mercoledì 30 settembre 2015

Dupont Triomfbier Vooruit

Nel diciannovesimo secolo la città belga di Gand/Ghent era un importante polo industriale, dominato dall'industria tessile; i lavoratori erano spesso sottoposti a massacranti turni di dodici ore per poi ritornare a dormire in degradati alloggi privi di ogni forma d'igiene. Edward Anseele nel 1880 fondò la cooperativa sociale Vooruit: si trattava inizialmente di un panificio dove gli associati potevano acquistare il pane ricevendo in cambio, nel corso dell'anno, una parte del ricavato sottoforma di buono spesa da poter utilizzare per altri acquisti di prodotti della cooperativa. Ben presto oltre al pane arrivò il caffè, il vestiario, una biblioteca, un bar e una sala dove potersi incontrare, dando così inizio al primo circolo "socialista" di Gand. I benefici per gli associati furono sempre maggiori; chi non poteva lavorare per malattia avevano gratis pane e assistenza medica, i membri più anziani ricevevano una piccola pensione basata sul volume dei loro acquisti presso la cooperativa.
Ma Anseele si spinse oltre: visto che le condizioni di lavoro nelle fabbriche di Gand erano pessime, fondò lui stesso un mulino, un birrificio e uno zuccherificio assumendo personale retribuendolo in modo migliore; nel 1913 la cooperativa fondò anche una banca. La necessità di ampliare i locali portò all'acquisto di un terreno nel centro di Gand dove fu poi costruito nel 1913 l'edificio che oggi ospita il centro culturale Vooruit; il palazzo sopravvisse alle due guerre mondiali in quanto sequestrato dai tedeschi che lo trasformarono in una sorta di dormitorio per i propri soldati. Nel 1946 la cooperativa rientrò in possesso dei locali, ma con il passare degli anni il Vooruit entrò in crisi; gli operai iniziavano a migliorare il proprio livello di vita e preferivano quindi spendere i propri soldi in altri luoghi più attraenti. Il cinema ed i concerti che si tenevano nella sala spettacoli non erano più redditizi ed il palazzo necessitava di profondi interventi di restauro per i quali non c'erano le risorse comiche; negli anni '70 l'unico luogo ad essere ancora aperto era il bar, ma gli incassi non bastavano a coprire le spese. Un gruppo di giovani ottenne l'uso della sala concerti negli anni '80, sul cui palco si esibirono molti artisti locali; lavoratori volontari s'incaricarono di ripulire i locali dagli escrementi e dalle carcasse di piccioni che si erano accumulati nel corso del tempo. Qualche anno dopo l'edificio ebbe il riconoscimento di "monumento nazionale" e furono finalmente stanziati i fondi necessari per il restauro, portato a termine nell'anno 2000. Al Vooruit si esibirono, tra gli altri,  i Nirvana, Sinéad O’Connor e  the Red Hot Chili Peppers; furono organizzate mostre, dibattiti, eventi culturali. Oggi al Kunstencentrum Vooruit lavorano circa un centinaio di persone che accolgono oltre trecentomila visitatori l'anno.
Nel 2013 il centro decide di celebrare il suo centenario riportando in vita una delle birre che un tempo venivano prodotte dal birrificio "sociale": è la Triomfbier, la cui realizzazione viene affidata alla Brasserie Dupont. Gli ingredienti sono tutti biologici, con una piccola percentuale di malto torbato.
All'aspetto è di color ambrato chiaro, opaco, con una schiuma biancastra cremosa un po' scomposta e non molto persistente. Il naso è pulito e discretamente intenso, con il lievito di casa Dupont ben in evidenza: una leggera speziatura dalla quale emerge soprattutto il pepe, gli esteri fruttati (arancia, albicocca), le note maltate di biscotto; l'affumicatura è davvero leggera e si avverte solo quando la birra si scalda. La carbonazione è belga, tipicamente vivace, con un corpo medio-leggero e la grandissima scorrevolezza di tutte le birre Dupont. L'affumicato è molto delicato anche in bocca, dove c'è una fragrante base maltata (biscotto e miele) seguita dal dolce della pesca, dell'albicocca e dell'arancia; l'intensità scende un po' troppo bruscamente nel finale terroso ed erbaceo, piuttosto corto e "macchiato" da un breve passaggio acquoso che di fatto "spegne" la birra, forse volutamente, per permettere alle note di torba di fare una veloce apparizione nel retrogusto. Equilibrio e pulizia non mancano, l'alcool è ovviamente impercettibile e l'affumicatura ben convive con il carattere belga, un connubio che mi aveva fatto un po' dubitare a priori. Si tratta tuttavia di una convivenza da "separati in casa", nel senso che l'affumicato si percepisce solamente nel momento in cui gli altri profumi e sapori vengono a spegnersi.
Formato: 75 cl., alc. 6%, lotto 17276A 09:57:48, scad. 10/2016, pagata 3.10 Euro (drink store, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 29 settembre 2015

Fourpure Hoptart

Il quartiere di Londra è quello di Bermondsey con il suo “beer mile”, ormai noto a qualsiasi birrofilo che si rispetti: a poca distanza l’uno dall’altro ci sono The Kernel, Partizan, Brew By Numbers, Anspach & Hobsday, Bullfinch Brewery e, da ottobre 2013, anche Fourpure. 
Quest'ultimo viene fondato dai fratelli Daniel e Thomas Lowe, entrambi con un passato da homebrewers; nella loro avventura professionale i due sono aiutati dal birraio John Driebergen, proveniente dalla Meantime. L’impianto da trenta ettolitri arriva dal birrificio  Purity ed e è affiancato da un impiantino pilota da 1 hl. Daniel Lowe  ha lasciato il suo ruolo dirigenziale in azienda di IT per lanciarsi in questo nuovo progetto in un settore in piena espansione. 
Il nome scelto si riferisce ai quattro elementi fondamentali per produrre la birra: cereali, acqua, lievito e luppolo, mentre il progetto grafico viene affidato all’agenzia Mr. B & Friends. Ma Fourpure è soprattutto il primo microbirrificio inglese a dotarsi da subito di un impianto di messa in lattina di proprietà, con una linea (53 lattine al minuto)  proveniente dalla canadese Cask Brewing Systems  ed in esborso complessivo stimato intorno a 250.000 sterline. Alla Fourpure le ambizioni non mancano, soprattutto quelle di evadere dal solo canale distributivo di pub e beershop; viene raggiunto un accordo con la catena Marriott per la fornitura della Fourpure Pilsner nei bar degli hotel di Londra e anche lo chef stellato Michel Rou mette le birre in carta nei suoi ristoranti La Gavroche, Roux at Parliament Square e Roux at The Landau. Niente di più lontano dagli umili pub di quartiere, insomma. Da qualche mese le Fourpure sono importate anche in Italia.  Per chi passasse da quelle parti, la Tap Room è aperta ogni sabato dalle undici del mettono alle cinque del pomeriggio, con possibilità di bere in loco alla spina o di fare acquisti da portare a casa;  la zona di Bermondsey non dista molto dal London Bridge. 
A soli due anni dal debutto il portfolio di Four Pour è già piuttosto ampio anche per quel che riguarda la varietà degli stili proposti. Novità dell'estate 2015 è una sour ale , chiamata con il nome poco originale di Hoptart che aiuta comunque a capire senza troppi giochi di parole cosa troverete nel bicchiere.
Dorata e leggermente velata, forma una generosa schiuma bianca abbastanza compatta e cremosa, dalla buona persistenza. L'interpretazione di Fourpure di una Berliner Weisse è chiara sin dall'aroma: il massiccio dry-hopping regala un bouquet ancora molto fresco, raffinato e dalla pulizia davvero esemplare. Pompelmo, mandarino, arancia, frutta tropicale (lychee, ananas, mango) e abbondanza di scorza di limone/lime; i profumi sono pungenti, fragranti e ruffiani quanto basta da non risultare mai cafoni. E' difficile staccare il naso dai bordi del bicchiere, e il gusto di questa Hoptart non delude le aspettative create: anche in bocca c'è una pulizia estrema che permette di annotare le note di frumento e di pane, l'asprezza degli agrumi (pompelmo, lime, limone) e della frutta acerba (mela verde, ribes), una punta quasi impercettibile di lattico. In sottofondo c'è una delicata dolcezza (ananas, mango) ad ingentilire le asprezze rendendole più accessibili anche a chi non ha una grossa familiarità con l'acido, mentre spetta all'amaro della scorza d'agrumi il compito di chiudere la bevuta. Fourpure snatura completamente lo stile con un abbondante luppolatura che va a formare una birra fruttatissima, pericolosamente a rischio "succo di frutta"; il risultato è comunque davvero convincente, grazie alla freschezza, all'eleganza e soprattutto ad una pulizia davvero encomiabile. Quasi pleonastico sottolineare la sua grande secchezza, l'enorme potere dissetante e rinfrescante (tipico delle Berliner Weisse) e la stupefacente facilità di bevuta a fronte di un'intensità di gusto sorprendente per una gradazione alcolica piuttosto modesta (3.8%). Difficile tenerla nel bicchiere per più di qualche minuto: Fourpure rischia ma dimostra di saper gestire la sfida con grande maestria, uscendone vincitore con una birra che l'estate reclama a gran voce. Una lattina ricca di freschezza e di sapori, da bere quasi tutta d'un sorso.
Formato: 33 cl., alc. 3.7%, scad. 03/2016., pagata 3.50 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 28 settembre 2015

