martedì 28 febbraio 2017

Cigar City Marshal Zhukov's Imperial Stout - Vanilla Hazelnut

Georgij Konstantinovič Žukov, ovvero “il generale che non ha mai perso una battaglia”: di origini contadine, venne arruolato in cavalleria nel corso della prima guerra mondiale. Dopo la rivoluzione d’ottobre entrò nell’Armata Rossa dapprima come comandante di Brigata, poi di divisione ed infine di corpo d’armata. Nel 1938 fu nominato vicecomandante di tutte le Forze Armate della Bielorussia: in Mongolia sconfisse l’esercito giapponese, ottenendo per la prima volta il titolo di “Eroe dell’Unione Sovietica”. Nel 1940 venne nominato Capo di Stato Maggiore ed fu lui ad organizzare la difesa che contrastò il lungo assedio (1941-1944) dell’esercito nazista a Leningrado. 
Stalin, impressionato dal suo lavoro, lo chiamò ad organizzare anche la difesa di Mosca affidandogli il comando generale di tutte le operazioni: la strategia di Žukov, grazie anche all’aiuto del gelido inverno russo che arriva in anticipo, ebbe successo. Dopo alcuni contrasti con Stalin e conseguenti declassamenti fu richiamato per dirigere l'Operazione Urano per il salvataggio di Stalingrado, assediata dai tedeschi: Žukov preparò la “controffensiva del Don”, facendo traghettare oltre il Volga 170.000 soldati, 27.000 automezzi e 1300 vagoni ferroviari  senza che il nemico se ne accorgesse. Il 31 gennaio 1943 liberò Stalingrado dopo aver accerchiato i nemici: nella battaglia -  che segnò l’inizio della disfatta di Hitler - persero la vita un milione e mezzo di tedeschi. 
Žukov, si guadagnò il soprannome de “il salvatore”, ma a seconda delle occasioni era anche “l’uragano”, “l’invincibile” oppure “l’ariete” al quale viene affidata l’Operazione Berlino. Fu lui a battere sul tempo inglesi ed americani entrando per primo (30 aprile 1945) nella capitale  tedesca ormai in macerie issando la bandiera rossa sul Reichstag; sarà lui a presenziare ed a firmare l’atto di resa della Germania. 
Salvatore di Mosca, liberatore di Stalingrado, conquistatore di Berlino: la sua fama era ormai maggiore di quella di Stalin, che iniziò a vederlo come un pericoloso avversario. Nel dopoguerra Žukov fu messo in disparte, venne indagato dalla polizia segreta ed esiliato negli Urali; alla morte di Stalin, nel 1953, Žukov fu nominato Ministro della Difesa dal successore Malenkov. La sua parabola si concluse con l’avvento al potere di Kruscev, che lo destituì accusandolo di aver cercato di sottrarre l’esercito al controllo del Partito Comunista. Venne obbligato a fare una autocritica sulla Pravda e visse recluso e lontano della vita politica sino alla sua morte, avvenuta nel 1974. 
Žukov, dal carattere difficile, venne ripreso più volte per ubriachezza e violenze ma fu uno dei militari sovietici più decorati e l'unico a ricevere quattro volte il titolo di Eroe dell'Unione Sovietica.

La birra.
All’invincibile maresciallo (Marshal) Zhukov il birrificio della Florida Cigar City (qui la sua storia) dedica quella che è diventata rapidamente una delle sue birre di successo e maggiormente ricercate dai beer geeks. L’hype – come spesso accade – è un po’ scemato col tempo, la produzione è aumentata e oggi l’imperial stout Marshal Zhukov viene proposta in numerose declinazioni che a volte riescono anche ad attraversare l’oceano arrivando nel nostro continente. Le versioni “Barrel Aged” includono botti di cognac, rum, apple brandy, sherry, bourbon e porto; i divertissement vedono invece le aggiunte di caffè e caffè, cacao e vaniglia (Penultimate Push), 
La Marshal Zhukov regolare, che purtroppo non sono ancora riuscito ad assaggiare, dal 2008 esce normalmente ogni anno in agosto. Lo scorso 23 novembre 2016  ha debuttato la sua variante Vanilla Hazelnut, con aggiunta di vaniglia e nocciole; in vendita al birrificio al prezzo di 20 dollari a bottiglia e, in queste settimane, anche in qualche beershop europeo. 
Nel bicchiere è nerissima e forma una minacciosa schiuma di color marrone scuro, cremosa e compatta, dalla buona persistenza. Il naso non è esplosivo ma è comunque ricco e dolce: l’alcool (11.2%) si presenta accompagnando vaniglia e cioccolato al latte, nocciola, caramello e melassa, delicate tostature e accenni di caffè.  Piena e poco carbonata, avvolge il palato con una viscosa morbidezza che si potrebbe quasi masticare: perfetta, è quel mouthfeel che vorrei sempre trovare in una robusta imperial stout dal contenuto alcolico in doppia cifra. La densità che attraversa la cavità orale si compone di melassa, biscotto, orzo tostato e caffè, vaniglia, cioccolato amaro e fruit cake: la bevuta è coerentemente dolce come l’aroma, finendo poi per essere bilanciata dall’amaro del caffè e delle tostature. Non è impeccabile nella pulizia ma è un mostro d’intensità dove l’alcool si fa sentire senza “uccidere” : il sorseggiare è lento ma non particolarmente oneroso.  
Imperial stout muscolosa e ricchissima, birra che fa serata da sola: qualche sorso e non avrete bisogno di null’altro, neppure per difendervi dal freddo dell’inverno russo. Non è il nirvana ma il livello è davvero molto alto e  – tocca dirlo -  è una di quelle birre alle quali nessun birrificio italiano riesce ancora minimamente ad avvicinarsi.
Formato: 65 cl., alc. 11.2%, IBU 60, imbott. 11/2016, prezzo indicativo (25-30 Euro, beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 27 febbraio 2017

Foglie d’Erba Freewheelin’ IPA

Ritorna sul blog dopo un’assenza piuttosto lunga il birrificio friulano Foglie d’Erba, fondato nel 2008 dal birraio Gino Perissutti. E' il punto d’arrivo di un percorso iniziato dalla passione per la birra e continuato con il lavoro nella pizzeria-ristorante di famiglia, il Coton, una delle prime nella Carnia a dotarsi di un’ampia carta delle birre di qualità.  Ai viaggi birrari Gino fa seguire i primi esperimenti di homebrewing con le pentole che proseguono per un paio di anni: dopo alcuni corsi di formazione arriva la decisione di trasformare il locale dei genitori in un vero e proprio brewpub. 
A coronamento del buon lavoro svolto arriva a sorpresa il titolo di Birraio dell’Anno ottenuto nel 2011: con la notorietà arriva anche la  necessità di crescere e di aumentare la produzione. Dal primo impianto da 1.8 hl si passa ad uno da 20 e nel 2014 il birrificio ha trovato una nuova casa in via Nazionale 14, negli spazi ristrutturati di una vecchia falegnameria: sala di cottura con un tino di ammostamento e un tino di filtrazione tipo “Spadoni MBS 2000” con capacità di 27 hl, cinque fermentatori  per un totale di circa 140 ettolitri.  La “taproom” del birrificio è ancora la pizzeria che si trova all’interno dell’albergo di famiglia, il Coton: qui avete la possibilità di pernottare a poche centinaia di metri dal paese abbinando le birre alle oltre cinquanta pizze proposte. Per gli acquisti è invece operativo dal martedì alla domenica (15:30-18:30) lo spaccio del birrificio.

