mercoledì 31 agosto 2016

Wührer, Dreher, Forst Premium, Ichnusa, Poretti 4 Luppoli Originale Chiara, Menabrea Original

Tempo fa avevo promesso di dedicare almeno un appuntamento al mese alle birre industriali che incontriamo ogni giorno sugli scaffali della grande distribuzione; mi accorgo di non aver tenuto fede al mio (nobile?) intento e cerco oggi di rimediare mettendo a confronto sei-dico-sei lager che potrete facilmente reperire in molti supermercati. Le temperature d’agosto e la ricerca di refrigerio mi hanno un po’ agevolato il poco piacevole compito di passarle tutte in rassegna contemporaneamente. 
Dopo le varie Heineken e Bavaria, Corona e Peroni, Poretti e Moretti ospitate in passato, oggi tocca alle "italiane" Wührer, Dreher, Forst Premium, Ichnusa, Poretti 4 Luppoli Originale Chiara e Menabrea. Per evitare qualsiasi forma di condizionamento dal nome riportato in etichetta le ho assaggiate alla cieca; riporterò le mie considerazioni in ordine crescente di "gradimento", se di gradimento si può parlare. 
Le sei birre si collocano nello stesso segmento di mercato e sono di fatto identiche all’aspetto, nel loro limpido color dorato e nella bianchissima schiuma cremosa; la gradazione alcolica per tutte oscilla tra 4.5 e 4.8%, eccezion fatta per la Poretti 4 Luppoli (5.5%) che all’aspetto appare anche dal colore leggermente più carico. Meglio avrei probabilmente fatto “a scalare una marcia” ed scegliere la 3 Luppoli (4.8%) ma l’avevo già utilizzata in questa occasione

Partiamo dalla Ichnusa, marchio di proprietà del gruppo Heineken. Il 1912 è l’anno in cui la produzione di birra inizia anche in Sardegna: non vi è accordo su chi abbia esattamente fondato la “Birraria Ichnusa”, nome che si riferisce all’antica denominazione greca dell’isola, ma l’imprenditore di riferimento è Amsicora Capra, produttore di vini che in seguito alla crisi della viticoltura sarda (filossera) si mette a produrre birra. Ichnusa assume una rilevanza al di fuori dei confini regionali solo dopo la seconda guerra mondiale, arrivando ai 400.000 ettolitri prodotti nel 1981; nel 1986 viene acquistata da Heineken che giusto qualche anno prima aveva messo nel carrello degli acquisti anche la Dreher di Trieste.  La multinazionale si trova così in mano due siti produttivi sull’Isola; ad Assemini quello Ichnusa, a Macomer quello Dreher: come purtroppo avviene in questi casi, il piano di razionalizzazione e di contenimento dei costi ha portato alla chiusura del secondo.
L’incontro con questa bottiglia di Ichnusa è stato traumatico: terribilmente “skunky” all’olfatto,  puzzolente o “effetto luce” che dir si voglia:  segno di una bottiglia che ha subito traumi da eccessiva esposizione alla luce. Il gusto è leggermente più tollerabile dell’aroma, anche perché l’intensità è davvero ai livelli minimi; oltre allo skunky si percepisce il mais e un leggero amaro erbaceo finale che riesce però a sconfinare nella plastica e nella gomma. Non è neppure particolarmente secca e lascia il palato sempre un po’ appiccicoso, riducendo di molto quell’effetto rinfrescante e dissetante che una lager dovrebbe avere; la carbonazione è piuttosto blanda, dandole il colpo di grazia. Esperienza poco raccomandabile, anche se pesantemente influenzata “dall’effetto luce”, che non auguro a nessuno: la peggiore delle sei. Con 2,03 Euro al litro non si posiziona neppure tra le più economiche.

Passiamo a Wührer, ovvero il primo birrificio italiano (o forse no) che nacque nel 1829 a Brescia nella zona periferica de La Bornata; Franz Xaver Wührer ed i suoi successori ne mantennero la proprietà sino al 1981, quando la Gervais Danone acquistò il 30% delle quote societarie per poi assumerne il controllo totale;  nella sua lunga storia Wührer era divenuta proprietaria anche della Società Toscana Paszkowski (1935), di Birra Ronzani e di Birra Bologna (1959).  
Nel 1983 la Peroni subentra alla Danone nella proprietà di Wührer, mantenendo in vita il marchio ma chiudendo nel 1988 lo storico stabilimento di Brescia; dopo un ventennio d’abbandono, l’ex sito produttivo è stato riconvertito nel “Borgo Wührer” che oggi ospita spazi commerciali e residenziali. 
Anche la Wührer è prodotta utilizzando mais: non siamo tuttavia al di sotto della soglia percettiva della bottiglia di Peroni assaggiata tempo fa. L’aroma è praticamente assente, con qualche ricordo di mela verde in lontananza; il gusto non è da meno, rasentando il nulla. C’è una vaga apparenza di cereali, mais, un tocco di miele; è abbastanza secca e le bollicine appaiono in quantità superiore rispetto alle altre cinque lager. Una filo di amaro, avvertibile quando la birra si scalda, fa capolino a fine corsa. Nella sua assenza di gusto riesce a non provocare danni, ma è una consolazione davvero magra per una birra che s'avvicina all'acqua. 1,14 Euro al litro.

Dreher. Il marchio Heineken che oggi trovate sugli scaffali dei supermercati vanta una storia di tutto rispetto che conduce all’omonima famiglia di mastri birrai, nota in Boemia sin dal XVII secolo. Franz Anton Dreher nel diciottesimo secolo inaugurò la sua fabbrica di birra a Vienna che nel 1841 iniziò a produrre l’omonima birra (Vienna Lager) ambrata a  bassa fermentazione, uno stile che divenne molto popolare alla fine del diciannovesimo secolo. Nel 1870 nacque la fabbrica Dreher di Trieste, poi rilevata nel 1928 dai fratelli Luciani (Birra Pedavena) che, nel 1969, decidono di puntare su di un unico marchio a livello nazionale rinominando “Birra Pedavena” in “Dreher Spa”; nel 1974 Heineken e Whitbread acquistarono in joint venture il gruppo Dreher, e quattro anni dopo Heineken rilevò anche le azioni del partner anglosassone.  
Nello stesso periodo (1976-1980) si concluse una lunga vertenza che portò alla definitiva chiusura dello stabilimento Dreher di Trieste, mantenendo invece operativo quello di Massafra (Taranto) avviato negli anni ’60 dai fratelli Luciani. 
Anche la Dreher nazionale non si fa mancare il mais ed un po’ di “skunk”: tra accenni di cereali e mela verde io ci sento anche una punta di diacetile; l’intensità del gusto, pressoché nulla, ospita tracce dolciastre (mais, miele) e soprattutto quella mela verde che avevo incontrato nella sorella di famiglia Heineken. Non c’è sostanzialmente amaro, la birra termina di fatto spegnendosi nell’acquoso risultando alla fine la più “sfuggente” tra queste anonime lager acquose; riesce tuttavia a lasciare una patina dolciastra sul palato che ne riduce l’effetto rinfrescante. Fondamentale quindi “berla ghiacciata” per eliminare il problema alla base. 1,44 Euro al litro.

Ammetto di essere rimasto sorpreso nello scoprire solo al “terzo” posto dell’indice di gradimento la Forst Premium, sulla quale avrei invece scommesso senza esitare; non solo perché il birrificio altoatesino è l’unico italiano ed il “meno industriale” tra gli altri, ma perché le Forst bevute in fusto nei dintorni del birrificio non sono affatto male. Come non lo è la Sixtus in bottiglia, occasione in cui vi avevo raccontato di Forst; il birrificio nasce nel 1857 nella omonima località poco fuori Merano, fondata da Johann Wallnöfer e Franz Tappeiner, nello stesso sito produttivo che ancora oggi ospita gli impianti. 
Nel 1863 viene acquistata da Josef Fuchs, la cui famiglia e discendenti ne detengono ancora oggi la proprietà; nel 1892, sotto la guida di Hans Fuchs, la produzione era già passata dai 230 ettolitri degli inizi a 22.500 ettolitri. Ad Hans succede nel 1917 la moglie Fanny, che guida l'azienda sino al 1933, quando il testimone passa al figlio Luis. Alla sua scomparsa, nel 1989, la moglie Margarethe Fuchs von Mannstein assume la presidenza: gli ettolitri prodotti ogni anno sono circa 700.000.  Nel 1991 Forst acquista Menabrea. 
Perfettamente limpida e dorata, la Forst Premium (mais anche qui) s’accoda alle altre nel presentare qualche lieve puzzetta dovuta “all’effetto luce”;  al naso non c’è fragranza ma per lo meno s’avvertono pane e miele. L’intensità del gusto è forse appena un po’ superiore alle birre che l’hanno preceduta ma non c’è da rallegrarsi; lieve diacetile, dolcino di mais e miele, poca secchezza, palato che rimane appiccicoso e che non viene ripulito a dovere dalla chiusura amara, poco gradevole e reminiscente di gomma/plastica. Si beve ma onestamente m’aspettavo qualcosa di meglio. 1,59 Euro al litro.