Struise Cuvée Delphine (Vintage 2012)

La storia della Cuvée Delphine del birrificio belga De Struise ve l’avevo in buona parte raccontata in occasione della bevuta della Black Albert. Ricapitoliamo:  l'Ebenezer's Restaurant & Pub di Lovell (Maine, USA), è uno dei templi della birra americana con trentacinque spine ed un impressionante selezione in bottiglia che conta un migliaio di etichette, con ampia selezione vintage. E’ gestito dal 2004 da  Jen e Chris Lively che, nel 2007, contattano gli “amici” Struise per avere una birra speciale da   offrire durante l'annuale Belgian Beer Festival; nasce così la Black Albert, una massiccia “Belgian Royal Stout” (13%) prodotta utilizzando solamente ingredienti belgi e così chiamata in onore di Alberto II, sesto re belga. La birra riscuote un ottimo successo e, terminato il festival, Chris Lively ha l’idea di metterne un po’ ad invecchiare per un anno in botti ex-bourbon; l’esperimento riesce piuttosto bene e tutti i clienti dell’Ebenezer apprezzano molto il risultato. 
L’operazione è ovviamente replicata in Belgio dagli Struise, che riescono a reperire diverse botti ex-bourbon Four Roses; l’idea iniziale è di chiamare la birra “Four Black Roses”, ma dalla distilleria del  Kentucky non arrivano dei segnali incoraggianti ad utilizzare il loro nome. Con una buona dose d’ironia, gli Struise decidono allora di chiamare la birra Cuvée Delphine, in onore di  Delphine Boël, figlia della baronessa Sybille de Selys Longchamps e - si dice -  figlia illegittima di Alberto II. Fu il libro scritto da Mario Danneels  “Paola, van 'la dolce vita' tot koningin” (biografia non autorizzata  di Paola Ruffo di Calabria, moglie di Alberto II)  ad insinuare per la prima volta nel 1999 l’esistenza di una figlia illegittima di colui che a quel tempo era il Re del Belgio. La casa reale ha ovviamente sempre negato ma nel 2013 la Boël ha citato in tribunale il Re e i suoi due figli (in quanto il Re è protetto dell’immunità) per essere riconosciuta attraverso la prova del DNA; nello stesso anno Alberto II ha abdicato al trono e la Boël ha ritirato la prima denuncia per farne una nuova, questa volta solamente all'ex Re, ora non più immune. Il procedimento giudiziario è ancora in corso. 
Delphine Boël è anche artista ed ha accettato di realizzare l’etichetta della birra degli Struise, che si compone dell’eloquente scritta “la verità ti renderà libero”.  La prima versione di Cuvée Delphine è datata 2009 con un ABV uguale a quello della Black Albert (13%); l’ultima, imbottigliata a settembre 2014, è la “Vintage 2012”, ad indicare che il tempo passato in botte è stato superiore ai 12 mesi. Il contenuto alcolico è sceso all’11%.
Maestosa, altezzosa e "regale" nel bicchiere, Cuvée Delphine manifesta la propria opulenza anche all'apparenza: assolutamente nera, sormontata da una cremosissima e compatta schiuma color cappuccino, sorprendentemente generosa considerando la gradazione alcolica della birra ed il passaggio in botte. Sin da lontano si può avvertire il suo profumo dolce di bourbon, zucchero di canna, vaniglia, fruit cake, uvetta e prugna, caffè, liquirizia, legno. L'intensità non viaggia forse a pari passo con l'eleganza, ma è un aroma che invita ad portare subito il bicchiere alle labbra: piena, poche bollicine, morbidissima e vellutata, avvolge il palato con una coltre che è tuttavia di densità inferiore rispetto a quella del "genitore" Black Albert. Passano in rassegna, o in parata, bourbon, vaniglia, caramello bruciato, cioccolato fondente, melassa, miele, uvetta e prugna sotto spirito, frutta secca e qualche lieve sentore di cenere. L'ottima pulizia rende abbastanza facile descriverne la complessità: ne risulta un birra estrema ma piuttosto equilibrata tra le sue componenti, con la partenza dolce (bourbon, ma non solo) che viene equilibrata dal calore etilico, dalle tostature e dal caffè. L'alcool scalda senza mai bruciare, e la bevuta non risulta troppo impegnativa: è chiaramente una birra da sorseggiare in tutta tranquillità prendendosi tutto il tempo necessario per assaporarne il sontuoso e lunghissimo retrogusto nel quale il bourbon abbraccia il caffè, il cioccolato amaro e, idealmente, chi ha il bicchiere in mano.
In sintesi: prendi un'ottima birra (la Black Albert), mettila dentro ad una botte e difficilmente sbaglierai; non a caso ne esistono ormai quasi infinite varianti, alcune davvero troppo esose: la Cuvée Delphine mi sembra quella che per rapporto qualità prezzo vale senz'altro la pena di andare a cercare. L'ultima nata (40% ABV) è la "BAOS - Black Albert on steroids", ottenuta tramite il processo della "distillazione a freddo" ed invecchiata due anni in botti di bourbon. 
Formato: 33 cl., alc. 11%, ABV 72, lotto 90100142012, imbott. 09/2014, scad. 15/09/2019, pagata 4.60 Euro (beershop, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 27 settembre 2015

