giovedì 29 giugno 2017

Anchorage Mosaic Saison 2015

Il caldo dell’estate chiama nel bicchiere birre fresche e leggere, secche e dissetanti, magari piacevolmente acidule: praticamente le stesse birre che i contadini della Vallonia bevevano per dissetarsi durante le lunghe giornate di lavoro estivo nei campi in un periodo dell'anno in cui la qualità dell'acqua non era certamente ottimale: le saison.  
In Alaska il problema delle elevate temperature non è così importante ma è in questo stato americano che ci rechiamo per tornar a far visita a quella Anchorage Brewing Company che vi avevo presentato qualche mese fa.  La fonda nel 2011 Gabe Fletcher guidato dalla passone per le birre acide e a fermentazione spontanea, l’utilizzo di lieviti selvaggi. In assenza d'impianto produttivo, Fletcher affitta inizialmente uno spazio all’interno del Snow Goose Restaurant and Sleeping Lady Brewing Co; il mosto viene prodotto al piano di sopra, dove si trova l’impianto, e poi trasferito attraverso tubazioni direttamente al piano di sotto dove Fletcher ha posizionato 250 botti, due foudres da 70 litri, due tank in acciaio, una linea d’imbottigliamento e la cella frigorifero. Anchorage parte dunque come una sorta di beerfirm che fermenta il mosto in foudres di legno con diversi ceppi di lievito belga e poi effettua una rifermentazione in botte aggiungendo brettanomiceti: tre mesi, sei mesi, un anno.. ogni diversa birra ha il suo tempo necessario.  Nel frattempo Fletcher lavora senza troppa fretta alla costruzione del proprio birrificio, poi inaugurato nella primavera del 2014; la nuova location all’incrocio tra la 148 W e la 91st Avenue dispone di 750 metri quadri ed una suggestiva tasting room che è praticamente posizionata in mezzo ai grandi foudres.  Sulle pareti, il motto scelto da Fletcher: “where brewing is an art, and Brettanomyces is king“
Anchorage ha debuttato con la Whiteout Wit, una blanche prodotta con Sorachi Ace, scorza di limone, coriandolo, pepe e poi invecchiata in botti ex-vino Chardonnay; nelle stesse botti – e relativi lieviti selvaggi -  ci è poi finita la Bitter Monk, una Double IPA prodotta con Apollo e Citra. La successiva Love Buzz Saison viene invece ospitata in botti ex-Pinot nero, mentre la Anchorage numero cinque è stata la The Tide and Its Takers, una tripel che utilizza Sorachi Ace e  Styrian Golding per poi fermentare e maturare nelle botti di Chardonay. A maggio 2015 Fletcher annuncia l’arrivo della Mosaic Saison, giusto in tempo per la festa della mamma che negli Stati Uniti si celebra la seconda domenica di maggio.

La birra.
Il luppolo protagonista è ovviamente lui, il Mosaic, ma gran parte del lavoro lo fanno i due ceppi di lievito saison e i due di brettanomiceti che vengono usati per la fermentazione, ovviamente in foeders di legno.
Nel bicchiere proprio una bottiglia di quel primo lotto del 2015, che si presenta di colore arancio pallido con qualche sfumatura dorata; l'esuberante schiuma bianca è un po' grossolana ma mostra una buona persistenza nel bicchiere. Il naso regala un pulito ed intrigante ventaglio di profumi nel quale coesistono legno, arancia, pompelmo zuccherato, mango, ananas e la componente funky che richiama il sudore, la cantina, il formaggio, il legno. Vivace ma forse bisognosa di qualche bollicina in più, scorre bene al palato rinfrescandolo con acidità ed asprezza moderate che non presentano particolari asperità: pane, pesca e polpa d'arancia costituiscono il versante dolce al quale si contrappongono l'asprezza della scorza di limone e una lieve acidità lattica. Le note funky e rustiche dei brettanomiceti emergono solamente quando la birra si scalda e aggiungono a questa saison una piacevole complessità, anziché spigoli difficili da smussare per chi la trova nel bicchiere. 
A due anni dall'imbottigliamento la componente luppolata ha ovviamente perso smalto ma la bevuta risulta ugualmente piacevole, ben bilanciata tra eleganza e rusticità. Non è il nirvana che il prezzo della bottiglia indurrebbe ad immaginare ma il livello è indiscutibilmente alto.
Formato: 75 cl., alc. 6.5%, IBU 30, lotto 1, imbott. 05/2015, prezzo indicativo 20.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 28 giugno 2017

Birrificio Birfoot: Albus & Aztec

Dalla Basilicata, una delle regioni a più bassa densità “birraria”, sono finalmente arrivati in questi ultimi due anni alcuni segnali di vita: il database di Microbirrifici.org annota la nascita di cinque birrifici e due beerfirm. La città di Matera annovera oggi due di questi marchi senza impianto (B79 e Brewnerd) e dall’ottobre 2016 anche un birrificio chiamato Birfoot, che ha trovato casa all’interno del centro commerciale Le Botteghe, edificio che un tempo ospitava il mattatoio comunale. 
Alla guida dell’impianto Spadoni da 5 HL affiancato da due fermentatori da 15 HL c’è Giovanni Pozzuoli che, come racconta il blog Berebirra, ha iniziato a produrre birra tra le mura domestiche sin da quando aveva 19 anni. Vicino ai trenta, dopo un corso professionale alla Dieffe di Padova e qualche stage in altri birrifici, ha deciso di lanciarsi nell’avventura Birfoot. Tre le birre attualmente in produzione: l’American Pale Ale Hop Jungle, la Blanche Albus e la English Strong Ale Aztec. Il birrificio dispone di un punto vendita e, cosa interessante, un piccola “taproom” esterna chiamata Area Birfoot. Il progetto è comunque quello di arrivare a trasformare il birrificio in una sorta di brewpub: questo è quanto mi ha raccontato Giovanni, che ringrazio per avermi anche inviato due birre da assaggiare.

Le birre.
Partiamo dalla blanche chiamata Albus, la cui ricetta prevede tra l'altro l’utilizzo di pepe rosa, coriandolo e scorza d’arancio, fiocchi di frumento e d'avena; si presenta nel bicchiere del classico color giallo paglierino, opalescente, sormontato da una generosa testa di schiuma bianca, cremosa e compatta, molto persistente. Il naso è pulito e presenta un bouquet piuttosto equilibrato nel quale convivono profumi floreali, di coriandolo e pepe, scorza d'arancio, banana e una lieve nota acidula e fresca del frumento. Al palato è leggera e piuttosto scorrevole: le bollicine non sono poche ma personalmente ne vedrei bene qualcuna in più: purtroppo il gusto non presenta la stessa ricchezza dell'aroma e indulge un po' troppo sulla banana, accompagnata dal coriandolo, crackers e una remota presenza di agrumi. La birra è priva di difetti ma risulta un po' monotona e chiude con una lieve nota amaricante terrosa; la sua facilità di bevuta è quella che ti aspetteresti di trovare in una blanche, mentre a mio parere una maggior acidità e una maggior secchezza aumenterebbero il suo potere dissetante e rinfrescante. Bello il naso, espressivo e coinvolgente, un po' sottotono il gusto con il risultato di una blanche che fa il suo dovere ma che a un palato esperto risulta un po' debole di carattere.

Passiamo alla Aztec, una strong ale (7%) d'ispirazione inglese ambrata, piuttosto carica e impreziosita da  intense sfumature rossastre: la schiuma color ocra è abbastanza fine e cremosa, con una buona persistenza. Il naso è pulito e ricco del dolce di caramello, frutta secca, biscotto e toffee, prugna e uvetta, ciliegia. Al palato non ci sono grossi cambiamenti e il gusto ripropone con coerenza ma con minor pulizia caramello, biscotto e uvetta a formare una bevuta morbida e gradevole: corpo medio, poche bollicine, è facile sorseggiarla senza incontrare spigolature. Il dolce è notevole ma è ben bilanciato da una buona attenuazione e da un finale amaricante nel quale la frutta secca, mandorla in primis, è protagonista a discapito della componente terrosa. Bene l'intensità de sapori, bene la gestione della componente etilica che riscalda senza andare mai sopra le righe: la pulizia, sopratutto in bocca,  è secondo me l'aspetto sul quale c'è da lavorare maggiormente.
Nel complesso due birre di livello abbastanza buono per un birrificio che deve ancora spegnere la prima candelina: c'è una buona aderenza agli stili dichiarati e nel bicchiere ci sono due birre facili da bere che possono facilmente avvicinare al mondo della "birra artigianale" chi ancora non lo conosce. Per andare oltre e farsi notare in un mercato nel quale bazzicano quasi un migliaio di attori, tra birrifici, brewpub e beerfirm c'è ancora del lavoro da fare, sopratutto su personalità e carattere. 