La birra.
Foglie d'erba deve il suo nome all’omonima raccolta di poesie (la prima edizione è del 1855) dello scrittore statunitense Walt Whitman e credo che anche per la birra odierna si debba tornare a guardare agli Stati Uniti. Freewheelin’ IPA, probabilmente ispirata al secondo album ufficiale (1963) di Bob Dylan; una Double IPA (8.5%) la cui ricetta prevede malti Maris Otter, Pale, Pilsner e Crystal, un ricco parterre di luppoli che include Tettnanger, Mandarina Bavaria, Citra, Chinook, Centennial, Simcoe e Amarillo. Tra i riconoscimenti ottenuti il recentissimo oro all'edizione 2017 di Birra dell'Anno nella categoria 10  "chiare e ambrate, alta fermentazione, alto grado alcolico, luppolate, di ispirazione angloamericana". Ma c'è anche il bronzo a Birra dell’Anno 2012 nella categoria 5 (birre luppolate, alta fermentazione, di ispirazione angloamericana),  il bronzo al Brussels Beer Challenge 2013 e il primo posto al CIBA - Campionato Italiano Birre Artigianali del 2013. 
Il birrificio descrive il suo colore come “dorato scarico” e la foto come al solito lo rende più scuro del dovuto: la realtà è tuttavia più vicina alla fotografia. Ambrata, lievemente velata, con riflessi oro antico: la schiuma è biancastra, cremosa, compatta ed ha un’ottima persistenza.  Il mese e mezzo di vita in bottiglia regala un aroma ancora fresco e piuttosto zuccherino: mango, papaia, ananas e melone retato. Frutta tropicale molto matura, qualche ricordo di pompelmo in sottofondo, caramello, forse miele: pulizia ed intensità ci sono. Al palato le manca un po’ di carbonazione: la bevuta risulta morbida e scorrevole, ma le bollicine sono davvero pochissime. Il gusto non presenta sorprese, continuando un percorso che si apre con caramello e qualche accenno biscottato ad introdurre il dolce della frutta tropicale. E’ una Double IPA molto dolce nella quale l’amaro arriva  solo a fine corsa e, anziché reclamare un ruolo da protagonista, serve soprattutto a bilanciare: la resina affiora solo nel retrogusto, accompagnato da un morbido calore etilico e dal ritorno dolce di caramello e frutta tropicale. 
Intensa, abbastanza facile da bere, pulita: la freschezza valorizza bene il generoso carattere fruttato-tropicale e ruffiano di questa Freewheelin’ IPA. Per quel che riguarda il gusto personale, non è l’interpretazione di West Coast IPA che preferisco: molto poco secca, tanta frutta dolce ed amaro che non emerge, almeno in questa bottiglia. 
Formato: 33 cl., alc. 8.5%, lotto 97-2016, imbott. 10/01/2017, scad. 10/01/2018, prezzo indicativo 4.50-5.50 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 25 febbraio 2017

Lervig Tasty Juice

La moda della Juicy / Cloudy / New England IPA sta prendendo sempre più piede anche in Europa, com’era facile prevedere.  La Scandinavia sembra essere stata la regione più pronta ad accogliere la tendenza,  con l’Inghilterra a ruota, anche se non sono ancora riuscito a provare nessun esempio di Juicy IPA britannica. Qualche settimana fa avevamo testato le capacità del birrificio polacco Pinta, ma anche in Italia non mancano le interpretazioni di questo sotto stile modaiolo:  Vento Forte e Cr/ak sono i due birrifici che si sono maggiormente cimentati nell’emulazione di queste IPA nate nella regione statunitense del New England, ma sono sicuro che nel corso del 2017 ne vedremo arrivare molte altre. 
Ritorniamo alla Scandinavia: Stigbergets (Amazing Haze e GBG Beer Week 2016 le abbiamo già provate), Omnipollo e Brewski  - tutti svedesi - sono attualmente i produttori europei di New England IPA che si sono maggiormente avvicinati a quelle originali prodotte da Trillium e Tree House, giusto per fare i due nomi che animano i sogni dei beergeeks di tutto il mondo.
Per chi non avesse ancora del tutto chiaro cosa sia una Juicy IPA vi rimando a questo esaustivo articolo scritto da Stefano Ricci per Fermento Birra. Riassumendo: aspetto molto torbido, quasi fangoso, aroma sfacciatamente fruttato, grazie all’utilizzo di grandi quantità di luppolo in dry e late hopping. Sensazione palatale estremamente morbida e “chewy”, per dirla all’inglese: quasi masticabile. Il gusto è ovviamente figlio dell’aroma: nel bicchiere c'è un succo di frutta, malti quasi impercettibili, amaro molto contenuto. 
Dalla Scandinava, ma questa volta dalla Norvegia, è arrivata in questi giorni anche la New England IPA del birrificio Lervig guidato dall’eclettico Mike Murphy, del quale vi avevo raccontato in questa occasione. Ecco come il birrificio di Stavanger annuncia la nascita della Tasty Juice: “ce l’abbiamo fatta. Siamo tornati da un viaggio a Boston con l’ispirazione giusta per salire sul treno delle Juicy. La cosa divertente è la prima volta che ne abbiamo visto una abbiamo domandato se ci fossero stati dei problemi con il fusto…  ma poi: puro succo!  Il problema di queste birre è che devono essere bevute immediatamente, la freschezza è la loro essenza;  vi sentirete come se foste in un birrificio ad assaggiare una IPA direttamente dal fermentatore. Non compratela se non pensate di berla in fretta. L’abbiamo messa in lattina per meglio preservarne il carattere luppolato".

La birra.
Malto Golden Promise, frumento e avena, lievito Vermont Ale e tanto luppolo:  Mosaic, Exquinox e Citra, quest’ultimo utilizzato in doppio dry-hopping). In tutto, dicono, sono stati utilizzati più di 3 chilogrammi di luppolo per ettolitro di birra. 
L’aspetto è tutt’altro che invitante ma è da considerarsi una caratteristica di queste birre; quanto questo poi influisca su qualità e intensità di aromi e sapori, è tutto da scoprire. Il suo colore arancio è torbido e fangoso, la schiuma biancastra è un po’ grossolana e piuttosto rapida a scomparire. L'aroma è un trionfo di frutta, una ruffiana e piaciona macedonia di pompelmo, cedro e limone, con ananas e mango in sottofondo; frutta fresca, appena tagliata, qualche nota più dolce di canditi e una lieve presenza erbacea. Al palato è piuttosto morbida, con poche bollicine ed un mouthfeel molto gradevole: il gusto non fa passi indietro rispetto all'aroma: frutta in ogni dove, rispettando il mantra "juicy". Rispetto al naso qui è la frutta tropicale a mettere in secondo piano gli agrumi; bisogna impegnarsi ed oltrepassare la coltre di mango ed ananas per scovare in sottofondo le note maltate di crackers, c'è un delicato tepore etilico che accompagna il succo di frutta fino ad un finale moderatamente amaro (dank, erbaceo, zesty) che volendo essere pignoli raschia un po' in gola, unica  vera pecca di questa birra. Il contenuto alcolico è 6%, la bevibilità non è da record ma l'intensità è davvero straordinaria: pulizia ed eleganza, che mi dicono essere spesso carenti in queste New England IPA, qui sono ad un buon livello, anche se siamo lontani dall'eccellenza. 
Non avendo ancora mai assaggiato nessuna New England IPA americana non posso esprimermi sulla veridicità di questa interpretazione di Lervig; il livello è comunque molto alto. Se il genere vi piace, questa è senz'altro una birra/succo di frutta che non dovete perdervi: è stata messa in lattina poche settimane fa, quindi non esitate. 
Formato: 50 cl., alc. 6%, IBU 45, imbott. 31/01/2017, scad. 31/07/2018, prezzo indicativo 6.00/6.50 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 23 febbraio 2017

Hoppin' Frog BORIS The Crusher

Ci sono delle birre che decretano il successo di un birrificio: è il caso di B.O.R.I.S. The Crusher, prodotta dal birrificio Hoppin’ Frog di Akron, Ohio, già passato sul blog in diverse occasioni. B.O.R.I.S. sta per Bodacious Oatmeal Russian Imperial Stout: viene prodotta dal 2006, anno in cui il birraio Fred Karm (“la rana”, questo il soprannome che gli veniva dato in famiglia) ha aperto le porte di Hoppin’ Frog.  
“E’ la birra che farei assaggiare a Michael Jackson – dichiara Karm – è la birra che riesce a raccontare il nostro birrificio: birre piene di sapore, intense”.  Da sempre in cima alle classifiche di Beer Rating, per quel che conta, BORIS è la birra che ha portato a Karm i primi riconoscimenti e le prime medaglie (oro nel 2008 e nel 2011) al Great American Beer Festival, concorso che lo aveva già premiato in passato quando era il birrario alla Thirsty Dog Brewing Company. 
Fatta la birra di successo, giusto sfruttarne il marchio con innumerevoli varianti: qualche anno fa mi era capitato d’assaggiare la versione barricata in botti di Heaven Hill Whiskey, ma ce ne sono tante altre. BORIS Bairille Aois  (Whiskey Irlandese),  BORIS Royale (credo sia l’omonimo whiskey canadese),  BORIS Van Wink (Kentucky whiskey), Cafe BORIS (con caffè della  Hippie Coffee Company), BORIS Grand Reserve (malti speciali europei anziché americani) e BORIS Reserve (versione invecchiata in selezionate botti ex-Whiskey),  Rocky Mountain BORIS (in botti ex-whiskey dal Colorado), Rum Barrel Aged BORIS,  BORIS Batch #100 (malti speciali da Inghilterra e Belgio) e BORIS Batch #200 (invecchiata in botti di Kentucky Bourbon per cinque volte più a lungo rispetto alla BORIS Van Wink). 
Fred Karm ha poi alzato l’asticella passando dalla BORIS alla DORIS The Destroyer (10.5% ABV anziché 9.4%, anche lei disponibile in versioni barricate) e elevandola ulteriormente con l’ultima nata  TORIS The Tyrant (13.8%), creata appositamente per festeggiare la cancellazione di una legge dell’Ohio, avvenuta nell’agosto 2016, che imponeva un limite massimo del 12% sul contenuto alcolico in percentuale per le birre prodotte o bevute all’interno dei confini dello stato.