Giesinger Baltic Rye Porter

Sono passate solo poche settimane dall'ultima bevuta ma eccoci ad un nuovo appuntamento con la Giesinger Brau di Monaco di Baviera, la cui storia vi è stata raccontata qui.
Lo scorso aprile il microbirrificio che di trova nell'omonimo quartier della capitale bavarese ha inaugurato la propria  linea "Craftiges" ovvero "craft"; è abbastanza curioso notare come in questo momento in Germania la parola "artigianale/craft" coincida con il produrre  stili che si allontanano dalla tradizione tedesca. Non è quindi il metodo utilizzato per produrre ma quello che si produce; ecco allora che IPA ed APA di birrifici tedeschi dai grandi volumi, e quindi tutt'altro che "artigianali", vengono vendute nei negozi nella sezione "craft". Fanno eccezione alla regola solamente gli stili classici che vengono affinati in botte. Allo stesso modo è  significativo che un microbirrificio come Giesinger non voglia etichettare come "craft" le sue helles, bock o weizen, peraltro di ottima fattura e infinitamente più ricche di sapori di quelle prodotte dalle "grandi sorelle" di Monaco.
Ad ogni modo, le quattro "craft" di Giesinger fortunatamente sfuggono al "cliché" IPA/APA: troviamo la Lemon Drop Triple, ovvero una triple che usa lievito trappist e l'omonimo luppolo, la Doppel-Alt bevuta qualche settimana fa, una Wheat Stout che utilizza anche e malto di frumento tostato e una baltic porter alla segale chiamata semplicemente Baltic Rye Porter.
Utilizzare la segale è stato piuttosto impegnativo per il birraio Steffen Marx, ma alla fine la birra  riesce ad essere imbottigliata; la ricetta prevede malti tostati, Monaco e Caramello, malti di segale scuri, tostati e caramellati, luppolo Spalter Select.
Il suo colore è ebano opaco con dei bei riflessi rossastri ai quali la foto non rende certamente giustizia; abbastanza modesta la schiuma, che è tuttavia compatta e cremosa ed ha una buona persistenza. L'aroma non è particolarmente pronunciato e regala i profumi del pane nero, pane tostato, frutta secca, toffee, butterscotch. L'intensità recupera terreno in bocca, in una birra dal corpo medio, morbida al palato ma quasi piatta per quel che riguarda le bollicine. Troviamo pane tostato, liquirizia, cioccolato al latte, qualche nota fruttata (ciliegia, prugna) e una leggera speziatura donata dalla segale; chiude lievemente astringente, con un delicato amaro di tostature e frutta secca ed un delicato "warming" etilico. Una Baltic Porter discreta, dall'aroma sottotono e un po' slegata in bocca, sicuramente penalizzata dalla carbonazione quasi assente; bene il gusto, ma per ora il microbirrificio di Monaco mi sembra molto più convincente nelle interpretazione degli stili classici bavaresi, davvero notevoli, rispetto a quando s'avventura un po' più lontano.
Formato: 33 cl., alc. 6.7%, lotto 1, scad. 01/2016, pagata 3.07 Euro (beershop, Germania).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 26 settembre 2015

De Leite Cuvée Mam'zelle

La birra di oggi è ideale continuazione di quella bevuta un paio di anni fa: la Enfant Terriple del birrificio De Leite, attivo dal 2008 e guidato da Luc Vermeersch in quel di Ruddervoorde, una ventina di chilometri a sud di Bruges. Luc è passato dall'homebrewing al mondo dei professionisti installando il birrificio in una una parte dello stabile occupato dalla propria ditta, la  Helbig, che produce sistemi modulari  e scaffalature per negozi. 
La Enfant Terriple finisce ad invecchiare per qualche mese in botti di rovere che hanno ospitato in vino provenienti dalla regione francese del Médoc, e prende il nome di Cuvée Mam'zelle. L'etichetta, come tutte le altre del birrificio, è opera del disegnatore  Lowie Vermeersch, nipote di Luc, che dopo aver lavorato per diversi anni alla Pininfarina, in Italia, nel 2010 si è messo in proprio fondando a Torino la società Granstudio.
Cuvée Mam'zelle si presenta piuttosto torbida, con un colore che oscilla tra il dorato carico e l'arancio; la schiuma biancastra è abbastanza compatta e cremosa ed ha una buona persistenza. Al naso domina l'aspro, con sentori di uvaspina e frutta acerba (mela), legno, acido lattico e aceto di mela; la componente dolce (ananas e uva matura) rimane piuttosto in sottofondo ed è avvertibile solo quando la birra si scalda.
In bocca non ci sono grossi cambiamenti: la bevuta inizia subito aspra riproponendo mela acerba e uva spina, acidità lattica e soprattutto acetica, quest'ultima un po' troppo invadente e fastidiosa, a tratti quasi tagliente. Il dolce assume le sembianze del vino liquoroso, dell'uva macerata e rimane sempre in sottofondo senza riuscire a portare equilibrio; chiude con una bella secchezza tannica, con sentori legnosi e con una punta amaricante di mandorla e lattica. Birra che si mantiene aspra e che si mostra particolarmente segnata dal passaggio in botte ex-vino, risultando però un po' grezza, poco pulita e molto, molto lontana dall'eleganza di birre come questa che hanno subito un invecchiamento simile. L'alcool rimane comunque molto ben nascosto e non è lui, ma la componente acetica, a rallentare di molto la velocità di bevuta. Le bollicine sono poche, la birra ha corpo medio e, soprattutto, è particolarmente marcata dal passaggio in botti ex-vino con un risultato che alla fine non è del tutto convincente.
Formato: 33 cl., alc. 8.5%, IBU 50, lotto 04, scad. 25/11/2015, pagata 2.10 Euro (drink store, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 25 settembre 2015

Pinta Imperator Bałtycki

Eccoci ad un nuovo appuntamento con la “new wave” polacca ed uno dei suoi principali protagonisti: Browar Pinta con sede legale a Żywiec, nel sud est della Polonia e fondata da Ziemowit  “Ziemek“ Fałat,  Grzegorzem Zwierzyną e Marka Semlę. Si tratta in realtà di una beerfirm, uno status che riguarda la quasi totalità dei nuovi marchi che caratterizzano la “craft beer” polacca; un modello di business praticamente obbligato per chi proviene dall’homebrewing e non ha modo di reperire le risorse economiche necessarie per acquistare un impianto proprio. La produzione avviene principalmente presso la  Browar na Jurze di Zawiercie e la  Browar Zarzecze che ha sede nell’omonima città.  Pinta possiede anche un ristorante a Poznań  (Pinta Klepka) e ha inaugurato nel giugno 2014 il bar Viva la Pinta in centro a Cracovia. Il fondatore (e “birraio”) Ziemek è anche socio del sito Browamator che vende materiale per homebrewing e,  da quanto leggo, autore di libri ed articoli su come fare la birra in casa. 
Pinta testa il mercato nel 2010 con una Grodziskie, stile tipico della Polonia: 1666 bottiglie che vengono vendute nonostante il prezzo sia molto più alto di una classica birra industriale. E’ la prova che anche il bevitore polacco è disponibile a pagare di più per un prodotto di alta qualità.  A marzo 2011 nasce ufficialmente la beerfirm, che diviene il primo produttore polacco a proporre un’American IPA chiamata Atak Chmielu, lo stile che in poco tempo andrà a monopolizzare o quasi l’avanguardia polacca. Sono anche i primi a realizzare una collaborazione all’estero, nel marzo 2014, con il birrificio irlandese Carlow/O’Hara. 
Il portfolio di Pinta è oggi già piuttosto vasto e (fortunatamente) non include solamente IPA/DIPA/BIPA/WIPA; sfogliandolo con un po’ di pazienza di possono trovare anche sahti e alcuni stili “autoctoni” come la già citate Grodziskie e la Baltic Porter. Uno sguardo al beer-rating mostra che proprio l’interpretazione che Pinta fa di questo stile  è attualmente secondo Ratebeer la miglior birra polacca, seguita dalla “Quatro”, una imperial IPA anch’essa prodotta da Pinta. 
"L'imperatore del Baltico" (Imperator Bałtycki) è il suo nome, per una ricetta che prevede un ampio parterre di malti Weyermann ( Munich  I, Pilsen, Vienna, Caramunich III, Caraaroma, Carafa Special I) e di luppoli (Amarillo, Ahtanum, Centennial, El Dorado, Mosaic, Zeus); il lievito è Saflager W-34/70. 
Nel bicchiere si presenta scurissima e prossima al nero, con solo qualche sfumatura color ebano a portare un po’ di luce; la schiuma beige è cremosa ed abbastanza compatta, con una buona persistenza. L’aspetto è coerente con i parametri stilistici ma basta avvicinare un po’ il naso al bicchiere per restare spiazzati:  è il luppolo a dominare, con resina, pepe, agrumi, marmellata d’arancia. Non c’è nulla che riconduca ad una porter, se non un lieve sentore di toffee in sottofondo, accompagnato da una note etilica, che s’avverte quando la birra si scalda.  Bene il “mouthfeel” (corpo medio, poche bollicine e una morbidezza leggermente cremosa) ma anche al palato il gusto corre subito in territorio luppolato; l’imbocco regala qualche nota di pane nero, ma è solo un passaggio velocissimo che conduce ad un amaro resinoso e pungente che morde subito il palato e non lo lascia più. A cercare di controbattere c’è, oltre al caramello, qualche suggestione di ciliegia, un goccia in un mare di luppolo le cui ondate portano un retrogusto amaro, dove alcool e resina interagiscono a vicenda lasciando quasi una nota piccante a scaldare il corpo e lo spirito; fatela arrivare a temperatura ambiente se volete avvistare un remoto ricordo di cioccolato e caffè.  Pinta sceglie  di stravolgere completamente lo stile, realizzando una birra che alla fine risulta molto simile ad una luppolatissima american strong ale. Se cercate dunque una baltic porter fedele allo stile potete evitare di acquistarla, ne resterete delusi; se invece siete malati di luppolo e, come la maggior parte dei beer geeks polacchi lo mettereste anche nel caffè a colazione, allora godetevi questa birra intensa, pulita e ben fatta, da sorseggiare con calma perché l'alcool non si nasconde più di tanto.
Chiudo con una postilla su Ratebeer, sito che leggo sempre con grande divertimento: passi per il punteggio di 100/100  (de gustibus non est disputando) per quel che riguarda la birra "in sé", ma come si fa ad attribuirle anche 100/100 per quel che riguarda l'aderenza allo stile??
Formato: 33 cl., alc. 9.1%, IBU 109, scad. 29/06/2016, pagata 4.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 24 settembre 2015