Nel dettaglio:  
Albus: formato 33 cl., alc. 4.8%, IBU 15, lotto 0217, scad. 04/18, prezzo indicativo 3.60 Euro.
Aztec: formato 33 cl., alc. 7%, IBU 30, lotto 0317, scad. 05/18, prezzo indicativo 3.80 Euro

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 27 giugno 2017

[Le birre rivisitate]: Glazen Toren Saison d'Erpe-Mere

Di solito sul blog presento spazio sempre birre diverse senza ritornare su quelle già ospitate e il motivo è abbastanza semplice: non credo che a chi legge interessi ritrovare  la stessa birra a breve distanza di tempo.  
Penso che sia però interessante confrontare gli appunti di bevuta a distanza temporale: non solo a volte cambiano le birre ma, soprattutto, cambia il palato di chi beve sotto l’influenza dell’esperienza e di quello che il mercato propone. E cambiano anche i birrifici: s'ingrandiscono, vengono acquistati, evolvono! 
Mi ritrovo quindi a bere una  Saison d'Erpe-Mere di De Glazen Toren per metterla a confronto con quanto da me annotato quattro anni fa. Una saison prodotta dal 2004, anno in cui il piccolo birrificio venne fondato da Jef Van De Steen e Dirk de Pauw assieme al socio Mark De Neef; Van De Steen è un personaggio che non credo abbia bisogno di presentazioni agli appassionati di birra belga, e non solo. Ai neofiti consiglio la lettura di qualcuno dei sui libri, purtroppo non disponibili in italiano, come ad esempio  Geuze & Kriek, The Secret of Lambic, Belgian Abbey Beers e Trappist: The Seven Magnificent Beers. 
La Saison d'Erpe-Mere dovrebbe utilizzare malto Pils (87.5%) e frumento maltato (12.5%), luppoli Hallertau (belga), Saaz (ceco) e Target (inglese):  una saison abbastanza giovane, nata nel 2004, che tuttavia ritengo personalmente già un “classico”. Una saison prodotta da un birrificio fiammingo che riesce tuttavia a catturare perfettamente lo spirito (francofono) della Vallonia e dell’Hainaut, la culla natale di questo stile-non-stile brassicolo: “è una vera Saison, molto più vera di molte di quelle prodotte nell’Hainau” disse Marc Rosier della Brasserie Dupont dopo averla assaggiata per la prima volta. “Non potevo ricevere un complimento migliore da Dupont”, ammette Van De Steen.

La birra.
Il suo colore è quello dell’estate, anche se non è il dorato del sole: arancio pallido e opaco, a ricordare il colore dei campi estivi sui quali si adagia la paglia “baciata” dal tramonto. Sopra di lei un’esuberante testa di candida schiuma bianca, cremosa e compatta, dalla lunga persistenza. Il naso apre con la delicata speziatura del lievito che ricorda il pepe e il coriandolo: si susseguono la scorza d’arancia, accenni di banana e cereali, fiori, una imprescindibile nota rustica che richiama la paglia, la terra, la campagna. Agile, vivacemente carbonata, piena di vita; in bocca scorre a grande velocità come una saison dovrebbe sempre fare, rinfrescando il palato con la sua delicata acidità. Pane e crackers, un tocco di miele, arancia e banana danno forma ad una bevuta ruspante e un po’ ruvida, che pungola il palato ad ogni sorso:  splendida la chiusura, molto secca e rustica, con un amaro di moderata intensità nel quale le note terrose incontrano quelle della scorza d’agrumi. Grande intensità, gran lavoro del lievito e grande saison, perché una saison si fa con i lievito. Pulita e rustica al tempo stesso, facilissima da bere, ideale compagna dei giorni d’estate: nella mia personale classifica di gradimento rimane ancora un mezzo gradino sotto la Dupont, anche se quest’ultima in Italia è spesso un po’ maltrattata da chi la importa e/o distribuisce. 
E il non trovare quasi nessuna differenza rispetto agli appunti di bevuta di quattro anni fa è ovviamente un grande merito: una birra coerente con se stessa e costante, una certezza da ritrovare in ogni momento.
Formato: 75 cl., alc. 6.5%, imbott. 21/01/2017, scad. 21/01/2019, prezzo indicativo 7.00-9.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 26 giugno 2017

BioNoc' Lipa

Ritorna sul blog un birrificio che avevo “ospitato” qualche anno fa a pochi mesi dal debutto: si tratta di Bionoc, sede a a Mezzano di Primiero, estremità orientale del Trentino, a pochi chilometri dal confine con il Veneto. Il nome scelto identifica semplicemente i due fondatori: Fabio (Bio) Simoni e Nicola (Noc) Simion. Un percorso iniziato nel 2003 quando Fabio frequenta alcuni corsi alla Università della Birra di Azzate e decide di convertire il ristorante di famiglia nella Birroteca Sangrillà, un locale a vocazione birraria che arriva a far ruotare anche un migliaio di diverse etichette l’anno.  Nicola è uno dei clienti abituali, un homebrewer con il sogno di aprire un microbirrificio che lentamente contagia anche Fabio: l’homebrewing viene affiancato da viaggi birrari in Inghilterra e America e da un’esperienza presso il birrificio Fravort, in Valsugana. Nel 2012 i due soci sarebbero pronti a partire ma la burocrazia rallenta di qualche mese l’esordio di Bionoc che avviene solamente nel 2013: in quattro anni il birrificio è comunque riuscito ad aumentare la propria produzione da 200 a 1200 ettolitri.  
Le etichette sono sostanzialmente suddivise in due grandi categorie: le birre “di sempre”, disponibili tutto l’anno, ovvero Goldon Ale, Alta Vienna, Staion (Saison), Lipa (IPA) e Nociva (Scotch Ale). Le birre stagionali: La Guana (una Strong Dark Ale natalizia) Napa (American Pale Ale), Meingose e Raucha (una Maerzen affumicata). 
D’interesse è anche il progetto “Asso di Coppe” interamente dedicato alla produzione di birre acide e agli affinamenti in legno: si avvale della collaborazione dell’homebrewer Nicola Coppe, appassionato di batteri e lieviti selvaggi.  Per evitare qualsiasi  contaminazione il locale dedicato agli invecchiamenti in legno è stato posizionato a circa tre chilometri dal birrificio, in località Transacqua: è qui che si trova La Boutique de la Bot, in centro storico, di fronte alla più antica chiesa della valle. I risultati sembrano essere davvero incoraggianti:  all’ultima edizioni di Birra dell’Anno è arrivata una medaglia d’oro nella categoria riservata alla birre acide.

La birra.
Non sono molte le interpretazioni classiche (ovvero inglesi) dello stile India Pale Ale che abbiamo in Italia, e non solo: sono quasi sempre i luppoli americani o di altri continenti extra-europei ad essere utilizzati dai birrai. Molto apprezzabile quindi la scelta di Bionoc di cimentarsi con luppoli inglesi e malti Pale e Crystal.  Bottiglia nata lo scorso marzo e birra che si presenta nel bicchiere di un color ambrato piuttosto carico sormontato da una generosa testa di schiuma, cremosa e compatta, dall’ottima persistenza. Al naso le note di terriccio umido s’accompagnano a quelle del caramello, della marmellata d’arancia, della frutta secca, soprattutto mandorla.  Il gusto prosegue un percorso alquanto “british” nel quale i malti la fanno da padrone con note caramellate, biscottate e “nutty”; marmellata d’arancia e accenni d’uvetta contribuiscono nel dare forma ad una bevuta piuttosto dolce alla quale si contrappongono una buona attenuazione e un finale amaricante terroso che tuttavia non incide quanto dovrebbe. C’è anche un leggerissimo diacetile, comunque perdonabile.  
Una English-IPA abbastanza accomodante che indulge sul dolce rendendosi facilmente accessibile: pulita e profumata, mette in evidenza una buona facilità di bevuta nascondendo i suoi gradi alcolici (6%). Pur senza tirare in ballo confronti con interpretazioni più spinte dello stile (spesso americane) a questa birra manca oggettivamente un po' d'amaro: alzandone un po' l'asticella la birra otterrebbe maggior equilibrio e carattere.
Formato: 33 cl., alc. 6%, lotto 27, scad. 08/2018, prezzo indicativo 4.00-4.50 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 22 giugno 2017