La birra.
Nel bicchiere è perfetta: completamente nera, impenetrabile alla luce, forma un compatto e cremoso cappello di schiuma dall’ottima persistenza. Purtroppo le bottiglie di Hoppin Frog non recano nessuna indicazione sulla data d’imbottigliamento: l’esemplare di oggi ha comunque passato un anno nella mia cantina. L’aroma è ancora ricco e pulito, potente, dolce, goloso: in ordine sparso la mente pensa a fruit cake, frutta secca, prugna disidratata, caramello e cioccolato al latte, orzo tostato e liquirizia, il tutto bagnato da una morbida nota etilica che mi ricorda il rum. Nonostante l’aspetto minaccioso, che ricorda l’olio motore, BORIS ha una consistenza effettivamente oleosa ma estremamente morbida, che quasi accarezza il palato.  Il gusto non si discosta di molto dall’aroma; grande intensità, tostature e caffè che si alternano al dolce del caramello, del fruit cake, della liquirizia e della prugna disidratata. Nel finale l'amaro del caffè e delle tostature viene affiancato da una luppolatura ammorbidita dal tempo passato in bottiglia; procede nella stessa direzione il retrogusto, lunghissimo, etilico, caldo. 
Una imperial stout prodotta da ormai dieci anni che per me continua ad essere un punto di riferimento: pulitissima, potente eppure relativamente facile da sorseggiare. Molto più accessibile della sua versione barricata ed anche della sua aggressiva sorella maggiore DORIS.  Il bomber da 65 cl. si finisce in solitudine con immensa soddisfazione: grande birra, comodamente reperibile negli Stati Uniti senza fare ore di fila davanti al birrificio nel giorno della messa in vendita e, in questo periodo, anche in alcuni beershop europei. Sulle Imperial Stout è difficile che Hoppin’ Frog sbagli: il livello è sempre altissimo, e se non l’avete mai provata è il momento di colmare l’imperdonabile lacuna. 
Formato: 65 cl., alc. 9.4%, IBU 60, lotto o scadenza non riportati, prezzo indicativo (16.00-18.00 Euro, beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 22 febbraio 2017

Brekeriet Funkstarter

Torna sul blog il birrificio svedese Brekeriet, già ospitato con la Saison Sauvage e con la EKG Sour. L’azienda nasce nel 2010 come importatrice di birra per il mercato domestico e diventa nel 2012 un vero e proprio birrificio. Alla guida ci sono i fratelli Ek (Fredrik, Christian ed André) che hanno scelto di focalizzarsi esclusivamente su birre a fermentazione selvaggia, inoculando brettanomiceti e batteri. 
La produzione è partita nel 2012 a Djurslöv, dieci chilometri da Malmö con 6000 litri che sono poi divenuti 18000 nel 2013 e 36000 nel 2014. Si è reso quindi necessario un ampliamento degli impianti (20 HL)  e un trasferimento un po’ più a nord nella nuova e più ampia sede (800 mq) di Landskrona, a metà strada tra Malmö ed Helsingborg, inaugurata a settembre 2015.  Qui vengono prodotte le birre acide fermentate con saccaromiceti e brettanomiceti,  mentre la vecchia sede a Djurslöv rimane operativa sino alla fine del contratto di locazione con altri fermentatori in acciaio e botti in legno: è qui che vengono realizzate le birre che prevedono l’utilizzo di batteri. Il nuovo stabilimento ha portato anche il restyling delle etichette e l’arrivo del formato 33 centilitri, almeno per le tre birre che vengono prodotte regolarmente tutto l’anno e distribuite anche in Svezia attraverso il monopolio di Stato, il Systembolaget. Sino ad allora, Brekeriet lavorava solamente con l’export: quasi tutta Europa ma anche USA, grazie al lavoro dell’importatore Shelton Brothers i cui ordini avrebbero potuto assorbire tutta la produzione del vecchio impianto. 240.000 litri è l’obiettivo che il birrificio svedese si è prefissato per il 2017.

La birra.
Funkstarter, ovvero una “Scandinavian saison” (sic.) secondo la definizione che ne dà il birrificio: la ricetta dovrebbe includere malti Pislner, Carahell e Acidulato, farro, luppolo Magnum. Dopo la fermantazione primaria con (credo) lievito tipo Saison, quella in bottiglia avviene con brettanomiceti.
Dorata e leggermente velata, forma un generoso cappello di schiuma biancastra un po’ scomposta ma dall’ottima persistenza. Ad un anno dalla messa in bottiglia l’aroma mostra un buon equilibrio tra le note funky dei lieviti selvaggi e quelle del Saison: i profumi di fiori, pepe, arancio e di frutta tropicale (lievissimi) accompagno gli odori di sudore, cantina/granaio. 
Il gusto è invece un po’ meno interessante, soprattutto perché la componente fruttata risulta molto meno in evidenza: si parte dai malti (pane, miele) per passare quasi subito agli “off-flavors” dei brettanomiceti; di frutta ce n’è veramente pochissima, giusto nell’amaro finale, dove un po’ di scorza di limone affianca le note terrose.  Facile da bere, leggera, solletica il palato con la sua vivace carbonazione ma non ha quella grande secchezza di altre saison brettate che mi sono capitate nel bicchiere; disseta, ma una leggera patina dolce rimane sempre ad avvolgere il palato. Nel complesso c’è un buon livello di pulizia, la bevuta è gradevole ma a mio parere le manca ancora qualcosa per fare il salto qualitativo da “buona” ad “ottima”. 
Formato:  33 cl., alc. 5%, IBU 50, lotto 4 imbott. 01/2016, scad. 13/01/2021, prezzo indicativo 4.50/5.00 Euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 21 febbraio 2017

Jack’s Abby Framinghammer Baltic Porter

Framingham, Massachusetts: nel giugno 2011 i giovani fratelli Hendler (Jack, Eric e Sam) aprono il microbirrificio Jack’s Abby. Una necessità, dopo che i genitori hanno comunicato loro la decisione di vendere la loro impresa di produzione ghiaccio, la Saxony Ice Company di Mamaroneck, New York.  Terminato il college, Jack è in vacanza a Monaco di Baviera con la madre e s’innamora dell’atmosfera che si respira nelle Bierhalle e nei Biergarten, gli stessi che avevano frequentato i propri antenati  tedeschi: trasportare quel pezzo di Germania in Massachusetts è un sogno che inizia ad accarezzare. 
Di ritorno negli Stati Uniti, inizia un periodo di apprendistato in diversi birrifici per conoscere un mondo del quale non sa assolutamente nulla: finisce per diventare birraio alla Boston Beer Works e, una volta pronto, chiama a raccolta i suo fratelli per fondare un’impresa famigliare che idealmente continua il percorso iniziato dai propri nonni con la fabbrica di ghiaccio. Con un impianto Premier Stainless da 23 ettolitri i tre Hendler fondano la Jack’s Abby Brewing, ovvero Jack e la moglie Abby, 600 ettolitri circa prodotti nel primo anno di attività. 
La strategia produttiva vuole trovare un punto d’incontro ideale tra la tradizione tedesca e l’innovazione della craft beer revolution americana:  Jack’s Abby inaugura l’impianto con tre lager tedesche e, in breve tempo, decide che quella sarà la strada da percorrere. “In un mercato craft sempre più affollato ci rendemmo conto che non c’erano molte persone a fare basse fermentazioni, e quello che stavamo facendo era abbastanza unico. Molte delle persone che venivano per la prima volta a trovarci dicevano “non mi piacciono le lager, sono noiose”   e la nostra missione era di fargli cambiare idea. Oltre alle classiche lager tedesche volevamo produrre qualcosa di luppolato, ma agli inizi disponevamo di un solo ceppo di lievito  – racconta Jack  -   e così realizzammo una India Pale Lager che attirò l’attenzione della stampa”. 
La birra, chiamata Hoponius Union, ottiene successo e convince i fratelli Hendler a produrre – caso unico negli Stati Uniti – solamente basse fermentazioni. India Pale Lager, Double India Pale Lager e  una Cascadian Schwarbier  sostituiscono IPA, IIPA e Black IPA:  oltre alle classiche birre rispettose della tradizione tedesca arrivano in seguito i primi invecchiamenti in botte e le prime birre acide, ovviamente a bassa fermentazione. La scelta è stata evidentemente apprezzata dai consumatori e i volumi sono andati rapidamente cresciuti: lo scorso anno è stata infine inaugurata la nuova e più ampia sede produttiva di Framingham che aumenta il potenziale a circa 150.000 ettolitri l’anno e, accanto alle bottiglie, vede il debutto delle lattine.