De Dolle Arabier

Esen, paese dove vivono circa duemila anime a pochi chilometri da Diksmuide, Fiandre Occidentali; qui un tempo esisteva un castello assieme ad un paio di distillerie e sei birrifici; oggi rimane solamente uno di questi ultimi chiamato Costenoble, fondato nel 1835 e di fatto scomparso nel luglio 1979, quando il proprietario Louis Charles Hector Costenoble lo vende a due fratelli  che da tempo si davano da fare con l’homebrewing e che avevano di recente vinto un concorso a Brussels:  Kris e  Jo Herteleer. A loro si aggiunge anche un mugnaio appassionato di birra, Romeo Bostoen. Il tempo di sistemare un po’ gli immobili datati 1922 (Esen fu praticamente distrutta nel corso della prima guerra mondiale) e nel novembre 1980 viene effettuata la prima cotta da parte del nuovo birrificio De Dolle Brouwers, ovvero “i birrai pazzi”. Il nome scelto è una naturale variante di “Dolle Dravers” ( “i ciclisti pazzi”) un minuscolo circolo di ciclismo al quale appartenevano Kris e Jo; un gruppo che non contava mai più di quattro membri e che – si racconta – aveva delle regole abbastanza particolari: per farne parte dovevate essere in grado di percorrere in un giorno la gita di 266 chilometri che veniva organizzata ogni anno da Roselaere a Cap-Griz-Nez, in Francia.
La prima birra realizzata è la Oerbier (“birra primordiale”) destinata a diventare una meraviglia grazie all’utilizzo per molti anni di un ceppo di lievito proveniente da Rodenbach. Dopo solo un anno Romeo Bostoen decide di ritirarsi dagli affari ed il neonato birrificio diviene di proprietà esclusiva della famiglia Herteleer; è Kris ad assumerne progressivamente il comando facendo birra nei weekend e diventandone, dal 2006, l’unico proprietario. Si dice che il fratello Jo stia facendo ancora birra in Sud Africa, dove svolge la sua professione di medico. Artista, grafico, architetto e birraio, Kris svolge in parallelo anche delle approfondite ricerche storiche sulla tradizione brassicola delle fiandre occidentali che nel 2000 gli portano il premio “Golden Hammer” da parte dell’associazione ’t Hamerken di Bruges. E' lui a disegnare personalmente quasi tutte le etichette e la simpatica mascotte gialla che crea come simbolo del birrificio: una cellula di lievito umanizzata "ottimista e gentile - dice Kris - che sorride al risultato ottenuto, la birra. Ma per ottenerla c'è voluto lavoro e conoscenza, simboleggiati dalla pala che tiene nell'altra mano".  E' lui ad indossare improbabili giacche, scarpe e papillon che fa indossare anche al "collo" delle bottiglie delle sue birre. 
Arabier: Kuaska la definisce "l'antesignana delle birre (belghe) luppolate". Una Strong Ale che appare alla metà degli anni '80 e rimpiazza pian piano la Oeral, una birra estiva (6%) che era disponibile solamente alla spina; nasce con una gradazione alcolica del 7% che aumenta nel corso del tempo a 7.8% e all'8% odierno. Michael Jackson citava l'abbondante utilizzo del luppolo Kent Golding, mentre attualmente il birrificio dichiara di usare fiori di Nugget proveniente dai vicini campi di Poperinge ed utilizzati anche in dry-hopping per i trenta giorni in cui la birra staziona nel maturatore.  Il nome scelto  si presta ad alcune interpretazioni: la più semplice è "la birra del pappagallo ara" raffigurato in etichetta, ma a confondere le certezze c'è il fatto che "Arabier" significa anche "arabo" e che qualche tempo fa - si vocifera - nella versione in fusto era comunemente chiamata "Arafat" dai bevitori locali. O, se volete, divertitevi a ripetere velocemente in alternanza Oerbier e Arabier come se fosse un scioglilingua.
Il suo colore è dorato e velato, sormontato da un'immancabile ed esuberante schiuma bianca e pannosa, compatta e molto, molto persistente. L'aroma, sopratutto quello emanato dalla schiuma, si potrebbe semplicemente descrivere come una "brezza bianca": freschissimo ed intenso, ricco di fiori bianchi, suggestioni di menta, pera e di pepe bianco; ci vuole qualche minuto di pazienza per apprezzare i profumi del miele e della fetta biscottata, pera, canditi (albicocca e pesca) e qualche reminiscenza di frutta tropicale (ananas, papaia?). Perfetta nella sua vivacissima carbonazione che solletica continuamente il palato, ricalca al gusto buona parte dell'aroma; fetta biscottata, pane e miele seguiti dal dolce zuccherino della frutta candita. Ma non si tratta assolutamente di una birra dolce, tutt'altro: le bollicine ed una lieve acidità stemperano subito qualsiasi velleità stucchevole, con uno splendido intenso finale luppolato e secco che pulisce completamente il palato con le sue note "zesty" ed erbacee, leggermente pepate. La sua bevibilità è impressionante, con l'alcool pericolosamente nascosto in modo subdolo: può essere davvero considerata un birra estiva, che disseta e rinfresca, evocando a tratti lo zenzero. Bottiglia in stato di grazia, fragrante e pulitissima, con l'abbondante luppolatura che riesce a convivere magistralmente con il lievito belga, consentendone la sua piena espressione senza mai prevalicarlo: uno splendido esempio di strong ale belga luppolata, pressoché perfetta nella sua semplicità. La costanza non è certo la caratteristica principale di De Dolle (mi è capitato di berne alcune più o meno brettate) ma quando escono bottiglie come queste a Kris Herteleer si finisce per perdonare qualsiasi cosa. 
Formato: 33 cl., alc. 8%, IBU 55, scad. 01/2017, pagata 2.05 Euro (drink store, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 23 settembre 2015