Cantillon Kriek 2015

Il breve viaggio tra birre e ciliegie si conclude con la kriek di Cantillon, birrificio attivo dal 1900 a Brussels che credo non abbia bisogno di presentazioni. L’unica raccomandazione è quella di non mancare una visita al birrificio (nonchè Musée Bruxellois de la Gueuze) se vi trovate nella capitale belga: un’esperienza al di fuori dal tempo tra impianti, legno, polvere, ragnatele e bottiglie accatastate che vi ripagherà della passeggiata per un quartiere non proprio bello, per dirla in modo gentile.
Negli anni 70 il testimone passò nelle mani di Jean-Pierre Van Roy (sposo di Claude Cantillon) che rilanciò l’azienda riuscendo pian piano a rilevare le quote societarie dagli altri membri della famiglia Cantillon, poco propensi a continuare un'attività (produttore di lambic) che secondo loro non aveva nessun futuro. La domanda di gueuze e lambic era in forte e calo e Jean-Pierre, per restare a galla, iniziò ad ingentilire i propri prodotti con dolcificanti artificiali per renderli più simili ai gusti dei bevitori di allora. Il cambiamento non ottenne l’effetto (economico) sperato e nel 1978 Cantillon ritornò fortunatamente su suoi passi eliminando i dolcificanti e ritornando ad una produzione tradizionale di gueuze e lambic alla frutta. A metà degli anni ’80 l’export verso gli Stati Uniti iniziò a dare un po’ di ossigeno ad un birrificio che aveva operato in perdita per molti anni; a partire dal 1989 il figlio di Jean-Pierre e Claude, Jean, affiancò i genitori apprendendo sul campo il mestiere. Negli anni ’90 Cantillon abbandonò infine i grandi foeders di legno ed iniziò ad effettuare i blend delle annate di lambic e le aggiunte di frutta in tini di acciaio.

La birra.
La kriek di Cantillon viene prodotta aggiungendo le ciliegie Morello intere (200 grammi per litro) ad un blend di lambic; per ovvie esigenze produttiva la frutta fresca viene subito surgelata ed essere utilizzata nel corso dell’anno per produrre diversi lotti di kriek. Le ciliegie vengono messe a macerare per un paio di mesi con lambic di due anni d’età; al momento dell’imbottigliamento viene anche aggiunta una piccola quantità di lambic giovane. Le etichette delle bottiglie destinate al mercato europeo riportano la scritta "100% lambic Bio" assente invece su quelle che vengono esportati negli Stati Uniti: Jean Van Roy dichiara di utilizzare dal 1999 solo materie prime, ciliegie incluse, provenienti da agricoltura biologica ma questi ingredienti non sono stati ancora classificati come biologici dalla USDA, il dipartimento dell'agricoltura degli Stati Uniti.
Il bicchiere si tinge di un intenso colore rosso cremisi sormontato da una cremosa schiuma biancastra, abbastanza compatta ma non molto persistente. Il naso non offre molto e odora un pochino di "tappo":  dimessi profumi funky, di cantina e di polvere, legno, amarena cotta e ribes rosso, il dolce della ciliegia che cerca di emergere quando la kriek si scalda. 
La bevuta è vivacemente carbonata e perfettamente agile, scattante: anche qui la ciliegia è rilegata in secondo piano dalle note lattiche e da quelle aspre del limone. Una kriek spigolosa e ruvida, a tratti tagliente, che necessita di una temperatura piuttosto elevata per far emergere un sottofondo dolce di ciliegia e di fragola.  Qualche spunto acetico e una lieve astringenza legnosa finale limitano ulteriormente la facilità di bevuta di una birra che mantiene comunque un elevato potere rinfrescante e dissetante. Bottiglia che delude un po' per la pochezza di profondità e complessità, sopratutto se penso al ricordo dello stesso millesimo (2015) bevuto a Brussels oltre un anno fa: pieno e ricco di ciliegia, elegante, piacevolmente in equilibrio tra dolce ed aspro, tra frutta e "funky" (che dopo quasi due anni di bottiglia la ciliegia fosse meno in evidenza non è ovviamente una sorpresa). Tappo di sughero bagnato all'esterno e tappo a corona con qualche lieve muffa: l'imputato numero uno per una bottiglia poco in forma potrebbe essere in questo caso il signor sughero?
Formato 37.5 cl., alc. 5%, imbottigliata 18/06/2015, scad. 18/06/2025, pagata 4.80 Euro (birrificio)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 21 giugno 2017

Oud Beersel Oude Kriek Vieille 2014

Dopo quelle di Lindemans e 3 Fonteinen è il momento di assaggiare la Oude Kriek di Oud Beersel e continuare questo breve viaggio tra birra e ciliegie. "Anno 1882” è la scritta che compare sul logo di Oud Beersel: la sua storia inizia quando Henri Vandervelden apre un birrificio nel paese di Beersel, alle porte di Brussels, e finisce nel 2002 quando Danny Draps, pronipote del fondatore, decide di sospendere un'attività ormai poco redditizia e che necessitava di grossi investimenti per poter continuare.  Mentre il mondo del lambic non si capacita per la scomparsa di un altro dei suoi storici produttori, un appassionato decide di darsi da fare. Gert Christians non può credere che presto dovrà rinunciare alla sua abitudine quasi quotidiana di bere una Beersel Oude Geuze ai tavoli del Le Zageman di Brussels e, assieme all'amico Roland De Bus, decide di acquistare il marchio nel 2003 lanciando contemporaneamente la Bersalis Tripel prodotta da Huyge per raccogliere i finanziamenti necessari a rimettere in piedi il birrificio. Nel frattempo il lambic secondo la ricetta di Vandervelden viene prodotto da Frank Boon e portato poi a maturare nelle botti di legno a Beersel, per poi essere riportato da Boon per il blend finale e l'imbottigliamento. Il 16 marzo del 2007 vengono ufficialmente commercializzate le prime Oude Geuze e Oude Kriek di Beersel, mentre pochi mesi dopo Roland De Bus rassegna le dimissioni ma viene prontamente sostituito dal padre di Gert, Jos Christiaens, da poco in pensione. 
Tornando alle kriek, sono attualmente tre quelle prodotte da Oud Beersel se escludiamo le più care commercializzate con il marchio Bzart. Per scegliere cosa versare nel bicchiere è fondamentale prestare attenzione alla presenza dell’aggettivo Oude, ovvero vecchio.  Acquistando la semplice kriek (3.5% ABV), come nel caso di Lindemans, vi troverete nel bicchiere un lambic addolcito con fruttosio ed edulcorante artificiale (Acesulfame K) per il quale vengono utilizzati 200 grammi di ciliegie Morello per litro. Più raro (e pregiato) è invece la solita variante Schaarbeekse Oude Kriek prodotta con le omonime ciliegie raccolte a nord di Brussels, sempre difficili da reperire: il primo lotto di circa 1500 bottiglie  (7.2% ABV) è stato prodotto nel 2016 aggiungendo le ciliegie ad un blend di lambic di 1 e 2 anni e facendolo poi maturare in botti di legno. Di più facile reperibilità anche in numerosi supermercati è invece il classico Beersel Oude Kriek Vieille (6.% ABV) prodotto con 400 grammi di ciliegie Morello per litro che vengono aggiunte al lambic: assaggiamolo.

La birra.
Si presenta all’aspetto di un intenso rosso che oscilla tra il rubino ed il porpora: la schiuma, leggermente macchiata di rosa, è cremosa e compatta e mostra una persistenza davvero notevole, se confrontata a quella delle altre kriek assaggiate nei giorni scorsi. Anche se viene utilizzata una varietà di ciliegia aspra, al naso domina il dolce con una sensazione che ricorda più lo sciroppo che la “pienezza” del frutto maturo: ad affiancarlo ci sono profumi di lampone e mirtilli. La componente funky/rustica è quasi assente ed anche l’asprezza (amarena, ribes rosso) rimane molto in secondo piano: bene la pulizia e intensità degna di nota in una bottiglia che ha oltre due anni di vita. La bevuta inizia dallo stesso dolce di ciliegia per prendere poi rapidamente la strada dell’asprezza delle amarene, del limone e del ribes rosso: anche al palato la componente rustica è quasi assente, privilegiando la frutta. La sensazione palatale è perfetta, con grande scorrevolezza e vivaci bollicine a rendere la bevuta scattante: chiude molto secca con una punta amara di mandorla e scorza di limone. Alcool fantasma, bene la pulizia ma l’eleganza non è al livello della 3 Fonteinen a causa di una ciliegia che ricorda un po’ troppo lo sciroppo. Una kriek accessibile che nella sua asprezza non è mai tagliente e riesce a farsi accettare anche da palati poco avvezzi allo stile: il prezzo e la facile reperibilità in Belgio costituiscono un ulteriore bonus che contribuisce a definire un soddisfacente rapporto qualità-prezzo. Non è l'olimpo ma il livello è comunque alto.
Formato: 37.5 cl., alc-. 6%, lotto 43181, scad. 14/11/2034, pagata 3.35 Euro (supermercato, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 20 giugno 2017