Al secondo posto si piazza Angelo Poretti con la sua 4 Luppoli Originale Chiara; fondato nel 1877 da Angelo Poretti  a Induno Olona, il birrificio fu rilevato nel 1939 dalla famiglia Bassetti, già proprietaria del birrificio Spluga (Splügen) di Chiavenna; nel 1975 un primo accordo con i danesi della United Breweries (ovvero la Carlsberg odierna) per la commercializzazione sul nostro territorio dei marchi Tuborg e Carlsberg. Nel 1982 i danesi acquistano il primo 50% della società, arrivando progressivamente al 100% nel 2002. 
L’aroma è quasi nullo, eppur nel suo dolce leggermente mieloso scorgo una punta di diacetile; la gradazione alcolica (5.5%) più sostenuta rispetto alle altre le dona una maggior “presenza” al palato, dove troviamo miele e un vago accenno biscottato. Non c’è fragranza ed anche lei riduce il suo potere rinfrescante lasciando al palato una patina dolciastra; neppure lei si fa mancare quel lieve amaro erbaceo/gommoso che chiude la bevuta. Sostanzialmente simile alle altre concorrenti, guadagna qualche punto in più grazie alla sua “maggiore” ( virgolettato d’obbligo) intensità. La Poretti è anche la più cara tra le sei, con un costo di 2.61 Euro al litro.

La mia “preferenza” (altro obbligo di virgolette) tra queste sei birre industriali è andata alla Menabrea Original; l’azienda venne fondata nel 1846 dalla famiglia Welf  (Valle d'Aosta) e dei fratelli Caraccio, titolari di una caffetteria a Biella; nel 1864 il passaggio nelle mani di  Antonio Zimmermann e Giuseppe Menabrea, che nel 1872 rimase proprietario assieme ai figli Carlo e Alberto rinominandola  G. Menabrea & Figli. Alla fine del diciannovesimo secolo la gestione passò nelle mani dei cognati Emilio Thedy e Agostino Antoniotti, coniugi delle eredi Menabrea; la famiglia mantiene ancora oggi un importante ruolo aziendale con  Franco Thedy che ricopre la carica di amministratore delegato nonostante la maggioranza societaria sia dal 1991 nella mani della Forst, dove parte della produzione Menabrea è delocalizzata. 
Come Andrea Turco fa notare, Menabrea è il marchio industriale che riesce “a confondere” meglio i bevitori occasionali, che credono di bere birre artigianali o “crafty” che dir si voglia. 
Per far uscire un po' d'aroma bisogna attendere che la birra si scaldi parecchio: nella sua delicatezza le note di pane, cereali, mais e miele sono tutto sommato accettabili, benché prive di fragranza. Non c'è fortunatamente traccia di "skunk".  L'intensità del gusto non è molto differente (ovvero molto bassa) da quella delle sue concorrenti; la sensazione di bere un bicchiere d'acqua è sempre presente, accompagnata da una timida presenza di pane e cereali. La chiusura appena amara (erbacea) non fa fortunatamente danni, e il palato viene risparmiato da dolci patine appiccicose; ne risulta una birra che, benché quasi priva di gusto, fa il suo dovere, rinfrescando e dissetando chi decide di berla. E' sostanzialmente questo il motivo che le fa guadagnare qualche punto in più delle altri risultando la "meno peggio" tra quelle assaggiate. 1,97 Euro al litro.

Nel dettaglio:
Ichnusa, 66 cl., alc. 4.7%, lotto 601138OVY, scad. 01/04/2017, 1.34 Euro
Wührer, 66 cl., alc. 4,7%, lotto L6 036 2 22, scad. 01/02/2017, 0.75 Euro
Dreher, 66 cl., alc. 4,7%, lotto 5334 43890SN, scad. 01/02/2017, 0.95 Euro
Forst Premium, 66 cl., alc. 4.8%, lotto 08:22, scad. 15/02/2017, 1.05 Euro
Poretti 4 Luppoli Originale Chiara, 33 cl., alc. 5.5%, lotto J15099J, scad, 31/09/2016, 0.86 Euro
Menabrea Original, 66 cl., alc. 4.5%, lotto 17:55, scad. 07/12/2016, 1.30 Euro

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 29 agosto 2016

Duvel Tripel Hop 2016 (HBC-291)

Eccoci arrivati anche quest’anno all’appuntamento con la Duvel Tripel Hop,  “sorella" più luppolata della Duvel sceglie ogni anno un nuovo luppolo da affiancare al Saaz e allo Styrian Goldings utilizzati per la “normale”. Ricordo che la Tripel Hop nasce come "one-shot"  nel 2007 ospitando il luppolo Amarillo; il risultato piace a chi la beve ma alla Moortgat non intendono replicarlo; pare che ci siano volute una "campagna" su Facebook e 12.000 firme raccolte dagli appassionati belgi di “De Lambikstoempers" per convincere il birrificio a rimetterla in produzione. 
Nel 2012 la Tripel Hop ritorna utilizzando il Citra, come terzo (luppolo) "incomodo”; l’edizione 2013 chiama in causa il Sorachi Ace e quella 2014 l’americano Mosaic. Lo scorso anno è invece toccato all’Equinox
Per il 2016 il birraio Hedwig Neven sceglie il luppolo sperimentale chiamato con il codice HBC 291 e più di recente rinominato “Loral”; sviluppata dalla Hop Breeding Company (Yakima Valley) una decina di anni fa,  questa varietà è stata commercializzata ufficialmente su grande scala per la prima volta proprio quest’anno, e  la Duvel è uno dei primi birrifici ad utilizzarlo. Per i “test” in fase sperimentale erano invece stati coinvolti Lagunitas, Stone e Sierra Nevada, della quale vi avevo presentato un paio di anni fa la Sierra Nevada Harvest Single Hop IPA Yakima #291.  La Hop Breeding Company lo descrive come una sorta di ibrido che alle note speziate, floreali e terrose dei luppoli “nobili” europei abbina quelle fruttate dei luppoli americani. 
Per l’occasione la Duvel ha anche messo in vendita un “six pack” che comprende tutte le Tripel Hop realizzate sino ad ora, dando così l’opportunità di un (pericoloso, se pensate alla sua gradazione alcolica) assaggio “in orizzontale”.  Dopo averle bevute siete invitati a votare la vostra preferita, che Duvel promette di mettere in vendita nel corso del prossimo anno.

La birra.
Il suo colore è ovviamente il classico oro pallido velato, con una generosa testa di schiuma bianca e cremosa che tende a scomporsi abbastanza rapidamente pur mantenendo una buona persistenza nel bicchiere. Naso molto pulito ed elegante con profumi floreali (lavanda?) e fruttati: arancio e cedro, pesca gialla, albicocca, limone candito. A completamento ci sono delicate sfumature erbacee ed una leggera speziatura da luppolo nobile. DNA Duvel rispettato anche in bocca: corpo medio, vivaci bollicine, bevibilità “killer“  e alcool nascoso in modo diabolico o à la Duvel, se preferite. Pane, miele e canditi, albicocca e pesca costituiscono la spina dorsale della bevuta che relega gli agrumi in secondo piano; la secchezza è encomiabile ed il finale ospita un tocco amaricante tra l'erbaceo ed il terroso. Impressionante la velocità con la quale una birra da quasi "dieci gradi" può scomparire dal bicchiere; pulizia e precisione sono chirurgiche e paradossalmente questo pregio è anche il limite della Duvel, un po' avara di emozioni.
Detto questo, ripeto quanto detto per le versioni degli scorsi anni: birre nella grande distribuzione di questo livello e a questo prezzo (in Italia) sono una piccola manna dal cielo. 