Upright Five (#5)

Alex Ganum, nativo del Michigan, arriva a Portland (Oregon) nel 2002 per studiare cucina al Western Culinary Institute ma viene rapidamente risucchiato dall’attivissima scena brassicola che caratterizza la città americana con la più alta densità di birrifici. Inizia con l’homebrewing e l’anno successivo vola già sulla costa ad est per un periodo di praticantato al birrificio Ommegang; di ritorno a Portland, trova impiego come birraio presso il brewpub BJ's Restaurant and Brewhouse ed inizia progettare il proprio business plan finalizzato all’apertura del proprio birrificio. Le risorse economiche necessarie provengono dalla sua famiglia e dalla Portland Development Commission. 
A marzo 2009 nasce la Upright Brewing Co., nome che si riferisce allo strumento utilizzato dal contrabbassista e compositore Charles Mingus; impianto da 10 barili a cotta per una capacita produttiva di circa 1200 barili l’anno e soprattutto vasche di fermentazioni aperte, delle quali Alex si era innamorato nel suo periodo d’apprendistato alla Ommegang, birrificio dal forte legame con la tradizione belga del quale vi avevo parlato in questa occasione. Il debutto avviene con una Old Ale affinata in botte chiamata Billy The Mountain ma la birra più venduta, soprattutto nei locali e ristoranti vicino al birrificio, diventa la  Engelberg, una pils tedesca. La maggior influenza brassicola di Alex Ganum rimane comunque il Belgio e le sue farmhouse ales oggi così popolari negli Stati Uniti; ad aiutarlo in sala cottura arrivano i birrai Gerritt Ill e Bobby Birk. Assieme a due soci, Ganum è attualmente proprietario anche del pub  Grain and Gristle e dell’Old Salt Marketplace, un ristorante con macelleria annessa dove poter anche fare acquisti.  
Nel pieno rispetto della tradizione belga sono i nomi dati a quattro saison/farmhouse ales prodotte da Upright tutto l’anno: viene semplicemente utilizzato il numero corrispondente alla gravità iniziale, espressa mediante la scala belga, come fanno ad esempio Rochefort, St. Bernardus e Westvleteren. Tutte le birre utilizzano luppoli cresciuti nell’Oregon e il nuovo ceppo di lievito sviluppato dal birrificio nel 2011. La saison di oggì è semplicemente chiamata “Five”:  malti Pale, Vienna e Caramel Triticale, luppoli Willamette, Liberty e Glacier. 
Il suo colore è arancio opaco, sormontato da una generosissima testa di pannosa schiuma biancastra, molto persistente ma un po’ scomposta. Al naso profumi floreali che ricordano rosa e lavanda, una delicata speziatura nella quale emerge soprattutto il pepe e un bouquet fruttato molto ben assemblato che include pesca bianca, pera, arancia, mandarino ed albicocca; pulizia davvero eccellente a privilegiare finezza ed eleganza piuttosto che l’intensità. La bevuta vede passare in rassegna le note di pane e biscotto, albicocca pesca ed arancia per una dolcezza iniziale alla quale fa rapidamente seguito una leggera acidità ma soprattutto  la controparte amara, erbacea e terrosa. La vivace carbonazione rende questa saison molto vivace enfatizzandone la delicata speziatura (pepe), con una bella pulizia ed una buona eleganza che viene un po’ a mancare solo nella chiusura  amara, intensa ma scomposta e piuttosto in contrasto con la delicatezza e l’equilibrio degli altri elementi. Ottima la secchezza e discreta la componente rustica; nonostante la gradazione alcolica abbastanza contenuta (5.5%)  la birra è piuttosto intensa ma un po’ pesante a livello tattile, risultando alla fine molto meno scorrevole della maggior parte delle Saison prodotte in Belgio dalla “bevibilità assassina”. 
Formato: 75 cl., alc. 5.5%, IBU 37, lotto e scadenza non riportati, pagata 10.80 Euro (drink store, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 22 settembre 2015

Contreras Valeir Extra

Risale al 1818 la nascita dalla Brouwerij Contreras, quando in una fattoria sulle colline di Gavere  (una ventina di km a sud-est di Gand) la famiglia Latte possiede una fattoria con annesso mulino e birrificio che viene venduto nel 1898 a René Contreras, antenati spagnoli e già proprietario di un birrificio a Evergem. Nel 1920 l’azienda passa nella mani del giovane nipote (classe 1901) Marcel Contreras; è lui che mette in atto il processo di ristrutturazione degli edifici e di modernizzazione degli impianti, con l’installazione di un sistema di refrigerazione che permette la produzione di birre a bassa fermentazione. Dopo le difficoltà provocate dalla seconda guerra mondiale il timone passa nella mani di Willy Contreras, figlio di Marcel: per molti anni il birrificio ha un mercato soprattutto locale destinato ad alimentare i bar di proprietà con le birre Contra Pils,  Raf Export Pils e l’ambrata Tonneke, quest’ultima poi dismessa a causa degli alti costi produttivi e resuscitata solo di recente. 
La svolta all’export per Contreras avviene all’inizio del ventunesimo secolo, quando alla guida subentra Ann, unica figlia di Willy, assieme al fidanzato Frederik De Vrieze. E’ quest’ultimo – birraio con un occhio di riguardo verso quello che sta accadendo negli Stati Uniti -  a prendere gradualmente il comando delle operazioni e ad introdurre nel 2004 la gamma Valeir,  che prende il nome da un leggendario  soldato al quale è anche dedicata una statua posta di fronte al municipio di Gavere.  Il campo di battaglia è quello di Semmerzake, nel 1453, dove l’esercito del Duca di Borgogna Filippo III sconfisse la città ribelle di Gand lasciando sul campo 16.000 vittime tra la popolazione.  Alla Valeir Blond si aggiungono rapidamente una birra natalizia e, nel 2006, la tripel “Valeir Divers” ed una “Donker”; il mercato le recepisce molto positivamente e decolla, rendendo necessario l'ampliamento della capacità produttiva, completato nel 2010. La quota export (Europa, USA e Giappone) riguarda oggi il 40% della produzione.
Nel 2007 il Giro delle Fiandre transita per Gavere e per l’occasione viene prodotta una belgian ale abbondantemente luppolata (o Belgian IPA) che viene chiamata “El Toro” e che entra poi in produzione stabilmente con il più gradevole nome di "Extra". I luppoli utilizzati sono Sterling ed Amarillo.
Nel bicchiere si presenta di un bel color dorato carico con riflessi arancio, velato: la "croccante" schiuma biancastra è perfetta nella sua compattezza e cremosità, con un ottima persistenza. L'aroma non è particolarmente intenso ed entusiasmante: il benvenuto è dato dai malti (pane, fetta biscottata) affiancati da sentori terrosi e, molto ma molto leggeri, di agrumi e spezie. Al palato viene rispettata la tradizione belga delle vivaci bollicine, in una birra dal copro medio che scorre bene mantenendo una buona presenza e morbidezza. Il gusto muove i suoi passi sul sentiero aperto dall'aroma senza allontanarsi mai; la base maltata è piuttosto solida (pane e biscotto), c'è una leggera presenza di agrumi e il finale si dirige in territorio amaro (terra e  resina) senza nessun estremismo. Facilità di bevuta ed equilibrio vengono assolutamente preservati, il lievito belga regala una delicata speziatura ma c'è una lieve presenza di diacetile che fa capolino al naso e in bocca man mano che la birra si scalda. La secchezza non è impeccabile, mentre latita un po' quella componente fruttata che oggi è componente quasi imprescindibili delle IPA moderne e ruffiane: il risultato finale è senz'altro innovativo nei confronti della tradizione belga, ma un po' datato se si raffronta con quanto va di moda adesso nel resto del mondo quando si parla di IPA. Birra comunque gradevole, anche se l'impressione è di aver trovato una bottiglia un po' fuori forma.
Formato: 33 cl., alc. 6.5%, lotto CP 2015/08, scad. 22/05/2017, pagata 2.10 euro (beershop, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 21 settembre 2015