LoverBeer Saison De L'Ouvrier Griotta 2015

Continuiamo il breve viaggio tra birra e ciliegia e rientriamo nei confini nazionali per far virtualmente visita a Loverbeer, creatura alla quale  Valter Loverier ha dato vita (sarebbe il caso di dirlo, visto l’utilizzo di lieviti spontanei) nel 2009 a Marentino (TO). Ritorniamo a parlare della Farmhouse Ale  della casa, quella Saison De L'Ouvrier,  ovvero “del lavoratore”, di quei contadini  (valloni) per i quali queste birre (saison) un tempo rappresentavano un’imprescindibile forma di sostentamento durante il duro lavoro estivo nei campi, molto più salubre dell’acqua spesso portatrice di malattie: ma “Louvrier” pare anche essere il cognome originale della famiglia di Valter, proveniente dalla regione del Calvados e poi mutato in Loverier una volta giunti in Piemonte.  
La birra viene prodotta con i lieviti selvaggi isolati dalla BeerBera, una sour ale prodotta con il 20% di mosto di uva Barbera che fermenta spontaneamente con i microrganismi  presenti sulla buccia dell’uva stessa. La ricetta prevede anche  una percentuale di frumento non maltato ed un dry-hopping di East Kent Goldings; la maturazione avviene poi in botte di legno. La Saison De L'Ouvrier rappresenta anche la base per sperimentare con quattro ingredienti: un frutto (la ciliegia), un vegetale (il cardo), un erba (timo serpillo) e un fiore (violetta). 
La Saison De L'Ouvrier Griotta viene prodotta con le omonime ciliegie acide (o visciole) di Pecetto e Trofarello; i frutti vengono aggiunti interi alla birra nel corso di una fermentazione e successiva maturazione in tini di rovere che dura per circa sei mesi. In un anno ne vengono mediamente prodotti duemila litri.

La birra.
Il suo colore riflette quello del frutto che le dà il nome: accesa di rosso opaco, forma un discreto cappello di schiuma macchiata di rosa che si dissolve molto rapidamente. Il naso di questo millesimo 2015 non brilla per intensità: accenni rustici e di acido lattico affiancano deboli profumi di amarena e ribes rosso senza tuttavia far venire l’acquolina in bocca a chi ha le narici sul bordo del bicchiere. Fortunatamente la bevuta si rivela di tutt’altro livello: sostenuta da un delicato tappeto dolce di ciliegia, la bevuta regala soprattutto l’asprezza dell’amarena, del ribes rosso, della mela acerba e del limone. Qualche bollicina in più la renderebbe senz’altro più rustica e vivace al palato, ma è un vezzo che le si perdona facilmente: chiude con un brevissimo accenno amaricante (mandorla, lattico) regalando una bevuta di grande secchezza, rinfrescante e dissetante. Alcool (6%) fantasma, retrogusto corto ed aspro di frutti rossi e palato già pronto ad accogliere un altro sorso; bottiglia penalizzata da un naso un po’ debole ma che subito si riscatta in bocca trasportando idealmente il bevitore sui campi popolati da ciliegi. Nel bicchiere c’è la frutta, c’è la campagna circostante e c’è il sole che splende alto nel cielo.
Formato: 37.5 cl., alc. 6%, lotto PGRI02-0715, scad. 12/2022, prezzo indicativo  8.00-10.00 Euro (beershop)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 19 giugno 2017

3 Fonteinen Oude Kriek 2015

Proseguiamo con le bevute dedicate ad uno dei frutti  protagonisti del mese di giugno, la ciliegia; dopo Kriek Cuvée René di Lindemans e Bloody Mario di Retorto rientriamo in Belgio per stappare un altro lambic alla ciliegia, o kriek che dir si voglia. Spostiamoci a Berseel, comune situato alle porte meridionali di Bruxelles; nel suo passato, come in quello di tanti altri comuni della provincia del Brabante Fiammingo, c’era una lunga tradizione di produttori di Lambi(e)k e di assemblatori di Geuze (Geuzestekerij) che, con il passare degli anni, ha quasi rischiato di scomparire. Tra questi anche 3 Fonteinen, la cui storia avevo cercato di riassumerla in questa occasione: il 3 Fonteinen Cafè fu rilevato da Gaston Debelder nel 1953 ed è questa la data alla quale si fa risalire la prima kriek prodotta aggiungendo ciliegie locali ai lambic acquistati da altri produttori. Notizie certe sulle prime bottiglie provviste di etichetta sembrano risalire agli anni ’90. 
Inizialmente prodotto con le “famose” ciliegie griotte/aspre di Schaerbeek, che si trova a nord della capitale belga, anche la kriek di 3 Fonteinen ha dovuto far fronte alla scarsità di materia prima e sostituirla con una varietà proveniente dalla Polonia. Con le griotte di Schaerbeekse che riesce a reperire ogni tanto 3 Fonteinen commercializza il proprio (e raro) Schaerbeekse Kriek; da notare che nel giardino della nuova sede di Lot, inaugurata a quattro chilometri da Beersel nel settembre 2016, sono stati anche piantati alcuni ciliegi prelevati dal giardino del padre di Gaston Debelder a Schaarbeek. 
La kriek 3 Fonteinen  più facile da reperire rimane la Oude Kriek, prodotta con ciliegie intere, inclusi i noccioli (35%) che vengono aggiunte a lambic giovane e lasciate fermentare e maturare in botti di legno per un periodo che varia da sei a otto mesi prima dell’imbottigliamento. L’affinamento in bottiglia che precede la messa in commercio dura almeno quattro mesi.  Qualche tempo fa sul blog era transitata la Intense Red Oude Kriek: versione prodotta inizialmente per il Toer de Geuze 2013 con una percentuale leggermente superiore (40%) di ciliegie polacche. Per i collezionisti hanno infine particolarmente valore le bottiglie di Oude Kriek nate il 31/03/2009:  sono conosciute tra gli appassionati anche con il nomignolo di “Hot Cherry” in quanto sopravvissute all’incidente del 16/05/2009. Un termostato difettoso aveva fatto innalzare la temperatura della sala di fermentazione da 16 a 60 gradi:  il  danno fu quantificato in circa 200.000 euro tra il lambic ancora contenuto nelle bottiglie bottiglie esplose. Un numero imprecisato di bottiglie di Oude Kriek  riuscì miracolosamente a sopravvivere al disastro.

La birra.
Splendida, intensa e accesa di rosso la Oude Kriek 2015 di 3 Fonteinen forma una bella testa di schiuma rosa, fine e cremosa ma rapida nel dissiparsi. Al naso la ciliegia si sposa alle note “funky” dei lieviti spontanei e dei brettanomiceti del lambic:  le note di sudore e di cuoio sono piuttosto in sottofondo, mentre alla dolcezza del frutto rosso s’affiancano i profumi aspri di amarena, limone, mela acerba.  Al palato scorre senza intoppi e sostenuta da copiose bollicine che la rendono molto vivace e “stimolante”:  asprezza e acidità sono molto ben contrastate dal dolce della ciliegia, piena e rotonda: a tratti si ha quasi l’impressione d’affondare i denti nella polpa del frutto. A rinfrescare il palato ci pensa l’asprezza dell’amarena, del ribes rosso, della mela acerba e del limone, mentre i sapori “funky” del lambic si mantengono sempre in secondo piano in una kriek che mette in mostra una bella eleganza. Nel finale legno, qualche tannino e una lievissima astringenza: l’alcool è inesistente, la bevuta disseta solleticando il palato ad ogni sorso.  Ottima kriek, piuttosto simile alla Intense Red bevuta qualche tempo fa, venduta ad un prezzo maggiorato che secondo me non giustifica la piccola percentuale di ciliegie in più impiegate nella produzione.  Interessante è invece il confronto a distanza con la kriek di Lindemans, quest’ultima molto più aspra e tagliente, meno elegante e più ostica da bere. 
Oude Kriek di 3 Fonteinen, una grande bevuta sia per chi ama il genere che per chi si vuole avvicinarsi: il mio consiglio personale è di berla abbastanza fresca sia per qualche riguarda la temperatura di servizio che l'età anagrafica, in quanto la ciliegia tende ovviamente a scomparire con il tempo.
Formato: 37.5 cl., alc. 5%, imbott. 29/01/2015, scad. 29/01/2020, pagata 6.65 Euro (drink store, Belgio)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 16 giugno 2017