Formato 33 cl., alc. 9,5%, lotto 41002 2201, scad. 08/2017, 2.69 Euro (supermercato, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 26 agosto 2016

Stone Americano Stout

Americano Stout, una delle novità 2016 in casa Stone ed anche uno degli ultimi lasciti del birraio Mitch Steele, che dopo 10 anni passati alla guida del birrificio di Escondido, California, ha deciso alla fine dello scorso giugno di andarsene e mettersi in proprio. Non si conosce ancora nulla sul nuovo progetto di Steele, mentre si sa che l'Americano Stout nasce come "costola" della Stone Espresso, variante della Stone Imperial Russian Stout realizzata nel 2013 per la serie "Odd Beers for Odd Years”.
Centotredici i chili di caffè forniti dalla Ryan Bros utilizzati per ogni lotto da 140 ettolitri di birra prodotto; Steele sceglie inoltre di utilizzare solamente malti  e luppoli americani: questi ultimi sono Amarillo, Cascade, Chinook e Columbus. L'Americano Stout viene commercializzata per la prima volta lo scorso febbraio e, in concomitanza col lancio europeo delle prime lattine Stone prodotte nei nuovi impianti di Berlino, qualche bottiglia è arrivata anche in Europa.

La birra.
Nera ed impenetrabile alla luce, forma una compatta e cremosa testa di schiuma nocciola che ha una buona persistenza nel bicchiere. Pensate se al bar ordinaste un "americano" e vi trovaste invece nella tazzina una birra: nessuna sorpresa che il caffè domini in lungo e in largo, sia nella forma liquida che in quella dei chicchi. Intenso, elegante e raffinato, accompagnato da orzo tostato, caramello bruciato, un accenno di cenere, di resina, forse di anice. 
La sensazione palatale non è particolarmente morbida o oleosa, con la scorrevolezza di questa robusta (8.7%) Imperial Stout che se ne avvantaggia; il corpo è medio. Caffè, tanto caffè anche al palato, in una perfetta corrispondenza con l'aroma: anche qui ci sono in sottofondo orzo tostato, liquirizia e caramello bruciato, il tutto supportato da un delicato ma percepibile calore etilico. Nessuna astringenza, acidità perfettamente sotto controllo e finale che ripulisce il palato grazie alla generosa luppolatura, il cui amaro resinoso è ben amalgamato con quello delle tostature. 
Birra monotematica ma pulita e ben fatta, molto intensa, che ha il pregio di non stancare mai il palato soddisfacendo le aspettative di chi vuole una birra al caffè: qui non si scherza, sappiatelo.
Formato: 35.5 cl., alc. 8.7%, IBU 65, lotto 01/02/2016, prezzo indicativo 6.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 25 agosto 2016

Petrus Aged Pale

A metà degli anni ’90  Michael Jackson  (per i meno esperti, non è il cantante) visita il birrificio Brouwerij Bavik, dal 1894 nelle mani della famiglia De Brabandere, per assaggiare le birre e prendere preziosi appunti; con grossa sorpresa di Ignace De Brabandere chiede di assaggiare la birra base che viene poi utilizzata per realizzare la Oud Bruin. La sua particolarità è di essere una birra dorata, mentre tutti gli altri produttori di Oud Bruin sono soliti mettere ad invecchiare nei foeders una birra ambrata o “marrone”.  
Jackson s’innamora di quella birra e nelle sue successive visite al birrificio chiede sempre di poterla assaggiare: Ignace è riluttante, ma cede al carisma del beer-hunter inglese e concede gli assaggi, rifiutando però di venderla a Jackson che voleva offrirla ai membri inglesi e americani del suo “beer club”; per lui era una birra troppo acida che nessuno avrebbe apprezzato. Ma Jackson insiste ripetutamente e De Brabandere, ormai sfinito, spara alto per dissuaderlo definitivamente dall’idea: “te la vendo solo se ne compri un lotto unico di 75 ettolitri”; pessima idea, perché Jackson ha già in mano il telefono e chiede “ok, dove devo firmare”?  La seconda condizione posta da Ignace per la vendita era che Jackson avrebbe dovuto darle un nome:  “è invecchiata e chiara – disse il beer hunter – chiamiamola semplicemente per quello che è”. 
La Aged Pale arriva quindi nelle mani dei membri americani ed inglesi  del “The Rare Beer Club”  e le analoghe associazioni belghe, come la Objectieve Bierproevers, iniziano a dare segni di gelosia perché nella madre patria la birra non si  riesce a trovare. Solamente a partire dal 2001 la Aged Pale fa la sua apparizione all’interno della gamma Petrus ed è disponibile anche per il mercato domestico. 
La crescente domanda per le birre acide, soprattutto quella degli Stati Uniti, convince la famiglia De Brabandere ad rammodernare nel 2014 gli impianti produttivi (200 hl) e ad acquistare sei nuovi foeders realizzati dai francesi della Foudrerie Francois di Brive-la-Gallairde; al momento il birrificio ne possiede circa 27, da 220 ettolitri cadauno. Nello stesso anno la Brouwerij Bavik viene rinominata e riacquista il nome di famiglia tornando a chiamarsi Brouwerij De Brabandere 
La Petrus Aged Pale continua ad essere utilizzata come “birra base” per produrre la Petrus Aged Red (15% di Aged Pale e 85% di Petrus Dubbel Bruin), la Petrus Oud Bruin (33% Aged Pale e 67% di birra fresca) e la 50/50 (blend di Aged Pale and Aged Red) disponibile solo in un 6 pack che contienea nche   tre bottiglie di Aged Pale, 1 di Aged Red e 1 Oud Bruin invitandovi a creare il vostro proprio blend, oltre ovviamente ad assaggiare la 50/50.

La birra.
Invecchiata “per almeno 20 mesi” nei foeders di legno, la Petrus Aged Pale si presenta di color oro antico quasi limpido e genera una bella testa di schiuma bianca, cremosa e compatta, dall’ottima persistenza.  Il naso è molto pulito, con il benvenuto che arriva dalle note lattiche e, in tono più discreto, da quelle acetiche; ci sono legno e vino, mentre ai fiori, alla mela verde ed al limone il compito di regalare freschezza ad un'aroma elegante e di buona intensità.  In sottofondo anche una suggestione di pepe fa ogni tanto capolino. Al palato si rivela acida ma non impervia anche per palati meno avvezzi a questa tipologia di birre: c'è una buona corrispondenza con l'aroma, con le note vinose accompagnate dal legno e dall'acido lattico, dall'asprezza dell'uva spina, della mela verde e del limone. Alla dolcezza zuccherina il compito di smussarne gli spigoli lasciandone intatto il potere dissetante e rinfrescante; la chiusura è secca, il finale è vinoso con un lieve tepore etilico ed una punta d'amaro lattico. La componente acetica è ben rilegata in sottofondo risultando tutto sommato ben addomesticata anche se forse alza la testa più del dovuto in alcuni brevi passaggi.
Birra che fresca ben si presta ad ammazzare la sete, mentre riscaldandosi rivela una buona struttura derivante dalla sua gradazione alcolica (7.3%) che la rende interessante anche per abbinamenti gastronomici: bevuta molto pulita, forse a tratti un po' patinata se proprio le si vuol fare un appunto,  e con un rapporto qualità prezzo quasi imbattibile.
Formato: 33 cl., alc. 7.3%, lotto 1435A077, scad. 14/03/2017, prezzo 1,80 Euro

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 24 agosto 2016

High Water Campfire Stout

Avevamo già parlato di High Water Brewing quattro anni fa, in occasione della No Boundary IPA. Progetto lanciato a marzo 2011 da Steve Altimari e John Anthony assieme ai soci Lane Anthony, Kevin Sweeney e Davin Abrahamian.  Dei due il birraio è Altimari, che dopo 12 anni passati nella Silicon Valley a lavorare nel campo dell’High Tech aveva deciso di cambiare vita  frequentando un corso per diventare mastro birraio, finendo poi per essere assunto nel 1995 alla Valley Brewing Company, dove riuscì anche a vincere diverse medaglie in alcune edizioni del Great American Beer Festival. Lasciata la Valley, Altimari crea High Water (il nome scelto viene proprio dall’italiano “acqua alta”) appoggiandosi per la produzione ad impianti di birrifici  tra  i quali figurano Hermitage, Drakes, Uncommon e Devil’s Canyon; il debutto avviene con  Retribution Imperial IPA ed Hop Riot IPA, seguite da altre produzioni che formano lentamente un portfolio di una cinquantina di referenze distribuite soprattutto in California, Nevada, Washington, Alaska, Vermont, Florida ed in Europa.