Founders KBS (Kentucky Breakfast Stout) 2015

Per raccontate la storia della Kentucky Breakfast Stout di Founders occorre ritornare per un attimo alla Breakfast Stout bevuta in questa occasione. Riassumo per i pigri: una birra nata quasi per caso, nel giorno in cui Dave Engbers, fondatore del birrificio assieme a Mike Stevens, assaggia un chicco di caffè ricoperto di cioccolato offertogli da un cliente mentre sorseggia la sua Founders Porter. L'abbinamento è ottimo, e da lì nacque l'idea di realizzare una Stout/Porter con l'utilizzo di caffè e cioccolato.
Più o meno nello stesso periodo (2002) a Mike Stevens viene l'idea di provare ad invecchiare la Breakfast Stout in una botte di Bourbon; una prassi alla quale siamo ormai abituati ma che a quel tempo era praticata soltanto da un paio di birrifici. "Chiamai gli uffici della Jack Daniel, gli dissi che avevo un birrificio nel Michigan e che volevo comprare alcune botti usate di bourbon per metterci dentro la birra. 'Cosa? - mi risposero sorpresi - che cosa vorresti farci?'.  Loro di solito le botti usate le buttavano via; andammo a prenderne un paio e le riempimmo con la Breakfast Stout"; sei mesi dopo iniziamo ad assaggiarla e ci rendemmo conto che avevamo creato qualcosa di importante".
La ricetta della Breakfast Stout viene modificata per "irrobustire" un po' la birra al fine di farle meglio reggere gli effetti del passaggio in botte; nasce così la Kentucky Breakfast Stout, una birra costosa, laboriosa e inizialmente di non facile collocazione in un mercato ancora piuttosto acerbo per questo tipo di prodotti. I distributori di Founders non sono molto propensi ad acquistare una birra che sarebbe stata venduta a 20 dollari per un 4 pack e le vendite effettivamente non decollano. La situazione cambia drasticamente a partire dal 2005, quando Founders la porta all'Extreme Beer Festival di Boston: chi l'assaggia se ne innamora, la notizia si diffonde rapidamente via internet ed i distributori iniziano a ricevere centinaia di richieste. 
La sua produzione limitata contribuisce a farne aumentare la fama ed anno dopo anno la Kentucky Breakfast Stout inizia a diventare una delle birre più ricercate negli Stati Uniti; nel 2009 il birrificio decide di modificarne il nome in KBS (l'ABV passa da 10 a 11.2%) per tutelarsi da eventuali azioni legali derivanti dal fatto che la parola "Kentucky" potesse ingannare i clienti facendo loro pensare che si trattasse di una birra prodotta in quello stato americano. Founders ne raddoppia o quasi ogni anno la quantità prodotta, arrivando ad acquistare nel 2014 circa 3500 barili  di bourbon usati (principalmente Heaven Hill) e diventando così uno dei maggiori produttori americani di birre passate in botte; lo spazio necessario allo stoccaggio viene individuato all'interno di una cava di gesso in disuso non lontana dal birrificio dove ogni anno, oltre alle KBS, riposano anche la Backwood Bastard,  la Curmudgeon Old Ale ed altre produzioni occasionali.
La KBS viene messa in vendita una volta l'anno, solitamente nel mese di marzo, attirando inevitabilmente centinaia di appassionati che cercano di acquistarne qualche cassa di birra per berla o per poterla scambiare via internet con altre birre "rare". Nel 2012 il numero degli accampati in tenda che sfidano il freddo di Grand Rapids  fuori dal birrificio dalla notte precedente raggiunge il numero di 1000 e alla Founders decidono di organizzare qualcosa di diverso. A partire dal 2013 la birra è acquistabile presso il birrificio solamente dopo aver comprato un biglietto via internet (5 dollari devoluti in beneficenza); senza biglietto potete anche evitare di mettervi in fila al freddo. In contemporanea viene organizzata la "KBS Week", che nel 2015 si è svolta nella settimana del 9-14 marzo; diversi bar e ristoranti di Grand Rapids hanno avuto a disposizione un fusto di KBS da aprire entro il 13 marzo, mentre il giorno 14 è avvenuta la festa "ufficiale" presso la taproom del birrificio. A partire dal 16 marzo la KBS è stata distribuita in tutto il Michigan e, a fine mese, a tutti gli altri distributori; tra questi va segnalato l'ottimo lavoro di Interbrau - distributore italiano di Founders - che è riuscito a portare qualche cartone di KBS anche in Italia.
KBS millesimo 2015, quindi: praticamente nera e impenetrabile alla luce, forma un cappello di schiuma di ottime dimensioni, se si considera la sua gradazione alcolica, cremosa e compatta, dall'ottima persistenza. Il naso è abbastanza complesso: bourbon, cioccolato al latte, vaniglia, caffè liquido e polvere di cacao, per un bouquet dolce che a tratti ricorda quasi un tiramisù liquido, mentre in sottofondo ci sono sentori di legno e liquirizia. Nel complesso l'aroma è intenso e pulito ma dall'eleganza migliorabile. Sontuosa con il suo corpo pieno le poche bollicine, avvolge morbidamente il palato pur mantenendo una consistenza discretamente oleosa che non obbliga a "masticarla". La componente etilica è decisamente in evidenza, soprattutto per i primi sorsi, con il bourbon che riscalda subito senza tuttavia arrivare a bruciare. Troviamo soprattutto caffè, cioccolato ed orzo tostato, mentre in secondo piano rimane il dolce della vaniglia e del cioccolato bianco a bilanciare la bevuta; l'acidità del caffè alleggerisce un po' il carico a fine corsa, concedendo qualche breve istante di pausa in preparazione allo splendido retrogusto, un lungo ed appagante abbraccio etilico ricco di bourbon, caffè, cioccolato ed un tocco di vaniglia.
Una imperial stout che rincuora e che si sorseggia con calma ed enorme soddisfazione, prenotandovi l'intera serata, dilatando il tempo per poi accompagnarvi direttamente verso le lenzuola. Piccola postilla dedicata  "all'hype": è giustificato?  La KBS è uno dei primi esempi di Imperial Stout barricata ed è ovviamente diventata una sorta di benchmark dello stile col quale confrontarsi; ma ad oltre dieci anni dalla sua nascita esistono sul mercato molte altre Imperial Stout a lei paragonabili o migliori che, sopratutto, si possono reperire con maggiore facilità. Personalmente non mi metterei in coda di notte al freddo per acquistarla, e non lo farei per nessuna birra al mondo:  ma visto che negli Stati Uniti il "geekismo" ci fa spesso vedere gente accampata di notte fuori dai negozi per i saldi, per acquistare telefoni in anteprima e quanto altro, allora anche in campo birrario questi comporamenti hanno il loro (non)senso.
Formato: 35.5 cl., alc. 11.2%, IBU 70, imbott. 11/02/2015, pagata 9.50 Euro (beershop, Italia)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 19 settembre 2015