La birra.
Framinghammer, una baltic porter  che non viola il credo produtttivo di Jack's Abby: solo basse fermentazioni . Quel suffisso "-er" fa poi molta germania, indicando la provenienza della birra: da Framingham, dove si trova il birrificio. Viene prodotta nel mese di gennaio.
Perfetta ed elegante nel bicchiere, si presenta di colore ebano scurissimo, con una cremosa e compattissima schiuma color nocciola dall'ottima persistenza. Altrettanto elegante e ricco è l'aroma: pane nero, biscotto o pan di Spagna inzuppato nell'alcool, uvetta e prugna disidratata, le delicate tostature del pane. La sensazione palatale è quella ideale per una birra scura dal notevole contenuto alcolico (10%): corpo pieno, poche bollicine, consistenza morbida ed oleosa che avvolge il palato riscaldandolo ad ogni passaggio. Il gusto si apre con il dolce di caramello e uvetta, prugna disidratata, fruit cake, pan di Spagna: lo bilanciano le delicate tostature del pane, qualche accenno di caffè, ma nel finale non c'è quasi amaro. L'alcool si sente per quanto dichiarato, potrebbe essere un po' più nascosto ma ha il merito di asciugare bene tutto il dolce dando alla birra l'equilibrio necessario. Una Baltic Porter molto pulita, ricca ed intensa, morbida, calda: si sorseggia lentamente ma regala grandi soddisfazioni. 
Formato: 35.5 cl., alc. 10%, IBU 45, lotto o scadenza non riportati.

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 20 febbraio 2017

Anchorage Rondy Brew Saison

Anchorage Brewing Co. viene fondata a giugno 2011 nell’omonima città dell’Alaska da Gabe Fletcher. Dopo tredici anni passati a lavorare per la Midnight Sun Brewing Company, prima sulla linea d’imbottigliamento e poi come birraio, Fletcher decide di mettersi in proprio e di lavorare su quella che è la sua vera passione: le birre acide e a fermentazione spontanea, l’utilizzo di lieviti selvaggi: “ero stanco di realizzare sempre le solite birre, stare dietro alle scadenze imposte dai distributori e riuscire a fare solo una volta ogni tanto un invecchiamento in botte. Voglio fare solo birre fermentate nel legno, produrle una o due volte l’anno, che saranno pronte quando è ora e non quando lo chiede il distributore”. 
In assenza d'impianto produttivo, Fletcher affitta uno spazio di circa 300 metri quadri all’interno del Snow Goose Restaurant and Sleeping Lady Brewing Co; il mosto viene prodotto al piano di sopra, dove si trova l’impianto, e poi trasferito attraverso tubazioni direttamente al piano di sotto dove Fletcher ha posizionato 250 botti, due foudres da 70 litri, due tank in acciaio, una linea d’imbottigliamento e la cella frigorifero. Legno di rovere francese, soprattutto, “perché secondo il mio gusto quello americano tende ad essere troppo potente e a risaltare troppo nella birra”. 
Anchorage parte come una sorta di beerfirm che fermenta il mosto in foudres di legno con diversi ceppi di lievito belga e poi effettua una rifermentazione in botte aggiungendo brettanomiceti: tre mesi, sei mesi, un anno.. ogni diversa birra ha il suo tempo necessario. Jeremiah Boone di Midnight Sun lo viene ad aiutare nel primo anno d’attività, ma poi Fletcher fa quasi tutto da solo, dalla produzione del mosto all’imbottigliamento: la parte commerciale è facilitata dall’arrivo del distributore americano Shelton Brothers, che si offre di acquistare quasi tutta la sua produzione.  Manco a dirlo, nell’anno successivo al debutto (2012) il popolo di Ratebeer lo annovera già tra i cinque migliori nuovi birrifici al mondo. Senza fretta Fletcher lavora in parallelo alla costruzione del proprio birrificio, poi inaugurato nella primavera del 2014; la nuova location all’incrocio tra la 148 W e la 91st Avenue dispone di 750 metri quadri ed una suggestiva tasting room che è praticamente posizionata in mezzo ai grandi foeders. Chi ha visitato il birrificio afferma che nell'edificio c'è sicuramente più legno che acciaio; non c’è cucina ad accompagnare le birre, ma potete portarvi il cibo da fuori.  Sulle pareti, il motto scelto da Fletcher: “Where brewing is an art, and Brettanomyces is king
Una cinquantina le birre prodotte da Anchorage in sei anni di attività, una gamma che negli ultimi anni si è svincolata dal “purismo” delle fermentazioni in legno e dall’uso dei lieviti selvaggi per realizzare anche qualche IPA / Double IPA; diverse anche le collaborazioni, realizzata soprattutto con Hill Farmstead (qui ne avevo assaggiata una) e Jolly Pumpkin. All’appello poteva mancare Mikkeller? Certo che no, e infatti sul blog è passata anche la Invasion Farmhouse IPA.

La birra.
Dal 1935 ad Anchorage si tiene ogni anno il Fur Rendezvous, comunemente chiamato “Fur Rondy”: un festival di tre giorni che ospita attività sportive, eventi e divertimento per tutte le età, inclusa una spettacolare fiaccolata. L’edizione 2017 inizierà nel prossimo fine settimana. Nel 2012 l’Anchorage Brewing Company realizza una birra appositamente per la manifestazione chiamandola Rondy Brew: una saison luppolata con East Kent Goldings, anche in dry-hopping, e rifermentata in bottiglia con brettanomiceti. Da allora Gabe Fletcher accompagna ogni edizione del festival con una diversa versione della Rondy Brew, solitamente una Saison o una IPA, nella quale i brettanomiceti sono ovviamente sempre protagonisti.
Nel bicchiere Rondy Brew che viene catalogata dai siti di beer-rating come edizione 2016, ovvero dedicata al Fur Rendezvous che si è tenuto nel febbraio di quell'anno: la bottiglia reca tuttavia la data "febbraio 2015, batch 5". Al di là delle discrepanze temporali, si tratta di una Saison prodotta con luppolo Motueka, fermentato in foudres di rovere francese con lievito saison e brettanomiceti, maturata in botti di rovere con ibisco e dry-hopping di Motueka.
Il suo colore è dorato con sfumature rosa che richiamano il fiore dell'ibisco: la scomposta schiuma biancastra è generosa ed ha una buona persistenza. Ad un paio d'anni dalla messa in bottiglia i brettanomiceti dominano l'aroma: note lattiche, di limone e mela acerba, sudore, pelle di salame, legno e cantina, polvere. La componente funky è ingentilita da profumi floreali, di pompelmo rosa (metteteci sopra un po' di zucchero), frutta tropicale. Ruspante e vivace al palato, come un saison dovrebbe sempre essere, scorre con grande facilità ed un'elevata carbonazione. Le note lattiche e quelle aspre del limone entrano subito in gioco ben supportate da un tappeto dolce che richiama la polpa dell'arancia, il melone, forse il litchi. In sottofondo troviamo pompelmo rosa, scorza d'arancia, note legnose e qualche leggero spunto acetico che tuttavia non disturba assolutamente la bevuta. Birra secchissima, estremamente dissetante e rinfrescante, chiude con un amaro di buona intensità nel quale si alternano note terrose, lattiche e di scorza d'agrumi. 
Saison molto pulita, complessa ma facile da bere, con un equilibrio molto ben riuscito tra la parte rustica/funky ed un elegante carattere fruttato: livello piuttosto alto, prezzo che si adegua ma l'acquisto non lascia rimpianti. Molto, molto bene. 
Formato: 75 cl., alc. 6%, IBU 30, lotto 5, febbraio 2015, prezzo indicativo 18.00-20.00 Euro (beershop)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 17 febbraio 2017