La birra.
Campfire Stout, una birra o meglio un “ricordo in forma liquida” di serate passate davanti al falò di un campeggio: si tratta di una stout prodotta con utilizzo di melassa e graham crackers che è col tempo diventata la High Water più venduta  e che si basa su di una ricetta realizzata da Altimari assieme alla moglie Barri, una ex-psicologa che oltre a lavorare per High Water sviluppa ricette gastronomiche per aziende alimentari;  nel 2014 ha ottenuto al Great American Beer Festival la medaglia d’oro nella categoria “specialty”. 
Nera, forma una golosa testa di schiuma cremosa color cappuccino che tuttavia collassa abbastanza rapidamente; l’aroma disegna subito una birra-dessert ricca di cioccolato al latte, marshmallow, gianduia, caramello e melassa, biscotto (o quel graham cracker che dir si voglia), nocciola e vaniglia. Molto bene intensità e pulizia, peccato per qualche lieve scivolone, comunque perdonabile,  nell'artificialità di alcuni profumi. La sensazione palatale predilige la scorrevolezza e la facilità di bevuta senza indulgere in cremosità o mouthfeel particolarmente "lussureggianti": il corpo è medio e le bollicine, sebbene sottili, sono leggermente in eccesso. Al palato  c'è un po' meno pulizia: il dolce del caramello, del cioccolato al latte e della vaniglia viene in parte bilanciato dall'orzo tostato, con il risultato di una birra che rimane comunque abbastanza dolce senza mai essere stucchevole. Nel finale le tostature sono affiancate dall'amaro dei luppoli, con il palato che viene ripulito e quasi rinfrescato da lieve accenni di anice e di menta. C'è complessivamente una bella intensità in una stout-dessert dalla gradazione alcolica tutto sommato contenuta e priva di eccessi: per il mio gusto personale le manca un pochino d'amaro, il gusto è un po' meno convincente rispetto all'aroma ma se amate le birre-dessert questa Campfire Stout è senz'altro da mettere sulla vostra wishlist. 
Formato: 65 cl., alc. 6.5%. IBU 39, lotto 05/05/2015, scad. non riportata, 11.00 Euro (beershop, Italia)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 23 agosto 2016

Birra in Portogallo, parte terza: Passarola Brewing e Oitava Colina

Terzo e ultimo resoconto sulla birra “artigianale” portoghese, dopo i due episodi dei giorni scorsi. Partiamo da Passarola Brewing, beerfirm di Lisbona nata nell’autunno del 2014; la fondano l’homebrewer australiano residente nella capitale portoghese Robert Klacek e André  Pintado, anch’egli alle prese con la birra fatta in casa. Pintado, ingegnere informatico, ha anche ricevuto le attenzioni (sic!) della stampa portoghese in quanto Top Ratebeer Rater nazionale con oltre 2000 recensioni. Il nome scelto dalla beerfirm si riferisce all’omonima “gondola volante” inventata da Bartolemeu de Gusmão  nel diciottesimo secolo (1709); sebbene non siano mai state trovate prove concrete dalla costruzioni di questo pallone aerostatico, i disegni ed i prototipi realizzati da Gusmão  furono utilizzati per cercare di screditare quei fratelli Montgolfier che costruirono poi davvero la prima mongolfiera nel 1783.  

Quattro sono le Passarola che sono riuscito ad assaggiare, con una visione d’insieme del birrificio molto più completa rispetto a quelli che vi ho descritto nelle precedenti puntate di questo viaggio in Portogallo. Partiamo da due American IPA, senza dubbio le loro due produzioni più convincenti; Blind Date IPA, secondo Ratebeer nella top ten delle miglior birre prodotte in Portogallo, viene realizzata presso gli impianti della Post Scriptum Brewery di Trofa, ben 340 chilometri a nord di Lisbona. Malti Monaco e Pale, luppoli non dichiarati e birra che si presenta di color ambrato con una cremosa schiuma biancastra. Bottiglia purtroppo non molto fresca (scadenza ad ottobre 2016) e aroma che, benché pulito,  non regala molto all’infuori dei profumi un po’ stanchi di resina e caramello. Corpo medio e poche bollicine al palato ed un gusto che guarda alle IPA della East Coast, col biscotto e il caramello dei malti a supportare la generosa luppolatura resinosa; la parte fruttata (agrumi) è quella che ha sofferto di più il trascorre del tempo, presentandosi in forma di marmellata anziché nella fragranza del frutto fresco. La birra è comunque pulita e priva di difetti, abbinando ad una buona intensità anche un’ottima facilità di bevuta; peccato non averla trovata più giovane.

Freschezza che invece valorizza in pieno una delle ultime nate in casa Passarola: si tratta della IPA Chindogu, nata lo scorso maggio e raffigurante in etichetta proprio la “gondola volante” di Bartolemeu de Gusmão. Il nome Chingodu rimanda invece "all’arte dell'inventare oggetti utili ma completamente inutilizzabili dal punto di vista pratico"  del giapponese Kenji Kawakami. Nata da poco ma già nella “ratebeeriana top 20”,  prodotta vicino casa, ovvero presso il birrificio di Lisbona Oitava Colina, ha un colore che si colloca tra il dorato e l’arancio sormontato da una bianca schiuma cremosa e molto persistente.  Naso fresco e pulito con pompelmo e aghi di pino sugli scudi, accompagnati da accenni alla frutta tropicale. Mouthfeel gradevole, ottima scorrevolezza e gusto che ripropone gli elementi dell’aroma: contrariamente alla Blind Date, qui la luppolatura è sostenuta dal pane e dal dolce del miele dei malti, con un risultato che rientra subito nelle mie grazie. Ci sono anche  pompelmo e  frutta tropicale a dare forma ad un’interpretazione pulita e dignitosa di una IPA West Coast, caratterizzata da un finale abbastanza secco ed un bel retrgogusto amaro, resinoso, vegetale, pungente.  Sicuramente una delle migliori birre bevute in Portogallo. 

Comincia altrettanto bene la robusta (7%) American Stout chiamata Hadron Hædrɒn / Hadron Collision, con una bella livrea nera e una golosa testa di cremosa schiuma nocciola; l’aroma è molto semplice ma pulitissimo e molto elegante nei profumi di orzo tostato e di caffè in chicchi. La sensazione palatale privilegia la scorrevolezza sacrificando un po’ la morbidezza, nonostante la carbonazione sia bassa: una maggiore oleosità le avrebbe forse giovato. Il gusto convince meno dell’aroma, soprattutto per quel che riguarda eleganza e pulizia. C’è una base caramellata a sostegno delle intense tostature e dell’amaro del caffè accompagnate da note di liquirizia; purtroppo una leggera astringenza e qualche accenno di salamoia disturbano un po’ la bevuta che chiude sull’amaro delle tostature e dell’abbondante luppolatura (terra, resina) sostenute da un morbido alcool warming. Peccato per alcuni difetti che vanno un po’ a penalizzare quella che sarebbe altrimenti una buona American Stout. 