Retorto Bloody Mario

Secondo episodio di questa miniserie di birre dedicate ad uno dei frutti  protagonisti del mese di giugno, la ciliegia. Dopo la Oude Kriek Cuvée René di Lindemans stappata ieri ritorniamo in Italia, in quel di Piacenza, per far visita al birrificio Retorto già presentatovi in questa occasione. Fondato nel 2011 a Podenzano dal birraio Marcello Ceresa con l’aiuto del fratello Davide e della sorella Monica, in sei anni d’attività Retorto ha prodotto un numero di birre relativamente esiguo se lo si confronta con quello di molti altri produttori. Anziché inondare il mercato di one-shot, collaboration e quant’altro Retorto ha preferito lavorare sul perfezionamento di un numero ristretto di birre ottenendo peraltro sempre buoni riconoscimenti ai concorsi nazionali.  Alle quattro birre del debutto  Morning Glory (American Pale Ale), Krakatoa (IPA), Latte Più (Blanche), Daughter Of Autumn (Scotch Ale) si sono progressivamente aggiunte la Black Lullaby (Belgian Dark Strong Ale), i barley wine Malalingua e  Malanima, la Pacific Pale Ale  Tazmaniac. A fine 2016 è arrivata la tripel Vincent Vega e la sue versioni barricate chiamate Mia W. (whiskey)  e Marsellus W. (rum). 
Per incontrare le ciliegie facciamo un passo indietro al 2015, anno di debutto della Bloody Mario: la base di partenza è la blanche Latte Più (4.8% ABV) che viene leggermente potenziata (6.1%) e alla quale vengono aggiunte ciliegie di  Villanova sull'Arda durante la fase di maturazione. La Latte Più prevede già di suo l’utilizzo di coriandolo, scorza d’arancia e di pompelmo. Nell’anno del suo debutto ottenne il terzo posto a Birra dell’Anno nella categoria Cat 22, Birre alla frutta, dietro alla Pink di MOA e alla Rubus di Birra del Borgo.  Curiosità: per il mercato statunitense l’importatore Maritime Republic ha deciso di commercializzarla con il nome di Bloody Dario per evitare di far pensare che la birra contenesse all’interno qualche distillato, visto la sua assonanza con il famoso cocktail Bloody Mary. Meglio allora associare il sangue al regista Dario Argento i cui film hanno avuto un discreto successo anche oltreoceano.

La birra.
Ambra, rosè e rosso sono i colori che si alternano nel bicchiere, sormontato da una testa di schiuma biancastra che scompare rapidamente. La ciliegia non è il profumo che spicca all’aroma e il suo dolce deve accontentarsi di un posto in seconda fila: in primo piano troviamo piuttosto arancia e pompelmo, la delicata speziatura del coriandolo, una gradevole nota rustica e la freschezza acidula data dal frumento.  Al palato scorre bene senza nessun intoppo, ma per il mio gusto qualche bollicina in più la renderebbe ancora più vivace e gradevole.  Il gusto propone qualche reminiscenza della blanche di partenza (crackers, frumento) per poi virare rapidamente in territorio fruttato: al dolce delle ciliegie risponde l’asprezza della scorza degli agrumi che rapidamente diviene protagonista della bevuta accompagnata da qualche spolverata di coriandolo. Pulizia eccellente, grande secchezza, alcool fantasma: non ci sono molte ciliegie in questa bottiglia ma la birra garantisce un elevato effetto dissetante e rinfrescante grazie alla sua moderata asprezza ed acidità, evaporando molto rapidamente dal bicchiere. 
Formato 33 cl., alc. 6.1%, lotto 16051, scad. 09/2018, prezzo indicativo 4.00 Euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 15 giugno 2017

Lindemans Oude Kriek Cuvée René 2014

Risale al 1822 la fondazione del birrificio Lindemans: in quell’anno Joos Frans Lindemans sposa Françoise Josine Vandersmissen, figlia di un agricoltore, ed entra in possesso della fattoria chiamata Hof ter Kwade Wegen nei pressi di Vlezenbeek, venti chilometri a sud-ovest di Brussels. Notizie storiche riportano una produzione annuale di circa 500 ettolitri destinata per la maggior parte al consumo interno: come in tutte le fattorie a quel tempo la birrificazione avveniva nei mesi invernali quando c’era meno lavoro da fare sui settancinque ettari di terreno di proprietà.  
A Joos Frans succede nel 1865 Joos Frans “Duc”  Lindemans e, nel 1901, Theofiel Martin Lindemans: sotto la sua guida l’azienda riduce progressivamente le attività agricole per concentrarsi maggiormente sulla produzione di lambic e faro che viene venduto a cafè ed a blenders. Nel 1930 il timone passa nelle mani del figlio Emiel Jozef al quale spetta il compito di affrontare le tragedie della seconda guerra mondiale: in quel periodo il birrificio riesce comunque ad effettuare una cotta al mese. Con la sua morte, avvenuta nel 1956, cessano anche le attività agricole e, sotto la guida di René e Nestor, negli anni ’70 Lindemans inizia ad operare come distributore di bevande all’ingrosso.  
La popolarità di lambic e geuze è tutt’altro che in crescita  e si cerca di rimediare al calo della domanda interna iniziando ad esportare:  per conquistare il mercato il birrificio inizia ad addolcire i propri prodotti  per andare incontro alle richieste dei consumatori. Emblematico è il caso della Lindemans Kriek, per la quale le ciliegie grotte di Schaerbeek vengono sostituite da un succo di ciliegia addolcito con un edulcorante artificiale, filtrato e pastorizzato.  I nuovi lambic alla frutta hanno tuttavia grande successo facendo crescere rapidamente l’export che arriva ad assorbire il 70% della produzione grazie alle richieste dei mercati statunitense, francese, tedesco e svizzero.  Nel 1992 terminano i lavori di costruzione del nuovo birrificio che dispone di circa 1200 barili della capacità di 600 litri nei quali far fermentare e maturare il lambic. Per convincere Lindemans a far qualche passo indietro c’è voluto l’intervento dell’importatore americano Merchant du Vin: è lui a convincere René Lindemans del potenziale mercato di gueuze e lambic alla frutta tradizionali e a far produrre nel 1994 il primo lotto della Gueuze Cuvée René.
Dal 2006 Lindemans è gestita dai cugini Dirk e Geert che nel 2013 hanno avviato un nuovo e ambizioso programma di espansione da 15 milioni di euro che dovrebbe raddoppiare la capacità di produrre lambic  portandola a 170.000 ettolitri l’anno

La birra.
E' nel 1961 che Lindemans produce la sua prima kriek: a quel tempo come detto venivano usate le ciliegie griotte di Schaerbeek la cui scarsità ha poi costretto il birrificio a cercare alternative; i primi tentativi del 1973 con delle ciliegie aspre provenienti dalla Scandinavia non furono tuttavia soddisfacenti. A partire dal 1978, complice anche la scarsa domanda del mercato, Lindemans decise di abbandonare l'utilizzo dei frutti e iniziò a produrre una kriek dalla gradazione alcolica molto più ridotta (3.5%) con uno sciroppo di amarene che veniva poi addolcito con acesulfame K, sostituito nel 2012 dalla stevia. Bisognerà attendere sino al 2007 per il ritorno di una vera kriek, prodotta con ciliegie aspre provenienti da vari paesi europei che vengono aggiunte e fatte fermentare in un lambic di almeno sei mesi all’interno di grandi foeders di legno dalla capacità di 10.000 litri; dopo altri sei mesi la kriek viene imbottigliata. La rinascità è ancora una volta dovuta alla domanda del mercato statunitense e il suo nuovo nome Oude Kriek Cuvée René (6.5%) è ovviamente una dedica a quel René Lindemans che nel 2006 aveva ceduto il testimone aziendale al figlio Dirk. Attenzione quindi a non confonderla con la Lindemans Kriek (3.5%); la sua etichetta in stile Art Nouveau è opera dell'americano Charles Finkel, beer writer, artista (Finkel Design), famoso importatore di vino e birra (Merchant du Vin) e fondatore della Pike Brewing Company.