Extraomnes Bloed

Arriva a fine 2013 la prima birra "alla frutta" di Extraomnes: Bloed, ovvero "sangue" in fiammingo, questo il nome scelto per una birra realizzata, tra l'altro, con malto di segale,  lievito saison  e l'aggiunta del 22% di ciliegie provenienti dalla Valpolicella. Una one-shot che non è stata più ripetuta, affinata per circa quattro mesi in barriques usate per un totale di circa 700 bottiglie prodotte. 
Il suo colore, molto bello, ricorda effettivamente il sangue o se preferite è rosso rubino, con sgargianti sfumature ambrate ed arancio; la schiuma bianca, leggermente macchiata di rosa, è un po' grossolana e svanisce piuttosto rapidamente. L'aroma, oltre alle ovvie ciliegie, è espressione dei lieviti selvaggi naturalmente presenti sulla buccia del frutto che, ad un anno e mezzo dall'imbottigliamento, si fanno più evidenti: il suo profilo "funky" regala note di cantina, di sudore, qualche sentore di formaggio e di acido lattico, accompagnate dall'asprezza di frutto rossi acerbi (ribes),  uva, legno bagnato e una leggerissima speziatura.  La bevuta inizia piuttosto aspra (frutti rossi, acido lattico) per poi essere rapidamente bilanciata dalle note zuccherine e dolci di ciliegia, fragola e frutti di bosco (more, lamponi), uva matura. Accanto alla frutta convivono le note funky/rustiche, legnose ed una lieve componente acetica, mai fastidiosa, che si avverte quando la birra si scalda; l'alcool (7.7%) è molto ben nascosto con un'ottima secchezza finale ed una lieve nota amaricante lattica che la fanno alla fine risultare dissetante e rinfrescante. 
Il corpo è medio con una carbonazione piuttosto contenuta, mentre la sensazione palatale è morbida con un'ottima scorrevolezza.  
Il risultato, piuttosto interessante, conduce a tratti in territorio vinoso (pensate ad un rosé) e, con le dovute, proporzioni, nel mondo delle fermentazione spontanee  e dei lambic alla frutta (kriek).  La discreta complessità non preclude assolutamente la facilità di bevuta e, sebbene in bocca non ci sia l'eleganza e la pulizia di una (cito a caso) kriek di Cantillon o Drie Fonteinen, anche la Bloed si ritaglia il suo spazio con discrezione.   
Probabile  che qualche bottiglia in giro si trovi ancora; non ho idea se verrà mai nuovamente prodotta, nel caso potrebbe anche valer la pena dimenticarne qualcuna in cantina per poter seguire nel corso del tempo il lavoro dei lieviti selvaggi portati in dote dalle ciliegie. 
Formato: 33 cl., alc. 7.7%, lotto 326 13, scad. 30/11/2016, pagata 7.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 18 settembre 2015

Brussels Beer Project Dark Sister

Ricordate il Brussels Beer Project del quale vi avevo parlato all’incirca un anno fa ? Due giovani intraprendenti homebrewers, Olivier da Brauwere e Sébastien Morvan , che hanno lanciato una beerfirm attraverso il crowfunding e che lasciano decidere ai social network quale birra mettere in produzione facendo assaggiare loro, nel corso di alcune degustazioni a Brussels, la migliore di quattro prototipi realizzati con le pentole in garage. La birra vincitrice (la IPA chiamata Delta) è stata poi commercializzata e prodotta presso gli impianti del birrificio Anders di Halen. A questa si sono poi aggiunte Grosse Bertha (una belgian hefeweizen), Dark Sister (Black IPA), Babylone (bitter), Cheeky Kamille (una Pale Ale aromatizzata alla camomilla),  Babeleir de Bretagne (Oyster Stout) e Babeleir de Saint-Jean (imperial porter al cioccolato). 
A fine 2014 è stata lanciata un’altra campagna di crowfunding che si è chiusa il 14 febbraio 2015: milleducento persone hanno versato 160 Euro a testa garantendosi in cambio 12 birre l’anno per il resto della loro vita. Le autorità della capitale belga hanno inoltre concesso le autorizzazioni necessarie alla costruzione del birrificio nei locali (500m²) in Rue Antoine Dansaert 188; siamo a circa 1,5 km distanza da Cantillon, tanto per darvi un’idea. Entro fine 2015 il centro di Brussels avrà dunque il suo terzo birrificio, dopo Cantillon e De la Senne. L’impianto sarà un Braukon dalla capacità di 10 ettolitri, con un l’obiettivo dichiarato di produrre 600.000 bottiglie l’anno effettuando circa duecento cotte. Per l’occasione Olivier da Brauwere e Sébastien Morvan hanno invitato a bordo del progetto anche  Antoine Dubois, birraio e biologo laureato all’Università di Lovanio. 
Parliamo ora di Dark Sister, la “sorella nera” della IPA Delta, la birra del debutto di Brussels Beer Project: le due condividono la stessa luppolatura  (Challenge, Smaragd e Citra) mentre per la versione scura vengono utilizzati malti Pale, Cara e Chocolate ed un lievito di tipo saison. Debutta ufficialmente il 6 febbraio 2014 al Via Via Cafè di Brussels; è anch'essa prodotta presso la Brouwerij Anders. 
All’aspetto è di color marrone scuro  con intensi riflessi bordeaux e una compatta testa di schiuma beige, fine e cremosa, molto persistente. Nonostante l’etichetta indichi che è stato utilizzato un lievito di tipo saison sono i luppoli a dominare in lungo ed in largo: il naso è pulito ed ancora fresco e regala la classica macedonia di frutta che si compone di lychee, ananas, melone retato, pompelmo e qualche sentore di fragola ed aghi di pino; per avvertire qualche cenno di “black” bisogna attendere che la birra si scaldi ed ecco in sottofondo la leggerissima presenza di tostature e di caffè.  Il gusto ricalca in fotocopia quanto anticipato all’aroma: la bevuta è ricca di frutta tropicale ed inizia dolce per poi virare progressivamente in un amaro che si sviluppa tra note resinose e terrose, presenti anche nell’intenso retrogusto. Pulizia ed equilibrio non mancano, e la bevuta è agile ed agevole, grazie ad un mouthfeel morbido e scorrevole al tempo stesso; il corpo è medio.  Anche al palato  le tostature sono (correttamente) molto in secondo piano,  avvertendosi solamente con un po’ di concentrazione e quando la birra si scalda. 
Non c’è ovviamente traccia di tradizione belga in questa “Dark Sister” che rimane comunque una degnissima rappresentante della categoria Black IPA, ovvero una IPA colorata di nero, senza sconfinare nel tostato e nel territorio delle stout/porter molto luppolate. Personalmente non è certamente quello che andrei a cercare da bere in territorio belga, ma se te la trovi al supermercato a due euro che fai..  non la provi ?
Formato: 33 cl., alc. 6.66%, IBU 45, scad. 23/06/2017, pagata 2.08 Euro (supermercato, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 17 settembre 2015

