamare particolare attenzione.  La lattina in questione non è molto valorizzata dalla freschezza: lotto di produzione o data di scadenza non sono indicati, ma l’impressione bevendola è che abbia già diversi mesi sulle spalle.
Formato: 33 cl., alc. 5.7%, IBU 65, lotto e scadenza non riportati.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.