La Oude Kriek Cuvée René che vado a stappare è nata a marzo 2014 ed il suo colore è un ambrato infiammato da intense venature rosso rubino; la schiuma, leggermente sporcata di rosa, è cremosa ma abbastanza scomposta e si dissolve quasi immediatamente. Al naso la componente funky (cantina, sudore) si mescola ai profumi di ciliegie e amarene, ribes rosso, mela e limone; in sottofondo legno e anche qualche accenno d’aceto. L’asprezza annunciata dagli aromi si fa ancora più evidente al palato: è una kriek nella quale le ciliegie aspre non sono affatto dominanti ma condividono la scena con il limone, la mela acerba, il ribes rosso. La bevuta è secchissima, estremamente rinfrescante e dissetante soprattutto se affrontata a temperatura piuttosto bassa ma magari un po’ più alta da quella consigliata dal birrificio (5°): l’asprezza risulterà un po’ più attenuata. 
Lasciandola scaldare emergono legno e un dolce velo di ciliegia ma l’asprezza, accompagnata da qualche lieve spunto acetico, si fa più tagliente e alla lunga mette a dura prova il palato.  Non c’è molta complessità o profondità, non c’è l’eleganza di una kriek di Cantillon o 3 Fonteinen ma  è ugualmente una bevuta piuttosto soddisfacente e ad un prezzo ancora assolutamente accessibile, soprattutto se acquistata nel paese d’origine.
Formato: 75 cl., alc. 6.5%, imbott. 20/03/2014, scad. 20/03/2020, pagata 4,19 Euro (supermercato, Belgio)


NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 13 giugno 2017

Green Dog India Pale Ale

Debutto sul blog per i Green Dog con sede a Lugagnano d’Arda, Piacenza. Un birrificio agricolo (quindici ettari di terra coltivati ad orzo) di recente apertura sulla cui storia si trovano davvero poche informazioni in rete: il sito internet non è ancora operativo e bisogna accontentarsi della pagina Facebook che tuttavia si limita a  pubblicizzare le birre e gli eventi al quale il birrificio prende parte.  A voi decidere se la scarsa presenza “virtuale” sia un pregio che l’accomuna a tanti birrifici belgi o se sia una lacuna imperdonabile nel 2017. 
Sono comunque già cinque le birre disponibili in bottiglia:  una IPA chiamata Parkour, la Golden Ale Crew, l’American Pale Ale Summer Sea Beach, l’affumicata Raus e la Mavaiss, ovviamente una Hefeweizen; disponibili (credo) solo in fusto ci sono anche una California Common ed una Green Pils che (ahimè) è effettivamente di colore verde.   
Sin da subito il birrificio ha deciso di indirizzare le birre anche verso la grande distribuzione: in alcuni supermercati dell’Emilia Romagna si trovano infatti tre referenze con etichette, formati (50 cl. anziché 33 e 75) e nomi diversi da quelli utilizzati abitualmente: India Pale Ale, American Pale Ale e Golden Ale.

La birra.
La ricetta di questa India Pale Ale prevede malti Pale Ale, Crystal e ben sette luppoli utilizzati anche per un importante dry-hopping: Motueka, Galaxy, Citra, Mosaic, Sorachi Ace, Galena e Chinook. Il suo colore è tra il dorato e l’oro antico ed è sormontato da una generosa testa di schiuma biancastra, cremosa e compatta, dalla buona persistenza. L’aroma anche se non particolarmente fragrante ed intenso è comunque abbastanza pulito: pompelmo, arancia e pesca sono in primo piano e anche i malti, con profumi leggermente caramellati e biscottati, danno il loro contributo. 
C’è anche un tocco di resina in sottofondo. Al palato è morbida e gradevole, con poche bollicine ed una facilità di bevuta appropriata alla gradazione alcolica (5.3%). Il gusto prosegue il percorso olfattivo senza fare grosse deviazioni:  biscotto e caramello supportano senza manie di protagonismo la luppolatura, c’è più marmellata che frutta fresca con un finale di moderata intensità nel quale convivono note vegetali, terrose e di tè verde.  Una IPA “tranquilla” che non disegna parabole estreme puntando alla facilità di fruizione: la fragranza non è di certo la sua caratteristica principale nonostante il lotto di produzione sembri indicare febbraio 2017. Siamo intorno ai 10 euro al litro, un rapporto qualità prezzo  accettabile per una birra che non ha difetti ma che non fa neppure molto per distinguersi da altre cento IPA italiane. Ad un palato allenato e navigato risulterà un po’ anonima, per chi invece è ai primi passi nel mondo della cosiddetta “birra artigianale” direi che può rappresentare una soddisfacente continuazione del percorso.
Formato: 50 cl., alc. 5.3%, IBU 36, Lotto 140217, scad. 30/09/2018, prezzo indicativo 5.00 Euro (supermercato)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 12 giugno 2017

HOMEBREWED! Birrificio del Molino: Ride the Bastard (BA Wee Heavy) & Your Doom (Peated Imperial Stout)

Nuovo appuntamento con HOMEBREWED!,  lo spazio dedicato alle vostre produzioni casalinghe. Tocca nuovamente al birrificio casalingo marchigiano del Molino, ovvero gli homebrewers Leonardo Tufoni, Matteo Catalini e Matteo Pulcini, del quale avevo assaggiato una “Chili IPA” poco tempo fa.  Le due birre di oggi non sono esattamente quello a cui normalmente pensate per rinfrescarvi in una calda giornata estiva ma basta attendere una serata di pioggia per creare l'occasione giusta.
Partiamo dalla Ride the Bastard, una potente (13.2% ABV) Wee Heavy  invecchiata per circa cinque settimane in botte di rovere.  L’ispirazione viene ovviamente dalle muscolose interpretazioni dello stile fatte dai birrifici americani; Leonardo cita la Ride the Lion di Clown Shoes  e la Backwoods Bastard di Founders come muse ispiratrici, due birre che da amante delle Wee Heavy desiderava bere ma non riusciva a reperire in giro.  Ma dove non riesce ad arrivare lo shopping ci pensa l’homebrewing: non trovi la birra che vorresti? Fattene una simile in casa! 
Malti Maris otter, Crystal 80L e  Carafa III special, luppolo Columbus e lievito Wyeast scottish ale vengono utilizzati per una birra la  cui preparazione utilizza anche il “boil down”, ovvero la bollitura di una parte del mosto in un recipiente più piccolo sino a quando non diventa uno sciroppo per poi raggiungerlo alla pentola principale. In mancanza delle botti ex-bourbon, non semplici da reperire per un homebrewing italiano, si opta per una botte di rovere.  Questa birra si è piazzata al secondo posto nel concorso 2016 organizzato da Birrando S’Impara  e decima a quello dei Southern homebrewers.
Il suo colore è un tonaca di frate piuttosto carico con qualche venatura rossastra; la schiuma cremosa e compatta mostra un'ottima persistenza per una birra dal contenuto alcolico così elevato. Prugna, uvetta, ciliegia sotto spirito e caramello danno forma ad un naso pulito ma dall'intensità modesta che viene impreziosito da lievi note legnose. La sensazione palatale è davvero ottima: corpo quasi pieno, poche bollicine, birra viscosa e morbida che avvolge il palato. L'unico problema di quella che sarebbe un'ottima Scotch Ale è la componente etilica, molto, tanto troppo in evidenza: la bevuta è potente ma sono necessarie troppo pause tra un sorso e l'altro per riprendersi dalla "botta" etilica. Finiscono così in secondo piano il caramello e gli esteri fruttati di una bevuta piuttosto dolce che viene tuttavia molto ben bilanciata da un'ottima attenuazione e, ovviamente, dall'alcool. Un tocco di legno nel finale, una lievissima e perdonabile astringenza prima di un retrogusto etilico che brucia un po', ovvero un ruvido abbraccio.  
Questa la  valutazione su scala BJCP:  38/50 (Aroma 9/12, Aspetto 3/3, Gusto 14/20, Mouthfeel 5/5, impressione generale 7/10). 