Unibroue: Maudite & Trois Pistoles

Appuntamento numero tre  con il birrificio canadese Unibroue che vi avevo presentato giusto in questa occasione: è stato fondato nel 1990 da André Dion e Serge Racine che si sono poi avvalsi di alcuni consulenti belgi per la realizzazione delle ricette. Gino Vantieghem prima e Paul Arnott (un passato a Chimay) hanno contribuito a dare al birrificio quel DNA belga che il fondatore Dion voleva. Nel 2004 Unibroue venne acquistata dal birrificio canadese Sleeman il quale, due anni dopo, passò nelle mani giapponesi di Sapporo per 400 milioni di dollari. Il birraio è Jerry Vietz, in Unibroue dal 2003.  Dopo l’ottima tripel La Fin du Monde e la meno riuscita Don de Dieu, vediamo il birrificio canadese alla presa con altre due Belgian Strong Ales. 
Partiamo dalla Maudite, prodotta per la prima volta nel 1992 e definita una  “Strong amber-red ale”: il birrificio informa anche che si tratta della prima birra “forte” (qualsiasi cosa voglia dire questa parola) commercializzata nello stato del Quebec. Il nome prende spunto dalla popolare leggenda francese su di un nobile chiamato Gallery che amava cacciare e, causa di questa passione, non andava mai alla messa domenicale. Per questo peccato, fu condannato a volare in eterno nel cielo notturno, inseguito da cavalli e lupi. Quando i francesi arrivarono in Canada, le loro leggende si mescolarono a quelle degli indiani e la leggenda del cacciatore Gallery fu accostata a quella indiana della “canoa volante”. Otto boscaioli si trovavano ubriachi a trecento miglia di distanza da casa nel corso dell’ultima sera dell’anno: per tornare dalle proprie famiglie fecero un patto col diavolo in modo da far volare la propria canoa (Chasse-Galerie). L’unica condizione imposta dal demonio fu che i viaggiatori non dovevano né nominare il nome di Dio né toccare, con la canoa volante, nessuna delle croci poste sui campanili delle chiese. In caso contrario, il diavolo si sarebbe preso le loro anime: gli uomini iniziarono a vogare nell’aria, la canoa arrivò rapidamente a Montreal e furono in grado di festeggiare l’anno nuovo danzando e bevendo con i propri cari. Terminati i festeggiamenti, i boscaioli risalirono sulla canoa per rientrare sul luogo di lavoro prima del sorgere del sole: gli eccessi dell’alcool e una notte priva di luna resero molto difficile il viaggio di ritorno. La canoa attraversò una tempesta di neve, sfiorò la croce sul campanile di una chiesa e, spaventato, uno dei viaggiatori iniziò a bestemmiare il nome di Dio: terrorizzati dalla paura di perdere l’anima, gli occupanti persero il controllo della canoa che si schiantò contro un grosso pino.  Ci sono diversi finali della leggenda: il più comune racconta che gli uomini furono condannati a volare in eterno con la canoa all’inferno e ad apparire nel cielo terrestre ogni notte di capodanno. L’etichetta della birra è una riproduzione quasi fedele del dipinto di Henri Julien chiamato La Chasse-galerie (1906).

La birra.
Quasi limpida, di colore ambrato con riflessi oro antico: la schiuma ocra è cremosa e compatta ed ha una buona persistenza. Frutta secca (nocciola in primis), caramello, biscotto e zucchero candito disegnano un aroma piacevole e delicatamente speziato che viene però un po’ sporcato da qualche nota fenolica di plastica. Molto carbonata, al palato scorre vivace e senza intoppi, nascondendo abbastanza bene la sua gradazione alcolica (8%). Il gusto ripropone nel bene e nel male l’aroma: biscotto, caramello, zucchero candito, frutta secca e qualche passaggio fruttato che richiama l’uvetta.  L’attenuazione è ottima, c’è tuttavia una discreta astringenza che rovina un po’ il finale nel quale s’affaccia per un breve istante la mandorla amara. Un delicato tepore di frutta sotto spirito accompagna il retrogusto di una strong ale monotematica con qualche imprecisione di troppo che ne pregiudica un po’ la piacevolezza. Peccato. Il birrificio le dà un potenziale d’invecchiamento che va dai cinque agli otto anni.  

Passiamo ora alla Trois Pistoles, che il birrificio dichiara essere una “Abbey Style Strong Dark Ale”, prodotta a partire dal 1997. Anche qui ci sono di mezzo le leggende, in particolare quelle nate nei dintorni dell’omonimo paesino del Quebec, e anche qui ci sono diverse versioni della stessa storia. Quella che riguarda Trois Pistoles racconta di un vescovo desideroso di costruire una chiesa in un paese che ne era ancora sprovvisto: l'unico problema era far arrivare sul posto le pietre necessarie. Una notte gli apparve una donna ad annunciargli che sarebbe arrivato ad aiutarlo un cavallo, a condizione che non gli fossero mai levate le briglie: la mattina successiva il vescovo trovò effettivamente uno stallone nero ad aspettarlo fuori dalla propria casa. Consegnò il cavallo agli operai che iniziarono ad utilizzarlo: lo stallone trainava un'enorme carrozza piene di pietre senza fare nessuna fatica. Viaggio dopo viaggio furono aggiunte dagli uomini sempre più pietre ma l’animale continuava a trascinarle senza sforzi finché un giorno un operaio slegò per errore il cavallo, che scappò via. Il vescovo cercò di fermarlo facendo il segno della croce: apparvero tuoni, fiamme e il diavolo riportò il cavallo all’inferno, da dove proveniva.  La costruzione della chiesa fu interrotta e ancora oggi si può vedere che su di un muro della chiesa di  Trois Pistoles raffigurata in etichetta, manca un mattone.

La birra.
Quadrupel o Belgian Strong Dark Ale, lascio a voi scegliere il nome che preferite: classico colore tonaca di frate, schiuma cremosa e compatta, dall'ottima persistenza. Il naso parla di pera e mela, biscotto, zucchero candito, prugna, una delicata speziatura che richiama il coriandolo, zucchero candito: l'intensità è notevole ma gli esteri fruttati sono un po' "sparati" e fuori controllo. La sensazione palatale trova un ottimo equilibrio tra la vivacità conferitale dall'elevata carbonazione ed un "fondo" morbido che accarezza il palato. Con una corrispondenza quasi perfetta con l'aroma, il gusto parla di caramello e biscotto, uvetta, prugna sciroppata, pera e mela: dolce ma ben attenuata, priva di amaro, chiude con una punta d'astringenza. Il finale è caldo, etilico, ricco di frutta sotto spirito. Valgono più o meno le stesse considerazioni fatte per la Maudite: livello buono ma non eccelso, qualche imprecisione di troppo e, nel caso specifico, esteri un po' fuori controllo. 
Nel dettaglio:
Maudite, formato 34,1 cl., alc. 8%, IBU 22, lotto FH06151659Q.
Trois Pistoles, formato 34,1 cl.,   alc. 9%, IBU 15,5, lotto K14151749Q (ottobre 2015)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 16 febbraio 2017

Marble Portent of Usher

“Durante un giorno triste, cupo, senza suono, verso il finire dell'anno, un giorno in cui le nubi pendevano opprimentemente basse nei cieli, io avevo attraversato solo, a cavallo, un tratto di regione singolarmente desolato, finché ero venuto a trovarmi, mentre già si addensavano le ombre della sera, in prossimità della malinconica Casa degli Usher. Non so come fu, ma al primo sguardo ch'io diedi all'edificio, un senso intollerabile di abbattimento invase il mio spirito. (…) Contemplai la scena che mi si stendeva dinanzi, la casa, l'aspetto della tenuta, i muri squallidi, le finestre simili a occhiaie vuote, i pochi giunchi maleolenti, alcuni bianchi tronchi d'albero ricoperti di muffa; contemplai ogni cosa con tale depressione d'animo ch'io non saprei paragonarla ad alcuna sensazione terrestre se non al risveglio del fumatore d'oppio, l'amaro ritorno alla vita quotidiana, il pauroso squarciarsi del velo. Sentivo attorno a me una freddezza, uno scoramento, una nausea, un'invincibile stanchezza di pensiero che nessun pungolo dell'immaginazione avrebbe saputo affinare ed esaltare in alcunché di sublime”. 
Così inizia il racconto "Il crollo della casa degli Usher” pubblicato per la prima volta nel 1839 dallo scrittore americano Edgar Allan Poe sulla rivista Burton's Gentleman's Magazine. Il protagonista e narratore della vicenda, di cui non conosceremo mai il nome, riceve una lettera dal suo amico d’infanzia Roderico Usher che lo implora di raggiungerlo nella sua casa. Roderico e sua sorella Lady Madeline sono malati e la situazione di quest’ultima degenera pochi giorno dopo l’arrivo dell’ospite: la donna muore e il narratore aiuta Roderico a seppellirla nei sotterranei della casa. La notte del settimo giorno i due uomini vengono svegliati da un forte uragano: impossibilitati a dormire, decidono di leggere assieme ad alta voce un romanzo medievale. Improvvisamente nella casa si odono dei rumori identici a quelli raccontati nel libro: la porta della stanza in cui si trovano si spalanca e appare Lady Madeline, che si getta con violenza sul fratello il quale cade a terra morto di terrore. Mentre fugge lontano dalla casa, il narratore viene quasi abbagliato dalla luce della luna calante che splende da un’enorme crepa della casa: mentre si volta per guardare, la crepa si allarga e la casa crolla improvvisamente nello stagno che si trovava lì davanti. 
Ad Edgar Allan Poe il birrificio Marble di Manchester (qui trovate lo loro storia) dedica una serie di Imperial Stout: si parte a giugno 2016 con quella chiamata Portent of Usher che verrà poi invecchiata in botte dando origine ad almeno sei diverse versioni, almeno secondo le intenzioni del birrificio. La prima di questa, chiamata The Pit & The Pendulum, dall’omonima storia di Poe (Il pozzo e il pendolo) ha riposato in botti ex-bourbon ed è stata presentata a novembre 2016.