Ma il vero banco di prova di un birrificio è il Belgio ed è qui che Passarola fa purtroppo un brutto scivolone. Prodotta alla Cerveja Bolina, 50 chilometri a nord-est di Lisbona, la Saison della “Pique-nique Series” altro non è che la versione estiva in bottiglia da 75 centilitri della Saison Piquenique, disponibile tutto l'anno in formato 33. L’estate e la voglia di condividere all’aperto una birra con gli amici fanno nascere questo formato più generoso con etichetta che ricorda la classica tovaglia da pic-nic. Nell'inappropriato bicchiere che avevo a disposizione  è di colore arancio velato ed una bianchissima testa di schiuma bianca. Il naso non offre purtroppo molto, con gli esteri fruttati (arancia) e le note della crosta di pane sporcate dalla plastica dei fenoli; l’intensità è comunque molto dimessa per un aroma per nulla invitante.  Il mouthfeel è quello (giusto) di una Saison vivace e piuttosto carbonata che scorre con grande facilità, ma il gusto si rivela tanto poco pulito quanto l’aroma. Crackers e cereali fanno fatica ad emergere, il dolce della polpa d’arancia è completamente eclissato da un finale sgraziato nel quale l’amaro terroso viene accompagnato dalla gomma bruciata; avverto anche una curiosa nota salina che ogni tanto fa capolino. Davvero difficile proseguire nella bevuta. 
Scivolone Saison a parte, Passarola propone birre di buon livello ed è senz’altro uno dei nomi che vi consiglierei di cercare se avete voglia di bere birra in Portogallo. 

Concludiamo in crescendo proprio con Oitava Colina, microbirrificio di Lisbona attivo solo dal 2015; si trova nel Bairro da Graça, non lontano dal Castello di São Jorge e dalla chiesa di São Vicente de Fora. Il microbirrificio non è però visitabile, se non privo appuntamento o nelle giornate di "porte aperte" che vengono organizzate di tanto in tanto. Lo fondano João Lobo e João Mendes, scegliendo un nome che fa riferimento all'ottava collina sconosciuta di Lisbona; la capitale portoghese, per creare un parallelismo con la grande Roma, fu infatti definita  nel diciassettesimo secolo da frate Nicolau de Oliveira "la città dei sette colli"  ignorando la collina "da Graça"che viene oscurata alla vista dal vicino Castello di San Giorgio.

Due le bottiglie che sono riuscito ad assaggiare, a partire dalla Zé Arnaldo, una Robust Porter che si presenta di color mogano scuro con riflessi rossastri ed una bella testa di schiuma nocciola, fine, cremosa e molto persistente. Al naso c'è pulizia ed una discreta eleganza fatta da cioccolato amaro, caffè, orzo e pane tostato. Corpo medio e poche bollicine al palato, con un mouthfeel che vuole prediligere la scorrevolezza; al palato c'è una buona intensità che in sostanza ripropone gli stessi elementi dell'aroma, ovvero caffè ed intense tostature bilanciate dal dolce della liquirizia, del caramello bruciato e dall'acidità dei malti scuri. Chiude ricca di caffè e torrefatto, con un lungo retrogusto amaro ed una carezza etilica; una porter abbastanza pulita e priva di difetti, che si lascia bere con piacere e senza nessuno sforzo.

Tutte le Oitava Colina raffigurano in etichetta un personaggio; se la Zé Arnaldo era "dedicata" ad Arnoldo di Soissons, uno dei tanti patroni dei birrai, la IPA della casa Urraca Vendaval chiama in causa Urraca di Castiglia, regina dal 1107 al 1112 di quella Galizia che a quel tempo incorporava anche la contea del Portogallo. Ratebeer la elegge come sesta miglior birra portoghese. 
Il suo colore è tra il dorato ed il ramato con un buon cappello di schiuma biancastra, abbastanza compatta e cremosa, molto persistente. L'aroma, pulito ma soprattutto ancora fresco, disegna un elegante bouquet che include pompelmo, aghi di pino e frutta tropicale (mango, melone, passion fruit). Al palato la base maltata propone biscotto e caramello che supportano la generosa luppolatura in maniera intelligente, ovvero facendosi sentire il meno possibile. Anche la frutta tropicale predilige l'eleganza alla sfacciataggine, andando a formare una birra ben costruita e molto bilanciata che chiude abbastanza secca ed amara con un bel finale nel quale al pungente amaro della resina s'affiancano alcune note di pompelmo. La facilità di bevuta è ottima, con la  freschezza che valorizza il buon livello di pulizia di questa IPA, risultata alla fine come la miglior bevuta in terra lusitana. 

Nel dettaglio: 
Passarola Blind Date IPA, 33 cl., alc. 6.5%, lotto 100238432, scad. 01/10/2016, 3.10 Euro.
Passarola Chindogu IPA, 33 cl., alc. 6.5%, lotto L0052, scad. 01/03/2017, 3.10 Euro.
Passarola Hadron Collision, 33 cl., alc. 7%, lotto L0050, scad. 01/01/2017, 2.99 Euro.
Passarola Pique-nique Series: Saison, 75 cl., lotto L162SP, scad. 01/01/2017, 7.99 Euro
Oitava Colina Zé Arnaldo, 33 cl., alc. 7%, lotto LO10066, scad. 01/06/2017, 3.68 Euro
Oitava Colina Urraca Vendaval, 33 cl., alc. 6%, lotto L030065, scad. 02/01/2017, 3.30 Euro

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 22 agosto 2016

Ritual LAB Super Lemon Ale

Nuovo appuntamento con quello che definire semplicemente birrificio appare riduttivo:  Ritual Lab nasce infatti nel 2014 prima di tutto come centro didattico di formazione per chi si vuole avvicinare alla produzione della birra. I corsi, che si svolgono sia a livello amatoriale che professionale, sono tenuti da Emilio Maddalozzo (birraio con 30 anni di esperienza tra Pedavena e accademia Doemens di Monaco di Baviera); oltre alla parte teorica vi è anche le possibilità di effettuare una cotta su di un impianto di produzione professionale seguendo l'intero processo, dalla macinatura del malto sino all’imbottigliamento. Ma Ritual Lab vuole anche essere sperimentazione, ovvero ricerca "di differenti metodi di produzione, maturazione e gestione" della birra nonché la coltivazione in proprio di luppolo. Nato nel 2013 a Formello (Roma), dal 2014 Ritual Lab ha iniziato a commercializzare le proprie birre dapprima come beerfirm e, dal 2015, con il proprio impianto da 12hl gestito da birraio Giovanni Faenza: American Pale Ale, Pils, Bock e Stout sono state le birre di partenza alle quali si è poi affiancata di recente una Double IPA. Impossibile infine non citare le splendide e metafisiche etichette realizzate dall'artista e tatuatore romano Robert Figlia.

La birra.
Super Lemon Ale è un’American Pale Ale caratterizzata dall’abbondante impiego di luppolo Citra; non so se si tratti di una single hop, in ogni caso il birrificio si cautela in etichetta assicurando con ironia che non sono stati utilizzati limoni. 
Il suo colore velato si colloca tra il dorato e l’arancio, con una testa di schiuma appena biancastra, compatta e cremosa, dall’ottima persistenza.  L’aroma tiene fede al nome ospitando quasi per intero l’intera famiglia degli agrumi: si va dal pompelmo al cedro, dall’arancio al limone; in sottofondo melone e passion fruit portano qualche suggestione tropicale, per un naso complessivamente pulito ed elegante che mantiene ancora una discreta fragranza, nonostante siano probabilmente passati sei mesi dall’imbottigliamento. Gradevole e morbida al palato, con poche bollicine, Super Lemon Ale scorre con ottima facilità proponendo uno scenario leggermente diverso da quello aromatico: crackers, cereali e crosta di pane sono a sostegno di un gusto che privilegia la frutta tropicale, mentre agli agrumi e alla loro scorza il compito di schiudere la bevuta, donando secchezza, amaro e freschezza, accompagnati da qualche note erbacea. Il livello d’amaro è quello delicato che caratterizza il luppolo Citra e la birra nel complesso risulta bilanciata, ben profumata e con un’ottima intensità, anche se volendo essere pignoli al palato mi è sembrata un po’ meno pulita e fragrante che al naso. 
La bevuta è sin troppo facile, ma questa è una caratteristica che un’American Pale Ale dovrebbe sempre avere: da Ritual Lab un'altra birra di livello molto buono dopo la Double IPA Tupamaros. Birrificio giovane ma piuttosto promettente, tenetelo d’occhio.
Formato: 33 cl., alc. 5.3%, IBU 43, lotto 8, scad. 02/2017,  prezzo indicativo 4.50/5.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 21 agosto 2016