Passiamo ora alla Your Doom, una potente (12% ABV) imperial stout prodotta con una percentuale di malto torbato. L’idea di Leonardo e dei suoi compagni di birra era di unire due stili da loro molto amati: imperial stout e birre affumicate; assaggi recenti di whiskey torbati hanno poi determinato la scelta di utilizzare un malto “peated” anziché “smoked”.  Al contrario di quanto pensassi, il nome scelto non è assolutamente un tributo a una qualche canzone di un gruppo heavy metal: è in realtà il nickname scelto da un giocatore professionista  americano di poker. Contattato da Leonardo, ha accettato di “prestare” il suo nome alla birra a patto che gliene fosse tenuta da parte una bottiglia da bere nel corso della sua prossima visita in Italia.  La ricetta parla di malti Maris otter, Vienna, Caramunich III, Aromatic, Carafa I special, Carafa III special, Peated e Roasted barley, luppolo Magnum e lievito US-05.
Nel bicchiere è nera e genera una bella testa di schiuma color nocciola, cremosa e compatta. L'alcool (12%) fa subito capolino al naso e non è supportato da un adeguata compagnia: ci sono solo delle leggere tostature, un tocco torbato e un po' di salamoia a comporre un aroma poco intenso, poco pulito e  - tocca ammetterlo - poco invitante. Anche in questa birra l'alcool è protagonista e la bevuta diventa da subito lenta e difficoltosa: peccato, perché la sensazione palatale sarebbe quella giusta, quella che manca a quasi tutte le Imperial Stout prodotte in Italia. Corpo quasi pieno, consistenza viscosa e morbida. Caramello e tostature cercano di mettere la testa fuori dall'alcool accompagnate da un tocco torbato in un gusto che non inizia male ma che non brilla di pulito. Purtroppo strada facendo c'è solo tanta monotonia e nessuna sorpresa finale; anziché la ricchezza delle tostature, del caffè o del cioccolato la chiusura vede l'alcool un avido protagonista che si porta via qualsiasi cosa e domina la scena arrivando rapidamente a saturare il palato. Questa la  valutazione su scala BJCP:  25/50 (Aroma 5/12, Aspetto 3/3, Gusto 8/20, Mouthfeel 4/5, impressione generale 5/10). 
La componente etilica è il maggior problema da risolvere per migliorare queste due ricette: va bene disegnare una birra potente ma non si deve mai perdere di vista l'equilibrio e, soprattutto la bevibilità.  La birra deve scaldare senza bruciare, la bevuta dev'essere potente ma si deve riuscire a sorseggiare con relativa facilità: eccone un esempio commerciale.  
La birra dietro all'alcool della Ride the Bastard c'è e mi sembra solida. Apprezzabile anche l'apporto dato dal passaggio in botte. Si potrebbe migliorare l'intensità dei profumi e dei sapori (malti ed esteri fruttati) portandoli davanti (e non dietro) alla componente etilica. La Your Doom, al di là del problema etilico, ha invece bisogna di una profonda revisione: manca pulizia e sopratutto manca quella ricchezza di aromi e sapori a supporto di una gradazione alcolica così importante: altrimenti è senz'altro meglio abbassare l'asticella etilica.
Ringrazio ovviamente Leonardo per avermi inviato le due bottiglie da assaggiare.

Nel dettaglio:
Your Doom, 50 cl.,  alc. 12%, imbotigliata 28/01/2017
Ride the bastard, 50 cl., alc. 13.2%, imbottigliata 31/01/2016

sabato 10 giugno 2017

Buxton Myrcia

A maggio 2016 il birrificio inglese Buxton e quello danese Dry & Bitter collaborano alla realizzazione di una Session IPA che viene chiamata Myrcia: mentre per il birrificio di Derbyshire si tratta della prima Session IPA, i danesi annoveravano già nella loro gamma la serie delle Bale Ale. Nello stesso periodo, soprattutto in Danimarca, circola anche qualche fusto di una birra chiamata  Myrcia Dreams che viene invece prodotta sugli impianti danesi della Ølkollektivet, stessa proprietà – ricordo - che gestisce il marchio Dry & Bitter e il locale Fermentoren di Copenhagen. 
Quest’anno i due birrifici hanno deciso di andare ciascuno per la propria strada e la Session IPA Myrcia è entrata in produzione stabile da Buxton, con una nuova ricetta che prevede l’utilizzo di avena (15%), frumento (10%) e una generosa luppolatura che se non erro dovrebbe includere citra, mosaic, chinook e  centennial, utilizzati con la tecnica dell’hopburst. Secondo quanto dichiara Buxton in etichetta sono stati utilizzati solo luppoli da aroma nel whirpool seguito da un massiccio dry-hopping nei fermentatori. Il nome scelto fa riferimento alla famiglia di piante delle Mirtacee che sono notoriamente molto ricche di oli aromatici; in etichetta i coni di luppolo vengono trasportati nell'aria dalle mongolfiere alle narici del vostro naso.

La birra.
Non è dichiaratamente una New England (Session) IPA ma l'utilizzo di avena e il colore arancio pallido opalescente rendono questa Myrcia non troppo distante da quelle birre che vanno tanto di moda in questo periodo. Anche l'aroma mette in campo un'intensità tipicamente juicy,  con un profilo sfacciatamente "succoso" e fruttato: l'ananas è spalleggiato dal pompelmo e, in secondo piano, arrancano mango e melone. La pulizia è ottima mentre l'eleganza del bouquet è un po' minacciata da qualche lieve nota di cipolla. L'avena riesce a donarle una sensazione palatale morbida e "rotonda", nonostante sia una Session IPA dal corpo ovviamente molto leggero: i malti (crackers) vengono rapidamente sopraffatti dalla frutta che ricalca grossomodo l'aroma tropicaleggiante anche se non riesce a riproporne la stessa pulizia. La chiusura amara, erbacea e leggermente resinosa, è piuttosto corta e d'intensità molto ridotta: bisogna lasciare che la birra si scaldi per veder salire intensità, lunghezza e, contemporaneamente, deteriorarsi l'eleganza. Per la gradazione alcolica che ha (4%) è comunque una birra dalla notevolissima intensità che tuttavia si porta dietro qualche imprecisione: livello molto buono ma non ai vertici di Buxton.
Formato 33 cl.,  alc. 4%, imbott. 19/04/2017, scadenza 19/01/2018, prezzi indicativo 3.80-4.50 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 8 giugno 2017

Fierce Beer: Café Racer & Peanut Riot

Apre le porte a maggio 2016 il primo microbirrificio di Aberdeen, Scozia: lo fondano Dave Grant e David McHardy due ex-homebrewers che si conoscono ad un corso di Brewing Technology a Sunderland. Per venticinque anni Grant ha lavorato nel settore petrolifero girando il mondo, mentre McHardy  vanta un’esperienza decennale in un’azienda di sistemi di navigazione marittimi: con le rispettive liquidazioni e l’aiuto di altri investitori i due soci raccolgono 250.000 sterline per acquistare un impianto che viene sistemato nel Kirkhill Industrial Estate di Aberdeen. 
Nell’anno che precede l’apertura McHardy fa esperienza presso la WooHa Brewing Company mentre Grant continua a produrre la birra sul piccolo impianto di casa distribuendo i primi fusti a ristoranti e pub, tra i quali anche il BrewDog di Aberdeen. Con l’aiuto di Louise Grant nel ruolo di commerciale, la neonata Fierce Beer produce nei primi mesi di vita 500 ettolitri e imbottiglia (a mano) 80.000 bottiglie: a novembre l’ingresso in società di altri soci operanti nel settore delle bevande e della ristorazione consentono di acquistare nuovi fermentatori, un'imbottigliatrice ed  un'etichettatrice. La Lidl ordina per il mercato del Regno Unito 2500 bottiglie della Ginga Ninja, una Pale Ale aromatizzata allo zenzero: oltre che nei pub e nei beershop, le Fierce arrivano anche sugli scaffali dei supermercati Aldi e Tesco. 
In poco un anno di vita sono quasi già cinquanta le etichette prodotte, molte delle quali “one shot” mai più ripetute. Il birrificio le suddivide in quattro categorie: Hoppy (APA, IPA e altre birre luppolate), Fruity (birre con aggiunta di frutta e birre acide), Dark  (stout e porter)  e stagionali. Le singolari etichette, i cui soggetti a bocca aperta mi ricordano alcuni dipinti di Francis Bacon, sono opera dello studio Hampton Associates di Aberdeen.

Le birre.
Dal già ampio portfolio di Fierce ecco due porter che credo rappresentino due varianti della stessa ricetta base. Partiamo dalla Café Racer, una porter prodotta con luppolo Chinook, vaniglia, caffè, malto, frumento, avena e lattosio: nera, genera una bella testa di schiuma cremosa e compatta dall’ottima persistenza. Al naso la vaniglia ruba la scena al caffelatte, mentre in sottofondo s’avvertono note di cioccolato al latte: l’aroma è pulito e intenso ma il “dessert” che si forma ricorda più uno snack industriale che la raffinata pasticceria. C’è un leggero eccesso di bollicine che disturba un po’ quella sensazione palatale molto morbida e cremosa creata dall’utilizzo di avena e lattosio;  il caffè e le tostature rimangono nelle retrovie anche nel gusto, rapido ad incamminarsi sulla strada dolce di caramello, vaniglia e cioccolato al latte:  quel poco di caffelatte che si avverte non basta a portare equilibrio in una birra che fa emergere deboli tostature solamente nel retrogusto e che secondo me ne meriterebbe invece qualcuna di più. L’alcool (6.5%) è molto ben nascosto e complessivamente questa porter è pulita, intensa e si beve con grande facilità e buona soddisfazione, se vi piacciono i dolci: in questo senso è allora un po’ fuorviante il nome Café Racer, visto che sono vaniglia e lattosio a guidare le danze. 