La birra.
Portent of Usher, imperial stout  "base" dalla quale nasceranno poi le diverse versioni barricate; nessuna informazione disponibile sugli ingredienti utilizzati. Bello il colore (quasi nero) ma la schiuma risulta piccola e piuttosto grossolana, dissolvendosi rapidamente nel bicchiere. L’intensità dell’aroma è davvero molto bassa ed è un peccato, perché i profumi che ci sono meriterebbero di essere meglio valorizzati: fruit cake, liquirizia, tostature e accenni di caffè. Per fortuna le cose migliorano drasticamente al palato: la bottiglia non rispetta gli elevati standard qualitativi e di pulizia che ho spesso trovato nelle birre di Marble ma offre comunque una bevuta piuttosto soddisfacente. Caramello, uvetta, fruita cake e liquirizia iniziano un percorso dolce che viene gradualmente bilanciato dall’amaro delle tostature, del caffè e del cioccolato fondente. Il DNA è quello inglese: buona bevibilità, corpo medio, nessun accenno di catrame:  la birra è morbida ma è quasi piatta, sicuramente qualche bollicina in più non sarebbe stata male. Nel complesso è un’imperial stout dolce con l’alcool (9%) molto ben dosato; riscalda quanto basta aumentando l’intensità solamente nel finale abbracciando caffè e tostature. Intensa e ricca ma non esente da critiche: naso scarico, carbonazione quasi assente, pulizia non esemplare. Da Marble mi aspettavo di più.
Formato: 33 cl., alc. 9%, lotto 1132, scad. 03/2018, prezzo indicativo (5.00/6.00 Euro beershop, Italia)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 15 febbraio 2017

Costa Est Inachis iO American IPA

Inizia nel 2014 l’avventura di Costa Est, beerfirm pesarese guidata da Simone Pagnoni e Alessandro Fosca: punto d’arrivo di una passione per l’homebrewing iniziata nel garage di Alessandro con le prime cotte All Grain e continuata poi nell’appartamento dei nonni di Simone. Qui i maggiori spazi a disposizione hanno consentito l’installazione di un mini impianto sul quale testare idee e ricette: alla fine di un anno trascorso al ritmo di una cotta la settimana per un totale di circa 1500 litri prodotti, i due homebrewers prendono la decisione di saltare la staccionata e passare dalla parte dei professionisti. La burocrazia italiana però non è notoriamente amica di chi ha fretta e quindi i due si orientano verso un modello d’impresa più semplice: la beerfirm, con le ricette che vengono sviluppate presso gli impianti del vicino birrificio Collesi di Apecchio.  
Il debutto avviene con l’American IPA chiamata Inachis Io e con la Belgian Ale Pupa, seguite da una birra al miele chiamata Carata. Nel futuro, come in quello di ogni beerfirm o quasi, c’è come al solito l’obiettivo di dotarsi d’impianto proprio.

La birra.
Inachis iO, nome che può apparire strano ma che in realtà  altro non indica che la farfalla volgarmente chiamata Vanessa o “occhio di pavone”; diffusissima in tutta Italia,  ha  “livrea inconfondibile, ali frastagliate dal colore di fondo rosso mattone con grandi macchie ocellate; il rovescio delle ali è bruno scuro screziato. Quando disturbata, la Vanessa io, apre di scatto le ali mostrando i colori vivaci del dorso disorientando i predatori. I bruchi, neri con macchioline bianche, sono gregari e vivono sull’ortica riparati in tele di seta da loro stessi prodotte”. Questo il nome scelto per un’American IPA sulla quale non ho trovato molte informazioni, se non che utilizza ovviamente luppoli americani e malto inglese Maris Otter.
Al solito la fotografie la rende più scura del reale: il suo colore è ramato, con riflessi dorati ed una schiuma biancastra cremosa e abbastanza compatta, dall'ottima persistenza. Il naso non brilla né per intensità né per fragranza: accanto a profumi floreali ci sono agrumi, qualche leggera deriva saponosa e caramello. La bevuta prosegue sugli stessi binari, con una base biscottata e caramellata a supporto della luppolatura; lieve presenza d'agrumi, soprattutto pompelmo, e poi un finale amaro resinoso  e vegetale di discreta intensità ma di breve durata. La sensazione palatale è gradevole ma la secchezza non è certamente esemplare e ad ogni sorso il palato rimane sempre avvolto da una lieve patina dolce. La data di scadenza di questa bottiglia dice novembre 2018: si potrebbero ipotizzare due anni di shelf life, ma io l'ho ricevuta prima di novembre 2016. La freschezza è tutto o quasi in questo tipo di birre e purtroppo in questa bottiglia non la trovo già più: incomprensibile quindi pensare di berla nel 2018 ad oltre due anni dalla nascita. Al di là di questo, si tratta di una birra priva di evidenti difetti ma anche di emozioni; una sorta di IPA versione 1.0, basica e senza spunti che la possano rendere interessante ad un palato che ha già provato ed apprezzato quelle di Hammer, Toccalmatto, Vento Forte,  Brewfist e Cr/ak, giusto per citare i primi che mi vengono in mente. 
Formato: 33 cl., alc. 6.5%, IBU 45, lotto 5916, scad. 30/11/2018.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 14 febbraio 2017

Brew Age: Hopfenauflauf & Affenkönig

Continua il viaggio all’interno della craft beer revolution austriaca: dopo un microbirrificio e alcuni prodotti “crafty” è il turno di una beerfirm, fenomeno al quale anche l’Austria non si è sottratta. Parliamo di Brew Age, fondata a Vienna da quattro soci:  Johannes Kugler (birraio),  Michael  e Thomas Mauer (commerciali),  Raphael Schröer (amministrazione). 
Nel 2006 Johannes ha un lavoro che lo occupa dalle sei del mattino alle due e ne approfitta, assieme all’amico Thomas, per dedicare il resto del pomeriggio a provare a fare la birra in casa: l’hobby velocemente si espande  e le pentole conquistano tutto lo spazio del garage. L’anno successivo i due vorrebbero già trasformare l’hobby in una professione ma coscienziosamente decidono invece di iniziare a studiare, iscrivendosi all’università di Weihenstephan. Il progetto birrificio rimane nel cassetto sino al 2012 quando i quattro soci stanno per acquistare un impiantino da un paio di ettolitri di capacità: un ultimo ripensamento, soprattutto riguardo alla propria  mancanza d’esperienza nella gestione di un birrificio, li fa optare per l’opzione beerfirm e decidono realizzare le proprie ricette assieme al birraio Reinhold Barta sugli impianti del birrificio Gusswerk di Hof bei Salzburg, già passato sul blog in questa occasione
Brew Age debutta a marzo 2014 e, l’anno successivo, il popolo di Ratebeer lo elegge come miglior nuovo birrificio austriaco.  Si parte con un’American Pale Ale, una classica Vienna, una Black IPA che vengono affiancate da un Barley Wine, produzione invernale. La scelta di non partire con un impianto molto piccolo si rivela azzeccata: 800 gli ettolitri prodotti nel 2015 e quasi 1500 quelli dell’anno da poco terminato; nel futuro a lungo termine il desiderio di aprire finalmente il proprio birrificio nei dintorni di Vienna. Nel futuro più immediato ci sono gli invecchiamenti in botte e la produzione di birre acide: è il lascito di un periodo di praticantato che il birraio  Johannes Kugler ha svolto in California presso Firestone Walker.

Le birre.
Hopfenauflauf, la "casseruola di luppolo": questo il nome scelto per un'American Pale Ale la cui ricetta prevede malti Pilsner e Caramello, luppoli Chinook, Citra e Centennial. Oro antico, leggermente velato: poca schiuma, biancastra, cremosa e compatta, discreta persistenza. La bottiglia è nata a settembre 2016 e proviene dalla grande distribuzione: un mix di fattori che potrebbe rivelarsi letale. Le prime ossidazioni si rivelano già al naso; scarsa intensità, marmellata d'agrumi, caramello, formaggio. Non manca neppure un po' di diacetile. Il gusto prosegue in linea retta confermando le impressioni di una birra molto stanca: caramello, biscotto e marmellata d'agrumi per una bevuta dolce che termina con un amaro vegetale poco pungente e poco incisivo. Molto poco secca, palato sempre avvolto da una lieve patina burrosa: l'intensità ci sarebbe, sopratutto quella fruttata, ma è ovviamente compromessa dall'assenza di freschezza. Cinque i mesi dall'imbottigliamento ma sembrano molti, molti di più: difficile farsi un'opinione veritiera, sarebbe da ritrovare molto più fresca.