Buddelship Doktor Schnabel

Ritorna sul blog il microbirrificio di Amburgo Buddelship, che vi avevo presentato in questa occasione; operativo dal 2014 e fondato da Simon Siemsglüß, alla fine dello scorso luglio il birrificio ha anche inaugurato la propria Taproom.
La Craft Bier Revolution tedesca ha visto negli ultimi anni la nascita di molti microbirrifici/beerfirm che tuttavia non sono ancora riusciti ad entusiasmarmi (per dirla in maniera gentile), soprattutto quando si sono cimentati con stili lontani dalla propria tradizione. Buddeslhip è uno di quelli che mi hanno maggiormente impressionato, a partire dall'ottima Baltic Porter Gotland 1394.
Le birre "scure" riescono evidentemente bene a Simon Siemsglüß perché altrettanto positiva si è rivelata la bevuta dell'Imperial Stout chiamata Doktor Schnabel.  Il riferimento, come mostra la splendida etichetta realizzata dall'artista Teichbot, è il medico della peste, che un tempo visitava i malati vestito da una lunga tonaca nera, un cappello a tesa larga ed una curiosa maschera a forma di becco nel quale erano contenute paglia, erbe ed essenze aromatiche (fiori secchi, lavanda, timo, mirra, ambra, foglie di menta, canfora, chiodi di garofano, aglio e, quasi sempre, spugne imbevute di aceto) che agiva da filtro tenendo lontano i cattivi odori, che un tempo si credevano essere i fattori scatenanti delle epidemie; il dottore era anche dotato di un bastone che utilizzava per visitare i pazienti senza toccarli.

La birra.
Non vi è nessuna spezia in questa Imperial Stout rispettosa del Reinheitsgebot che si presenta nel bicchiere prossima al nero, con una testa abbastanza  compatta di schiuma nocciola, cremosa e dall'ottima persistenza.
Al naso c'è pulizia ed una relativa semplicità fatta di caffè macinato, orzo e pane tostato; in sottofondo liquirizia, caramello, cenere. Nonostante la buona gradazione alcolica (8%) il mouthfeel non è particolarmente oleoso o viscoso, restando fedele alla tradizione tedesca che vuole sempre privilegiare la scorrevolezza; il corpo è medio. Ottima l'intensità del gusto che mette in evidenza eleganti tostature, liquirizia e caffè, cioccolato, pane nero e caramello, un accenno di fruit cake: l'alcool scalda quanto basta in un equilibrio molto ben riuscito che coniuga perfettamente la facilità di bevuta con l'intensità, il dolce con l'amaro. La chiusura è una lunga strada fatta di caffè macinato e tostature, impreziosite da note di cenere, terrose e da un morbidissimo tepore etilico.
Imperial Stout piuttosto ben fatta con un buon livello di pulizia e soprattutto carattere, quello che spesso manca nelle interpretazioni tedesche degli stili lontani dalla loro tradizione. 
Formato: 50 cl., alc. 8%, scad. 08/01/2018, 5.58 Euro (beershop, Germania)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 19 agosto 2016

Birra in Portogallo, parte seconda: LX Brewery Toranja Belgian India Session Ale, Maldita English BarleyWine, Musa Born In The IPA, OPO 74 Gyroscope, Mean Sardine Voragem

Secondo episodio del breve viaggio nella birra portoghese iniziato ieri l’altro; cinque protagonisti che presento in rigoroso indice di gradimento rimbalzando più volte tra  Lisbona e Porto/Oporto. 
Partiamo dalla  (Sant'Ana) LX Brewery, microbirrificio aperto nel 2014 dall’homebrewer Gonçalo, aiutato dal padre e da alcuni amici, su una delle sette colline di Lisbona che porta il suo stesso cognome, ovvero San’t Ana.  Oltre una ventina le birre prodotte in quasi due anni d’attività in una gamma che oltre agli Stati Uniti tocca anche la tradizione tedesca e quella belga, ed è proprio con questa che ho voluto testare il birrificio. La Toranja Belgian India Session Ale è una delle ultime nate in casa XL e, come il nome stesso indica, si stratta di una Belgian IPA prodotta con utilizzo di pompelmo (toranja). L’etichetta promette che “questa birra sarà uno dei migliori momenti della vostra giornata” ma la verità è che si è rivelato in assoluto quello peggiore. Birra disastrosamente infetta, assolutamente imbevibile: giusto un paio di sorsi per annotare il festival del lattico, del cerotto, della plastica e del medicinale con una lieve presenza d’arancio in sottofondo. Lotto sfortunato, ma tale zozzeria mi ha tenuto alla larga dal provare qualsiasi altra etichetta di questo birrificio.

Spostiamoci ora molto più a nord, ad Aveiro, cittadina a 70 chilometri a sud di Porto che viene molto generosamente definita “la Venezia del Portogallo” solo perché attraversata da qualche canale nel quale sostano affusolate barche colorate un tempo utilizzate per la raccolta delle alghe e del sargasso. Qui nel 2013 Arthur Faustino, ingegnere chimico ed homebrewer,  ha aperto assieme al padre Gonçalo e alla Univeristà di Aveiro la Faustino Microcervejeira. Le birre vengono commercializzate a marchio Maldita, con una Robust Porter, una Bohemian Pilsner ed un English Barley Wine a comporre l’ossatura della produzione regolare alla quale s’affiancano IPA, APA, Imperial Stout e un Wheat Wine.  Il birrificio ha vissuto il suo momento di gloria nel 2014 quando ai World Beer Awards il suo Barley Wine è stato premiato come il miglior rappresentante europeo della categoria.  Si presenta di color ambrato e al naso regala profumi di frutta secca (mandorle, noci) e di caramello; man mano che la birra si scalda diventano troppo dominanti gli esteri fruttati (mela e pera) che assieme ad una fastidiosa nota di cereali/muesli tendono a sporcare l’aroma.  Elementi che ritornano purtroppo anche al palato andando a costituire un barley wine alla “mela e pera”, su una base di caramello, che chiude lievemente amaro e astringente; l’alcool (9%) è ben dosato ma non riesce mai davvero ad accompagnare la bevuta per mano, potenziandola quando necessario, e viaggia quasi su un binario separato. Birra bevibile, discretamente pulita ma insopportabilmente “infestata” da mela e pera: peccato.

Ritorniamo a Lisbona per dare il benvenuto alla Cerveja Independente Musa, una delle ultime realtà sorte (maggio 2016) nella capitale portoghese: sono Nuno Melo e Bruno Carilho i fondatori, economisti e consulenti presso la McKinsey.  Di ritorno dagli Stati Uniti i due vogliono fare impresa assieme e all’idea iniziale di Nuno  (esportare borse in pelle portoghesi) si sostituisce quella di Bruno,  reduce da un anno in California a contatto con la “craft beer revolution”. A lui prima di tutto il compito di allontanare l’amico Nuno dalla Superbock con un viaggio in USA e in Spagna a visitare birrifici artigianali: il business plan è pronto, manca solo un birraio che possa aiutarli a partire; dopo una serie di interviste via Skype viene reclutato l’americano Nick Rosich, già birraio presso la Penn Brewery di Pittsburgh.  Musa è attualmente una beerfirm che produce presso Oitava Colina e che dovrebbe aprire a breve il proprio stabilimento nella zona di Marvila. Tre le birre disponibili (Born In The IPA, Red Zeppelin Ale e Mick lager) che si decide di legare al mondo musicale, all’insegna di un marketing che vuole già portare la “democrazia della birra artigianale in Portogallo”: birra per il popolo, birra per tutti e non solo per un gruppo elitario di persone. Qualcosa che dalle nostri parti è già stato detto, non è vero? 
Born in the IPA, birra di “springsteeniana” ispirazione, vede l’utilizzo di Citra, Mosaic e Columbus:  ramata e quasi limpida, forma una bella e cremosa testa di schiuma bianca, dall’ottima prsistenza. La bottiglia non dovrebbe avere più di tre mesi sulle spalle ma l’aroma è tutt’altro che un elogio della freschezza e dell’intensità; resina, marmellata d’agrumi, qualche nota di cipolla e di caramello. Un po’ meglio al palato, dove l’IPA di evidente ispirazione East Coast non indugia troppo sul fruttato per sviluppare il suo percorso sull’asse caramello-biscottato-resinoso; c’è un po’ di marmellata d’agrumi ad accompagnare, non ci sono evidenti difetti ed il livello di pulizia è abbastanza buono. Chiude discretamente secca, con un amaro resinoso/vegetale abbastanza pungente che però a tratti scivola un po’ nel saponoso. Bottiglia che forse ha preso un po’ di caldo e che ne ha risentito: risultato godibile e sufficiente ma un po’ monotono e noioso. Le basi sembrano comunque esserci, sarebbe da riprovare in condizioni ottimali. 