Nella Peanut Riot arachidi tostate e sale rimpiazzano vaniglia, caffè e lattosio: è tra le birre preferite dei proprietari di Fierce. Anche lei è nera mente dimensioni, compattezza e persistenza della schiuma sono leggermente penalizzati dall'olio delle arachidi. Arachidi che danno il benvenuto al naso in maniera piuttosto elegante: sono affiancate da caramello brunito, orzo tostato, un tocco di caffè e da una lieve nota salina. L'intensità è discreta, pulizia e finezza ci sono. Al palato risulta meno cremosa della sorella al caffè ma beneficia di una carbonazione molto contenuta che riesce a renderla ugualmente morbida e scorrevole. Il gusto è un po' meno pulito dell'aroma, le arachidi scompaiono per lasciare le redini in mano a caramello e tostature, accenni di caffè e cioccolato, un tocco di sale nel finale. Anche qui l'alcool è ben nascosto, la bevuta è molto bilanciata e sarebbe senz'altro valorizzata da un maggior pulizia; le tostature finali sono ben dosate e nel complesso mi sembra una buona porter, leggermente inferiore alla Café Racer ma ugualmente godibile e senza nessun impressione d'artificiosità per quel che riguarda gli ingredienti aggiunti.

Nel dettaglio:
Cafe Racer, 33 cl., alc. 6.5%, IBU 20, scad. 30/12/2015, prezzo indicativo 4.00-5.00 Euro (beershop)
Peanut Riot, 33 cl., alc. 6.5%, IBU 94, scad. 28/02/2018, prezzo indicativo 4.00-5.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 7 giugno 2017

Evil Twin Even More Jesus

Facciamo qualche passo indietro tornano allo scorso settembre quando ho stappato la I Love You With My Stout, una tra le cinquanta imperial stout/porter che la beerfirm danese-americana Evil Twin ha prodotto dal 2010. Cinquanta birre figliastre di quattro “madri”, se mi passate il termine (Even More Jesus, Imperial Biscotti Break, Soft Dookie e Imperial Doughnut Break) delle quali costituiscono leggere varianti che si differenziano per l’aggiunta di ingredienti più o meno strani o per un diverso invecchiamento in botte. 
Jeppe Jarnit-Bjergsø,  “gemello cattivo” (Evil Twin) di Mikkel Borg Bjergsø, aveva dichiarato sull’etichetta della I Love You With My Stout di “aver copiato una propria birra” la  Even More Jesus. Incalzato dalle domande di qualche cliente americano, aveva poi spiegato che le due birre erano “simili ma diverse”. La Even More Jesus aveva avuto buon successo e si era pensato di produrla in quantità maggiori spostandosi dal birrificio Westbrook a quello più grande della Two Roads: l’adattamento della ricetta ai nuovi impianti non restituì tuttavia la stessa identica birra e si optò quindi per commercializzarla con un nome diverso. Per ricapitolare, Even More Jesus (11,54% ABV) è prodotta alla Westbrook in formato 65 cl.; I Love You With My Stout (12%) è prodotta alla Two Roads Brewing Company nel formato 35.5 cl e in maggiori quantità. L’etichetta dalla Even More Jesus spiega: “è successo qualche volta che una birra molto apprezzata si trasformasse da mortale a divinità. Per fare ciò di solito la ricetta deve prevedere un corpo denso, un colore nero, stupefacenti aromi di cioccolato, caffè, frutta e zucchero muscovado; dev’essere disponibile in quantità limitata e, cosa più importante di tutte, deve avere il sapore della rarità!”.

La birra.
Debutta a marzo 2012 questa potente imperial stout che si presenta nera e con un piccolo cappello di schiuma nocciola, cremosa ma poco persistente. L’aroma è goloso e ben bilanciato tra il dolce di fruit cake, liquirizia, zucchero candito, biscotto e caffè, tostature, cioccolato fondente. Il meglio arriva comunque al palato con un mouthfeel perfetto, quello che personalmente vorrei sempre trovare in una imperial stout: densa e viscosa, corpo pieno e poche bollicine,  ogni sorso un’avvolgente e morbida carezza. La Even More Jesus è dolce e ricca di caramello, uvetta, liquirizia, fruit cake e solo nel finale si fa progressivamente sentire l’amaro di caffè, cioccolato e tostato; l’alcool (12%) si fa sentire senza bruciare rendendo la bevuta potente e calda, intensa. Non c’è invero molta complessità, l’aroma appare un po’ sottotono ma in bocca il livello sale rapidamente grazie ad un’eccellente sensazione tattile; una birra dessert che non raggiunge estremi artificiosi e si lascia sorseggiare con soddisfazione, senza grosse difficoltà e, soprattutto, senza quella noia che a volte fanno nascere in me alcune birre del “gemello cattivo”.  Sicuramente migliore per pulizia e finezza della sua sorella I Love You With My Stout, la quale ripropone un canovaccio molto simile ma un po’ meno convincente: la differenza di prezzo (al litro) tra le due birre non mi pare comunque giustificata. 
Formato: 65 cl., alc. 12%, lotto e scadenza non riportati, prezzo indicativo 15.00-18.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 6 giugno 2017

Achel 8 Blond

Della Trappistenbier De Achelse Kluis vi avevo già parlato dettagliatamente in questa occasione; il birrificio trappista del piccolo villaggio di Achel nel Limburgo belga, a pochi chilometri dal confine olandese, iniziò ad utilizzare la vendita di birra come fonte di sostentamento solamente verso la metà degli anni ’70 quando Pierre Celis fu incaricato di produrre nel suo birrificio la “Trappistenbier De Achelse Kluis” poi rinominata “Sint Benedict - Trappisten Abdij”, una birra scura dal contenuto alcolico del 6.5% per conto del monastero.  Nel 1985 un incendio agli impianti di Celis pose fine della collaborazione ed i monaci si rivolsero al birrificio Sterkens che produsse sino all’inizio degli anni ’90 la Kluyserbier (6.4% ABV) poi sostituita dalla “’t Paterke” realizzata sino al 1995 dalla Brouwerij De Teut di Neerpelt.  
E’ soltanto nel 1998 che la produzione di birra ripartì dentro le mura del convento, grazie al mezzo milione di dollari ricavato dalla vendita di alcuni terreni circostanti; nacque così quello che allora era il più giovane birrificio trappista, la  Brouwerij der Trappistenabdij De Achelse Kluis, i cui primi passi furono guidati da Padre Thomas giunto da Westmalle assieme al birriaio Marc Knops. Furono elaborate le ricette per le prime tre birre di Achel, disponibili solo in fusto: Blond 4, Bruin 5 e Blond 6. Con il tempo rimasero in vita solo la Blond 5 e la Bruin 6. In aiuto di Padre Thomas, le cui condizioni di salute non gli consentivano più di supervisionare la produzione, giunse nel 2001 da Rochefort Padre Antoine che, assieme a Knops, elaborò le ricette di due birre più alcoliche volte a soddisfare le richieste del mercato che chiedeva anche le bottiglie. Sulla base di una Tripel che Knops già produceva per la Corporazione dei Birrai della Grand Place di Bruxelles nacque la Achel Blond 8 e l’esperienza di Padre Antoine con le “scure” di Rochefort  portò la Achel Bruin 8.

La birra.
La Tripel/Belgian Strong ale Achel 8 Blond fu commercializzata per la prima volta nel 2001 ma non ebbe un gran successo a causa del suo aspetto torbido derivante dalla mancata filtrazione. Una successiva rielaborazione della ricetta – a quanto leggo il lievito è fornito dal birrificio Van Steenberghe – introdusse la rifermentazione in bottiglia e l’aspetto attuale, quasi limpido. Il suo colore dorato un po’ carico è sormontato da un generoso cappello di schiuma fine, cremosa e compatta, dall’ottima persistenza. Al naso la delicatissima speziatura del lievito accompagna i profumi di miele, fiori e frutta candita; in secondo piano avverto lievi note di pera, biscotto, frutta secca.  Il percorso continua senza nessuna deviazione in una bevuta piuttosto scorrevole e agile, sostenuta da vivaci bollicine che tuttavia non impediscono alla birra di essere ugualmente morbida in bocca. Biscotto, zucchero candito, miele, canditi e frutta sciroppata a pasta gialla compongono un gusto dolce perfettamente bilanciato da un’ottima attenuazione e da una lieve acidità che dona una sorprendente freschezza ad una birra dal contenuto alcolico (8%) non indifferente ma nascosto come (quasi) solo i belgi sanno fare.  Un lieve e brevissimo accenno terroso amaro anticipa un bel finale ricco di canditi nel quale si avverte finalmente un timido tepore. Molto pulita, precisa e rigorosa, disciplinatamente monastica: nessuna sorpresa, solo certezze.
Se volete provarla anche voi, la potete trovare sul negozio Iperdrink.it che ringrazio per avermi inviato una bottiglia da assaggiare
Formato: 33 cl., alc. 8%, lotto 13 00:26, scad. 02/10/2017, prezzo indicativo 2.85 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.