La Double IPA chiamata Affenkönig (il Re Luigi ne Il Libro della Giungla) viene presentata il 13 marzo 2015 per festeggiare il primo compleanno della beerfirm. Stessi malti (Pilsner e Caramello), luppoli Amarillo, Citra, Columbus e Galaxy per una birra che si presenta ambrata con venature dorate ed un generoso cappello di schiuma ocra, fine e compatta, dall'ottima persistenza. Anche questa bottiglia è nata lo scorso settembre e l'aroma è purtroppo segnato dal tempo: l'alcool accompagna stanchi profumi floreali, di caramello e marmellata d'agrumi. In assenza di freschezza, c'è un pochino di formaggio. Al palato è morbida ma un po' pesante e la scorrevolezza, anche se stiamo parlando di una birra dal robusto contenuto alcolico (8.2%), non è ottimale. L'interpretazione dello stile si colloca esattamente all'opposto delle mie preferenze: si usa il dolce del caramello per bilanciare la generosa luppolatura. Qualche nota biscottata e la frutta tropicale (mango e papaia) anticipano un amaro vegetale piuttosto fiacco che non spicca. Il risultato è una Double IPA poco attenuata e molto dolce, con caramello e marmellata che fagocitano l'amaro: la mancanza di freschezza, caratteristica fondamentale per questo tipo di birre, le dà il colpo di grazia. Non ci sono evidenti difetti, ma non è la birra che vorresti trovare nel bicchiere.
Difficile farsi un'opinione realistica su queste due birre che hanno evidentemente già superato il punto di non ritorno: cinque mesi sono tanti ma non tantissimi, il risultato è comunque poco soddisfacente, benché entrambe si riescano ancora a bere. In ogni caso due interpretazioni "1.0", se mi passate il paragone con il mondo informatico: nella maggioranza dell'Europa, Italia inclusa, ci siamo già evoluti verso interpretazioni di IPA molto più snelle e secche, meno ingombranti. E se vogliamo parlare solo della scena austriaca, c'è Bevog che andrebbe preso ad esempio.
Nel dettaglio: 
Hopfenauflauf: 33 cl., alc. 5.4%. IBU 35, lotto 13/09/2016, scad. 10/07/2017, 1,99 Euro (supermercato)
Affenkönig: 33 cl., alc. 8.2%, IBU 70, lotto 22/09/2016, scad. 19/07/2017, 2.49 Euro (supermercato)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 13 febbraio 2017

Tempest Mexicake

Credo sia ancora presto per parlare di “tendenza”, ma certo è che vi sono sempre più birrifici che stanno trasformando producend “torte messicane al cioccolato” in forma liquida.  Non sono riuscito a scoprire quale sia stata la prima Imperial Stout prodotta con aggiunta dei tipici ingredienti della “Mexican Cake” o del “Pastel de chocolate mexicano”: cioccolato, cannella, vaniglia e peperoncino.  La prima a raggiungere un certo hype tra i beergeeks fu la Westbrook Mexican Cake, ma moltissimi birrifici americani hanno realizzato delle varianti speciali delle proprie imperial stout – spesso disponibili solo alla spina e solo presso la taproom – arricchendole con il tipico bouquet di spezie del dolce messicano.  
Il “Pastel de chocolate mexicano” in realtà prende origine da una bevanda conosciuta già ai tempi dei Maya e degli Aztechi; così almeno dichiara Clay Gordon, esperto di cioccolato, nel suo libro Discover Chocolate. Queste popolazioni coltivavano il cacao e con le fave realizzavano una bevanda il cui amaro veniva bilanciato utilizzando spezie ed erbe autoctone come vaniglia e peperoncino; zucchero e cannella furono introdotte solo successivamente in seguito all’arrivo degli Europei. Dalla bevanda si è poi passati alla torta. 
Ritornando alla birra, in Europa siamo arrivati ovviamente un po’ più tardi rispetto agli americani; tra i birrifici del nostro continente che si sono cimentati nella realizzazione di una “mexicake stout” ci sono gli scozzesi di Tempest, di quali vi avevo parlato più dettagliatamente in questa occasione. La ricetta della loro potente (11% ABV) Mexicake prevedere malti Golden Promise, Chocolate, Roasted Barley, Caramel, Munich e avena; il luppolo è il Columbus e il lievito il California Ale. La speziatura vede l’utilizzo di cannella, vaniglia, cacao, peperoncini Mulato e Chipotle; la birra, accompagnata dalla bella etichetta realizzata da Zuzana Gibb, fa il suo debutto a maggio 2016, quando il birrificio annuncia provocatoriamente di aver realizzato “una birra per l’estate, leggera e da gustare seduti sotto al sole”.

La birra.
Non è nera ma poco ci manca: la cremosa schiuma color cappuccino non è molto generosa ma abbastanza compatta e persistente. Anche se pulito, l’aroma non è quell’esplosione di profumi che t’aspetteresti da una birra così potente e – nelle intenzioni – ricca di spezie. Tostature, vaniglia e cioccolato sono accompagnate da un’avvertibile nota etilica; in sottofondo appare la cannella ed anche la componente piccante risponde presente all’appello. Al palato risulta meno ingombrante del previsto: il corpo è più medio che pieno, la consistenza leggermente oleosa. La carbonazione contenuta le permette di scorrere ad un buon ritmo ed il gusto compensa ampiamente la relativa avarizia dell’aroma: il dolce di caramello e vaniglia (molta!) s’accompagna all’amaro delle tostature, del caffè e del cioccolato fondente, l’alcool si fa sentire senza mai andare oltre le righe. La sua presenza è tuttavia fondamentale a fine bevuta, quando entra in gioco il piccante del peperoncino: i due elementi s’incontrano e si sostengono a vicenda, apportando un bel calore che riscalda tutto il retrogusto, amaro di tostature e caffè. Il livello del peperoncino è tranquillamente tollerabile anche per chi – come me – non lo ama troppo e non mangia quasi mai piccante; la cannella (altra spezia che non amo molto) è avvertibile in piccole dosi solo al naso. 
La Mexicake di Tempeste si muove sul confine della birra-dessert restandone però intelligentemente al di qua: l'imperial stout di base c'è è ed è la caratteristica dominante, gli orpelli sono giustamente in secondo piano. Potente e pulita, solida e ben fatta: un bel bere se vi piace questa tipologia di birre.
Formato: 33 cl., alc. 11%, lotto 000274, scad. 01/08/2017, prezzo indicativo 7.00-8.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 12 febbraio 2017

Wieselburger Schwarzbier

Wieselburg, comune austriaco a metà strada tra Linz e Vienna: qui nel 1770 Josef Schauer acquistò un piccolo birrificio preesistente iniziando un piano di espansione che fu poi portato a termine dai numerosi altri proprietari che gli succedettero. Nel 1921 il birrificio Kaltenhausen, la Linzer Aktienbrauerei, i birrifici Poschacher di Linz e Salzkammergut di Gmunden formarono assieme alla Wieselburger Aktienbrauerei il gruppo Österreichische Brau AG. Dopo alcuni anni vennero acquistate la Niederösterreichische Obstverwertung und Brauerei GmbH, il birrificio Liesing, la Bürgerliches Brauhaus di Innsbruck, il birrificio Reutte, la Vereinigte Tiroler Brauereien Kundl-Jenbach, il birrificio Sternbräu di Salisburgo e la  Aktiengesellschaft der Brunner Brauerei. 
Lo "shopping" continuò con l'acquisizione della  Aurolzmünster Gräflich Arco-Valley’sche Brauerei, della Klosterbrauerei di Engelszell, della Löwenbrauerei di Innsbruck e del 40% del birrificio Zipf.  La società, con sede legale a Linz, cambiò più volte nome a seguito delle fusioni con il birrificio Zipf (1970) e con la Schwechater Brauerei (1978).
La denominazione attuale Brau Union Österreich AG risale al 1993 quando avvenne la fusione tra la Österreichische Brau AG (ovvero tutta la storia appena raccontatavi) e la Steirerbrau. Dopo aver acquisito il 33% del birrificio Schladming, la Brau Union venne fagocitato nel 2003 dal gruppo Heineken per 769 milioni di euro: si formà allora  il più grande produttore di birra dell'Europa centrale ed orientale, che oggi controlla il  60% del mercato austriaco (nove milioni di ettolitri circa) con sette siti produttivi, e una quindicina di marchi tra i quali, oltre a quelli di Heineken, ci sono Edelweiss, Gösser, Kaiser, Puntigamer, Reininghaus, Schladminger, Schlossgold, Schwechater, Wieselburger e Zipfer: praticamente quasi tutto quello che trovate da bere nel locali dell'Austria!