Da Lisbona rimbalziamo a Porto dove ha sede  OPO 74, beerfirm fondata nel 2015 da tre soci (João Rilo, Pedro Simões e Nuno Branco) che hanno conosciuto la “buona” birra durante viaggi all’estero; con il supporto del birraio americano Bob Maltman lanciano due birre (Gyroscope IPA e Red Mosquito) che non sono riuscito a capire dove vengano prodotte.  A queste si sono aggiunte successivamente la lager Common People, il barley wine Bellevue e la sour ale Echoes: trovate anche qui riferimenti musicali? 
Ecco la Gyroscope, una West Coast Ipa prodotta sulla West Coast europea: il conto torna ed il colore (oro/arancio) è quello giusto. Bottiglia prossima alla scadenza (novembre 2016) che purtroppo non valorizza una birra che andrebbe invece bevuta freschissima: naso floreale con profumi un po’ stanchi di marmellata d’agrumi, miele e di aghi di pino. C’è pulizia ma la fragranza è svanita. Al palato c’è forse qualche bollicina di troppo mentre il gusto parte dal dolce di caramello, miele e marmellata d’agrumi poi bilanciati dall’amaro vegetale e resinoso; la pulizia c’è, l’alcool (7%) è ben nascosto e non ci sono difetti anche se la secchezza potrebbe essere maggiore. Peccato non aver trovato un bottiglia più giovane, ma tutte quelle che ho incontrato in luoghi diversi avevano la stessa scadenza; difficile avere un’impressione corretta di una IPA non fresca, ma da quanto riesco ad intuire in base a quello che c’è nel bicchiere la beerfirm sembra lavorare abbastanza bene. Fiducia per la birra, meno per la non trasparenza sul luogo di produzione. 

Chiudiamo la carrellata odierna ritornando a sud e precisamente a Mafra (40 km da Lisbona) dove dal 2013 è operativa la Mean Sardine Brewery fondata da Rolim Carmo assieme a Jorge Borges e André Fernandes. Poche informazioni in internet, eccetto le pagine Facebook e Tumbler, per un birrificio che dice di essere ispirato dal vicino oceano Atlantico e dalle onde che cavalcano i surfisti ad Ericeira. Anche se in giro ho sempre e solo visto solamente tre birre (la black IPA Voragem, l’APA Amura e la Dubbel Zagaia) il birrificio della “sardina cattiva” ne produce una dozzina, incluse collaborazioni con De Molen e To Øl. Secondo il popolo di Ratebeer la Black IPA Voragem è attualmente la miglior birra portoghese: sarà vero? 
Difficile dirlo con questa bottiglia nata lo scorso gennaio e con quindi già otto mesi di vita sulle spalle; marrone scurissimo, schiuma nocciola abbastanza fine e cremosa, naso semplice e pulito caratterizzato da profumi di aghi di pino e terrosi con qualche accenno fruttato di pompelmo.  Il mouthfeel è ottimo, morbido e scorrevole, mentre il gusto si rivela tanto essenziale quanto l'aroma: il dolce è quello del caramello e della marmellata d'arancia, subito incalzato dall'amaro terroso e resinoso che guida la bevuta dall'inizio alla fine. Non ci sono orpelli ma quei pochi elementi in gioco sono disposti con criterio e rispettosi di questo "stile-ossimoro" senza sconfinamenti nel torrefatto o nel caffè. Alcol (7%) ben nascosto, lungo retrogusto resinoso quasi balsamico e bevuta che ha perso per strada molta freschezza ma che risulta nel complesso pulita, sincera e piuttosto godibile. 

Nel dettaglio:
LX Brewery Toranja Belgian India Session Ale, 33 cl., alc. 4.8%, IBU 28, lotto 16364, scad. 10/2016, 2.39 Euro
Maldita English BarleyWine, 33 cl., alc. 9%, lotto 13166 ?, scad. 06/2017, 4.00 Euro
Musa Born In The IPA, 33 cl., alc. 6.5%, IBU 70, lotto 00062, scad. 01/2017, 3.00 Euro.
OPO 74 Gyroscope, 33 cl., alc. 7%. lotto 003, scad. 11/2016, 3.40 Euro.
Mean Sardine Voragem, 33 cl., alc- 7%, lotto 06/01/2016, scad. 02/2017, 2.79 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 18 agosto 2016

De Leite Cuvée Jeune Homme

Ritorna sul blog la Brouwerij De Leite guidata da Luc Vermeersch in quel di Ruddervoorde, una ventina di chilometri a sud di Brugge. Luc è passato dall'homebrewing al mondo dei professionisti installando il birrificio in una una parte dello stabile occupato dalla propria ditta, la  Helbig, che produce sistemi modulari  e scaffalature per negozi; all’inizio dell’avventura lo hanno accompagnato Etienne Van Poucke e Paul Vanneste, entrambi conosciuti ad un corso di specializzazione sulla produzione della birra organizzato dal birrificio Alvinne. L’impianto degli esordi da 8,5 ettolitri è stato da qualche tempo sostituito da uno più capiente da 60 ettolitri. 
Dopo la di Cuvée Mam'zelle  bevuta qualche tempo fa, ecco un'altra sour ale barricata in per quattro mesi in botti ex-vino provenienti  (presumibilmente) dalla regione francese del Médoc; ma se la Cuvée Mam'zelle  altro non era che la versione barricata della Enfant Terriple,  per realizzare la Cuvée Jeune Homme Luc Vermeersch parte da una birra completamente nuova e piuttosto luppolata. Doverosa citazione anche per la curiosa etichetta realizzata da Rik Vermeersch.
Nel bicchiere arriva di color oro antico velato, con riflessi ramati e un grossolano cappello di schiuma biancastra, pannosa e dalla lunga persistenza. Il passaggio in botte è evidente sin dall’aroma con una netta presenza di legno e vino bianco, affiancata da note floreali, lattiche e  di marmellata d’agrumi, frutta candita; in sottofondo una punta acetica per nulla fastidiosa e un tocco dolce a metà strada tra la vaniglia e lo zucchero a velo.  
La sensazione palatale è sorprendentemente oleosa, soprattutto perché siamo in Belgio: la scorrevolezza non è al massimo ma ne guadagna la morbidezza, nonostante una carbonazione abbastanza vivace. Il gusto vira subito nel territorio dell’aspro (uva acerba, mela verde, limone) e del lattico, per una bevuta comunque rinfrescante che risulta tuttavia molto segnata dal passaggio in botte; in sottofondo miele e marmellata d’agrumi cercano d’addomesticare un po’ l’acido ed il legno. Annoto anche dettagli “funky” (cuoio) e un lieve punta acetica che si manifesta proprio prima della chiusura secca, amara di lattico e di scorza d’agrumi.
Devo in sostanza ripetere quanto detto in occasione della Mam'zelle:  anche questa bottiglia di Cuvée Jeune Homme risulta molto marcata dalla permanenza in botti di vino, con la birra che a tratti sembra poter scomparire. Benché godibile e sicuramente “migliore” della sua sorella, anche lei finisce per essere un po’ grezza e non pulitissima, portando il necessario refrigerio in una calda serata estiva senza riuscire tuttavia a convincere completamente.
Formato 33 cl., alc. 6.5%, IBU 65, lotto 04, scad. 07/10/2016, prezzo 2,10 Euro (drink store, Belgio)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 17 agosto 2016

Birra in Portogallo, parte prima: Fermentum - Engenharia das Fermentações e Dois Corvos Cervejeira

Anche il Portogallo, come quasi ogni altra nazione europea, sta avendo la propria piccola craft beer revolution; in un paese dove  le industriali SuperBock e Sagres si contendono le spine dei locali e gli scaffali dei supermercati, a prezzi peraltro bassissimi, sono oggi presenti una settantina tra brewpub, microbirrifici e beerfirm, almeno secondo quanto riporta il database di Ratebeer. Le prime due aperture risalgono al 2011 per arrivare a 17  a fine 2013; ma è solo a partire dal 2014 che il movimento inizia davvero a crescere al ritmo di circa 30 aperture l’anno. A Lisbona e a Porto arrivano i primi locali dedicati alla craft beer, con una formula che è pressappoco la stessa: piccolo beershop con mescita, dove alcune spine affiancano una buona selezione in bottiglia per il consumo in loco e per l’asporto. Ma anche in qualche ristorante, nei negozi di prodotti gastronomici (inclusi quelli nell’aeroporto di Lisbona) e nei supermercati si può incontrare qualche bottiglia “di artigianale”; i prezzi purtroppo si avvicinano pericolosamente a quelli italiani: siamo sui 10 euro/litro per acquisto di bottiglie, tra i 15 ed i 20 euro/litro per le proposte alla spina spesso in formato 20 e 40 cl. 
Nelle due settimane passate in Portogallo ammetto di aver volutamente tralasciato la birra a favore del vino; non mi è comunque mancata l’occasione di assaggiare – tra poche luci e molte ombre – anche alcune proposte da microbirrifici e beerfirm portoghesi che cercherò di riassumervi in un paio di post. 

Partiamo uno dei più “vecchi” microbirrifici portoghesi, ovvero Fermentum - Engenharia das fermentações, aperto nel 2011 a Vila Verde (Braga) da Francisco Pereira e Filipe Macieira, entrambi ricercatori all’università di Minho ed ex-homebrewers; le birre vengono inizialmente commercializzate a nome Cerveja Artesanal do Minho, mentre da un paio di anni il brand è stato modificato in Cerveja Letra.  Ad ogni birra corrisponde infatti una lettera dell’alfabeto: A per la Weiss, B per la Pilsner, C per la Stout e D per la de Red Ale; a queste birre si sono poi affiancate una Belgian Strong Dark Ale (E) e una IPA (F); la loro distribuzione è abbastanza buona anche lontano dal luogo di produzione, ovvero l’estremità settentrionale del Portogallo. 

Inizio con la Cerveja Letra C, una stout prodotta con luppoli tedeschi e americani, nera e dalla schiuma marrone un po’ scomposta ed esuberante ma dalla lunghissima persistenza. Il naso non è particolarmente intenso ma presenta una discreta pulizia con i profumi del caffè e dell’orzo tostato; quando la birra si scalda emerge una leggerissima nota di salamoia. Al palato risulta un po’ troppo carbonata per lo stile, riproponendo quasi in fotocopia l’aroma, nel bene e nel male, salamoia inclusa: lieve caramello in sottofondo, caffè ma soprattutto tostature formano una bevuta discreta che però si spegne nel finale, perdendosi in una leggera astringenza e nell’eccessiva acidità dei malti scuri. Benino l’intensità, ampi margini di miglioramento per quel che riguarda pulizia ed eleganza; siamo nei dintorni della sufficienza

Baylet è invece il nome dato ad una doppia collaborazione con il birrificio spagnolo (Gijón) Bayura Asturies Craft Beer per la realizzazione di due Double IPA alla segale: “Black” quella prodotta in Spagna, chiara quella portoghese che vado a stappare. In verità il suo colore ambrato è piuttosto carico con riflessi ramati ed una schiuma ocra, compatta e cremosa, dall’ottima persistenza. I luppoli utilizzati dovrebbero essere Summit, Cascade e Calypso con un generoso dry-hopping di Mosaic; l’aroma non fa di fragranza ed eleganza le sue caratteristiche principali ma presenta un buona intensità: domina il dolce del caramello e della marmellata d’agrumi, qualche accenno di frutti di bosco (lampone?), una discreta presenza etilica ed una lieve speziatura donata dalla segale. In bocca è piuttosto robusta (medio-pieno) con una carbonazione delicata che avvolge il palato con una coltre piuttosto dolce di caramello, marmellata d’agrumi ed una componente zuccherina piuttosto notevole; a contrastarla l’amaro resinoso e vegetale, leggermente speziato, poi protagonista del finale. In assenza di finezza rimane una buona potenza di fuoco in una birra tutta giocata sull’asse caramellone-resinoso che non rientra esattamente nelle mie grazie: l’alcool scalda il giusto e la bevuta procede senza intoppi ma con qualche sbadiglio di troppo.


Spostiamoci ora a Lisbona dove a ottobre 2013 ha aperto la Dois Corvos Cervejeira nel distretto periferico di Beato, piccola taproom aperta tutti i giorni dalle due del pomeriggio con possibilità di riempire anche growlers: se tutto ciò vi fa pensare gli Stati Uniti non vi state sbagliando, perché dietro a Dois Corvos c’è l’americano Scott Steffens, ingegnere informatico con l’hobby per l’homebrewing. Nel 1999 conosce in Portogallo Susana Cascais, che nel 2002 lo raggiunge a Seattle per diventare sua moglie e lavorare per un birrificio nel marketing. Dopo una decina d’anni si trasferiscono con i figli piccoli, l’attrezzatura da homebrewer ed il progetto di aprire un microbirrificio a Lisbona. Il business plan di Dois Corvos è già pronto nel 2013, con un impianto da 850 litri progettato ed assemblato in proprio; qualche ritardo tecnico e la burocrazia fanno però slittare il debutto a gennaio 2015. Oggi sono circa una ventina le etichette disponibili, incluse produzioni stagionali ed occasionali, che spaziano tra Usa, Belgio, Inghilterra e Germania. 

Evitando volutamente le solite IPA, partiamo con la Galáxia Milk Stout, che si presenta di color marrone scurissimo con una bella schiuma cremosa e dall’ottima persistenza. Il naso è però praticamente assente, con un lontanissimo ricordo di cioccolato al latte; bene il mouthfeel, morbido e scorrevole ma al palato le cose non vanno troppo bene.  Il lattosio/panna si sente, ci sono accenni di cioccolato al latte e caramello, una fastidiosa presenza di esteri fruttati ma manca completamente il carattere “scuro” o torrefatto che di si voglia; l’unico accenno di amaro è la chiusura terrosa, davvero troppo flebile per equilibrare una birra che abbina l’acidità dei malti scuri al dolce del cioccolato al latte, risultando alla fine poco pulita e sbilanciata.   

Dalla tradizione anglosassone spostiamoci a quella belga, che personalmente reputo il banco di prova di ogni birrificio. Per la Marvila Series, ovvero birre  occasionali/stagionali, ecco una Saison prodotta senza l’utilizzo di spezie. Non badate alla foto, lei è arancio pallido e velata nel bicchiere, all’aroma presenta note floreali e fruttate (arancio) affiancate da quelle di coriandolo e chiodi di garofano. L’elevata carbonazione la rende vivace e molto scorrevole al palato, dove però il gusto si rivela molto meno pulito: pane e miele accompagnano la polpa dell’arancio e i chiodi di garofano, sino ad un finale terroso e leggermente astringente nel quale i fenoli apportano un po’ di plastica bruciata. Il risultato non è drammatico ma è una Saison completamente priva di carattere rustico:  c’è una leggera acidità a rendere la bevuta rinfrescante, il DNA belga s’intravede, ma la strada da percorrere per fare una Saison degna di tale nome è ancora lunga.

Nel dettaglio:
Cerveja Letra C Stout, 33 cl., alc. 5.5%, lotto 21-16, scad. 03/2015, prezzo indicativo 2.99 Euro.
Cerveja Letra / Bayura Baylet Rye Imperial IPA, 33 cl., alc. 8.5%, lotto 22-2016, scad. 06/2017, prezzo indicativo 3.00 Euro
Dois Corvos Galáxia Milk Stout, 33 cl., alc. 4.9%. IBU 25, lotto 22/04/2016, scad. 01/2017, prezzo indicativo 2,49 Euro
Dois Corvos Saison, 33 cl., alc. 5.2%, IBU 29, lotto 16/05/2016, scad. 02/2017, prezzo indicativo 2,99 Euro

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.