La birra.
Stammbräu, Gold, Spezial e Schwarzbier: sono queste le quattro birre a marchio Wieselburger: quest'ultima si presenta nel bicchiere di color ebano scuro con una generosa schiuma cremosa e compatta, dall'ottima persistenza. Impeccabile l'aspetto, molto meno entusiasmante l'aroma che, in assenza di fragranza, presenta comunque i classici profumi di pane nero, pumpernickel e caramello, con le note dolciastre di quest'ultimo che introducono quelle del mirtillo sciroppato. Il gusto si muove sullo stesso percorso con qualche passaggio a vuoto che si traduce in un eccesso di acquosità; pane nero, leggere tostature e qualche accenno di caffè rappresentano le note positive di una bevuta in cui affiora troppo di frequente una nota caramellosa piuttosto dolce e artificiosa. Chiude in tono minore con le tostature del pane che affondano nell'acqua: l'intensità, sino ad allora discreta, subisce un crollo in verticale. Ovviamente facile da bere, poche bollicine, morbida al palato: bevuta bilanciata nella quale il DNA industriale porta via qualsiasi possibilità di emozioni e di fragranza. E con un rapporto qualità prezzo per nulla favorevole.
Formato: 50 cl., alc. 4.8%, lotto 403G.2, scad. 04/2017, prezzo indicativo 1,95 Euro (Supermercato, Austria).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 10 febbraio 2017

Extraomnes Synesthesia

Sinesteṡìa, dal greco syn-aisthanéstahai, ovvero “percepire insieme, sentire insieme”; con questo termine il linguaggio medico indica quel “fenomeno psichico consistente nell’insorgenza di una sensazione (auditiva, visiva, ecc.) in concomitanza con una percezione di natura sensoriale diversa e, più in particolare, nell’insorgenza di una immagine visiva in seguito a uno stimolo generalmente acustico (audizione colorata), ma anche tattile, dolorifico, termico". 
Le forme sinestesiche sono state ampiamente investigate in campo artistico: pensate a suoni che suscitano immagini colorate, colori che suscitano suoni, quadri in cui è dipinta gente che mangia e che possono suscitare sensazioni di profumi o di sapori in chi li guarda. Ma è forse la  letteratura il campo prediletto della sinestesia: “la si può rintracciare con sensazioni olfattive in Huysmans o in Oscar Wilde, con sensazioni gustative in Collodi o in Proust, con sensazioni tattili in Joyce o in Marinetti… oppure incontrarla come cronaca nelle Vite del Vasari quando riferisce di certi banchetti fatti dagli artisti del Cinquecento”  (cfr. Lamberto Pignotti, I sensi delle arti: sinestesie e interazioni estetiche, Ed. Dedalo, 1993). 
A novembre 2015 il birrificio Extraomnes annuncia l’arrivo di una nuova birra chiamata proprio Synesthesia e capace, secondo quanto dichiarato, di provocare “un coacervo di sensazioni multiple”. Si tratta di una versione della Donker, l’imperial stout al caffè della casa, invecchiata in pièces Borgogne (228 litri) che hanno contenuto Barolo. 
Non solo sinestesia ma anche Gestalt, filone della psicologia che ha intensamente studiato i fenomeni percettivi e le illusione ottiche: guardando con attenzione le linee disegnate in etichetta si vede emergere, quasi in rilevo, la sagoma del cirneco dell'Etna, simbolo del birrificio di Marnate.

La birra.
Nel bicchiere è di colore ebano scuro, opaco, e forma una discreta testa di schiuma cremosa e compatta, dalla buona persistenza. Al naso sono netti i profumi della birra "base", la Donker: gli impianti di Extraomnes si trovano all'interno della El Mundo Spa, torrefattori di caffè dal 1967, e l'utilizzo di questo ingrediente non poteva che essere esemplare. Elegantissimi i profumi di caffè in chicchi, accompagnati da note di cuoio e terrose, orzo tostato, accenni di cioccolato amaro; il passaggio in botte regala note vinose e di legno, sorprendendo con degli sprazzi di ciliegia e frutta rossa che fanno di tanto in tanto capolino. Al palato c'è qualche bollicina in eccesso, ma basta aver un po' di pazienza per ottenere una birra più morbida che non pretende di essere ingombrante. Caffè, tostature e caramello bruciato iniziano il percorso "tradizionale" di una imperial stout che continua con cuoio, liquirizia e terra prima di virare improvvisamene in territorio vinoso, sostenuto da una gradazione alcolica importante che nella seconda parte della bevuta si mostra in tutta la sua pienezza (12.3%). La chiusura tannica è piuttosto secca, passa quasi inosservato un accenno d'astringenza ed ecco che ci si tuffa in un lungo retrogusto vinoso caldo ed etilico, nel quale l'imperial stout è definitivamente scomparsa. Pensate ad un pranzo capovolto: s'inizia dal caffè per terminare con il vino. Grande eleganza olfattiva e pulizia per quel che riguarda il caffè, grande intensità nel gusto: birra complessa da scoprire sorso dopo sorso e da sorseggiare in tutta tranquillità scandagliando forme sinestesiche.
Formato: 33 cl., alc. 12.3%, lotto 316 15, scad. 30/11/2017, prezzo indicativo 6.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 9 febbraio 2017

Dark Horse Too Cream Stout

Non c’è nulla da dire, alla Dark Horse Brewing Co.  le birre “scure” le sanno fare molto bene: a partire da quella Reserve Special Black Ale con la quale il birrificio debuttò nel lontano 1997 a Marshall, piccola cittadina nella contea Calhoun, Michigan, 7000 anime.  Bob Morse e il figlio Aaron lo inaugurarono come ristorante/brewpub ma, visto lo scarso successo, lo convertirono poco tempo dopo in birrificio con piccola taproom annessa. La loro storia l'avevo riassunta qui.  
Alla Dark Horse amano le scure e ne propongono ben cinque, dicono, “per meglio affrontare i rigidi inverni del Midwest”; ovvia l’influenza del vicino di casa (50 km) Bell’s, che ogni anno organizza l’Annual All Stouts Day  celebrandolo con un’intera batteria di spine dedicate a quello stile. 
La “Stout series” di Dark Horse venne inaugurata dalla cremosa One Oatmeal Stout (7%), ovviamente ricca d’avena, in produzione nel mese di gennaio. In successione furono poi sviluppate la Too Cream Stout (7.5%), oggi prodotta in aprile con aggiunta di lattosio; la Tres Blueberry Stout  (7.5%) viene commercializzata in novembre con aggiunta di mirtilli freschi dopo la fermentazione. La Fore Smoked Stout  (7%), la cui ricetta include una percentuale  di malto affumicato, arriva un po’ fuori stagione: è agosto ma nulla vi vieta di conservarla sino all’arrivo dei primi freddi. La serie si conclude con la potente e ottima Plead the 5th, un’imperial stout che delizia i palati ogni dicembre e che spero di riuscire un giorno a trovare nella sua versione Bourbon Barrel Aged.

La birra.
Difficile risalire all’età della bottiglia di Too Cream Stout che mi accingo a stappare visto che sulla bottiglia non è impresso nulla.  Visto che esce nel mese di aprile, ipotizziamo che stia per festeggiare il suo primo compleanno. 
Assolutamente nera, forma un cappello di schiuma non troppo generoso nelle dimensioni ma impeccabile per quanto compatto e cremoso.  Al naso non solo caffè e tostature, come atteso, ma anche pane nero, cuoio, caramello bruciato; c’è anche un lieve sottofondo terroso, qualche accenno di cioccolato al latte. A fronte di un ABV non troppo elevato (7,5%) questa stout di Dark Horse mostra un’intensità davvero notevole al palato: il caffè e le tostature sono intense ma non ruvide e vengono contrastate da una (nonostante quel “too cream” del nome) leggera cremosità data dal lattosio. Il sottofondo dolce è di caramello bruciato, appaiono liquirizia e cioccolato al latte prima di un finale amaro ricco di caffè e torrefatto, leggermente terroso, una perdonabile punta d’astringenza e un lungo retrogusto che continua in linea retta senza nessuna deviazione. L’alcool è presente ma delicato, il mouthfeel  morbido e gratificante, con una carbonazione piuttosto contenuta. Ottima stout, intensa e pulita: pochi orpelli, tanta sostanza e qualità in una birra che si beve e si ribeve con grande soddisfazione.
Formato: 35,5 cl., alc. 7.5%, IBU 20, lotto e scadenza non riportati, prezzo indicativo 5.00/5.50 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.