Boulevard Smokestack Series - Tank 7 Farmhouse Ale

Homebrewer molto precoce, John McDonald inizia i primi esperimenti quando aveva appena dodici anni nel seminterrato a casa di un amico per poi vendere illegalmente la birra ai coetanei al drive-in. La gioventù la trascorre invece in modo più “tranquillo”   studiando arte al college del Kansas e iniziando poi a lavorare come carpentiere; lui e la moglie Anne vincono un viaggio in Europa che John utilizza per approfondire la propria conoscenza brassicola; l’epifania, secondo le sue stesse parole, avviene in un bar a Parigi, bevendo una Belgian Ale. Ritorna negli Stati Uniti determinato ad aprire un birrificio ma almeno una ventina di banche gli chiudono la porta in faccia, considerandolo un pazzo che voleva mettersi in competizione con Anheuser-Busch, da sempre dominatrice nel Missouri. Centomila dollari  gli vengono prestati dal padre (“ti anticipo l’eredità” disse) ed altrettanti provengono dalla vendita di una casa che John aveva acquistato dieci anni prima per 7.000 dollari e poi completamente ristrutturata. 
E’ il novembre del 1989 quando debutta la Boulevard Brewing Company con un impianto usato proveniente dalla Baviera; McDonald consegna personalmente con il proprio pick-up Isuzu un fusto di Unfiltered Wheat Beer alla Twin City Tavern di Kansas City. I primi tre clienti ai quali viene offerta non sembrano particolarmente entusiasti di quel liquido un po’ torbido dalla generosa schiuma bianca: “uno di loro si rifiutò di assaggiarla– racconta McDonald – e gli altri due, dopo averne bevuto un sorso, allontanarono il bicchiere e uno di loro mi disse che era la peggior birra che avesse mai bevuto”. 
La storia è poi continuata in maniera diversa e dai 6.000 barili che rappresentavano il primo Business Plan di Boulevard si è arrivati a  125 dipendenti, una capacità annua di 600.000 barili, e circa 190.000 prodotti (2014).  Boulevard è oggi il secondo maggior produttore del Missouri, dopo AB-InBev, e il più grande birrificio “craft” di tutto il mid-west americano. I risultati vengono ottenuti attraverso le espansioni del 1999, 2003 e soprattutto quella da venti milioni di dollari progettata nel 2005-2006;  ma il cambiamento più rilevante nella storia di Boulevard è indubbiamente quello annunciato il  17 ottobre 2013, quando McDonald  comunica di aver ceduto la proprietà ai belgi della Duvel-Moortgat per una cifra che non è mai stata resa pubblica ma che si stima essere superiore ai cento milioni di dollari. “I miei tre figli (nati negli anni ’90) sono ancora troppo giovani, io ho già 60 anni e  volevo togliermi dalle spalle il peso di dover prendere tutte le principali decisioni”; dopo aver meditato sull’opportunità di venderlo ai propri dipendenti, McDonald lo offre invece ai belgi di Duvel , birrificio che aveva già visitato diverse volte come “turista” e già proprietario di un altro pezzo di America, la Ommegang Brewery. Il timone passa quindi nelle mani di Simon Thorpe , CEO della Duvel Moortgat, mentre  McDonald mantiene comunque un ruolo direttivo e soprattutto di “ambasciatore” del marchio in tutto il mondo.  Oltre che in 20 stati americani, Boulevard è oggi distribuita anche in Inghilterra, Belgio, Olanda e nei paesi scandinavi. 
Facciamo adesso un passo indietro al 2007, quando l’aumento della capacità produttiva permette a Boulevard di espandere il proprio portfolio.  Nasce la Smokestack Series, una serie di birre inizialmente stagionali, disponibili prevalentemente nel formato 75 cl., solitamente dall’elevato contenuto alcolico e in alcuni casi affinate in botte. Oltre a queste vi sono anche alcune “Limited Release”  messe in vendita una volta l’anno, come ad esempio la Saison-Brett  e la Bourbon Barrel Quad. 
Dal 1999 Head Brewer di Boulevard è il belga Steven Pauwels; dopo alcuni lavoretti estivi nel birrificio della propria città, Steven ha lavorato al Domus Brewpub di Lovanio ed alla Riva di Dentergem (oggi di proprietà Duvel) prima di rispondere ad un annuncio di lavoro e volare negli Stati Uniti. Tra le tante ricette elaborate da Steven a Kansas City c’è anche quella della Tank 7 una Saison ben luppolata e credo  ispirata alla Dupont. Prende il suo nome da una vasca un po’ “birichina” (la numero 7)  nella quale si trovava a fermentare; inizialmente questa saison veniva prodotta solamente per realizzare la Saison-Brett (2008), ma visto che si trattava di un'ottima birra anche senza i brettanomiceti, perché non commercializzarla? La sua ricetta è poi stata leggermente variata per differenziarla un po’ dalla sorella brettata; debutta nel 2009 con una ricetta piuttosto semplice che prevede, oltre al lievito belga della casa, malto Pale, frumento maltato, fiocchi di mais, luppoli Magnum, Bravo ed Amarillo.
Il suo colore è arancio velato impreziosito da qualche venatura dorata; impeccabile la schiuma, bianca, compatta, cremosa e "croccante", dall'ottima persistenza. Aroma pulitissimo e piuttosto elegante che si compone di polpa e scorza d'arancia, pepe bianco, mandarino, ananas, albicocca e passion fruit; in sottofondo sentori floreali (geranio) e lievemente aspri di frutta acerba. Le ottime premesse "olfattive" trovano pieno riscontro in bocca in una birra morbida e dal corpo medio che ha solo la pecca di una carbonazione un po' sottotono per lo stile. I malti regalano fragranti note di pane, fetta biscottata  qualche accenno di miele, seguite da quelle fruttate di albicocca, arancia e qualche accenno di banana. Esemplare la pulizia ed esemplare anche il bilanciamento, nel finale amaro terroso e leggermente zesty nel quale ritorna il pepe bianco dell'aroma ed una delicata speziatura che chiama in causa anche il coriandolo. La bevuta è ruspante e rustica quanto basta per non perdere mai una certa eleganza, e nonostante un contenuto alcolico considerevole (8.5%) risulta alla fine rinfrescante e dissetante grazie anche ad una lieve acidità e ad un'ottima secchezza. Lievito e luppoli lavorano in perfetta sintonia senza che nessuno prevarichi l'altro, consentendosi vicendevolmente di esprimere le proprie caratteristiche; e quando s'incontrano birre così, c'è solo da levarsi il cappello e da berne con enorme soddisfazione. 
Formato: 35.5 cl., alc. 8.5%, IBU 38, lotto 010115 0751 A, scad. 01/2016, pagata 2.20 Euro (drink store, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 16 settembre 2015

Tartaruga Super Fresca

L’indirizzo indica la cittadina di Soignies, Belgio (provincia dell'Hainaut) ma basta afferrare la bottiglia per incontrare molta Italia. Nome del produttore (Tartaruga Fine Brewing) e della birra (Super Fresca) parlano infatti la nostra lingua e dietro a questa beerfirm di recente apertura ci sono Patrizio e Matteo Stefanelli, padre e figlio separati da una trentina d’anni d’età ma accomunati dalla reciproca passione per la birra.  Di origine italiana ma (credo) da anni residenti in Belgio, hanno lavorato nei ritagli di tempo (Matteo è ingegnere alla centrale nucleare di Tihange) per un paio d’anni prima  ad arrivare alla realizzazione della loro prima birra, chiamata  Super Fresca. 
La beerfirm non nasconde il proprio amore per il luppolo e non a caso il primo lotto di questa birra è stato prodotto presso gli impianti di De Ranke, una garanzia quando si parla di “belgio luppolato”.  Tremilaseicento litri imbottigliati lo scorso febbraio e presentati per la prima volta al pubblico nel corso dell’evento  Maître de l’Orge organizzato da Comptoirs de Boissons.  Oltre a Super Fresca sono già in fase di elaborazione altre birre che, da quanto leggo, saranno prodotte negli impianti di De Ranke e di NovaBirra. La ricetta di questa “hoppy blonde ale”  prevede malti Pilsner, Pale Ale, frumento maltato ed una luppolatura di Galaxy e Citra. 
Nel bicchiere si presenta velata e dorata con sfumature arancio ed un cappello di schiuma bianca, abbastanza fine e cremosa, dalla buona persistenza. Al naso si nota un’ottima pulizia mentre, al di là del nome, la freschezza a sette mesi dall’imbottigliamento non è ovviamente al top pur mantenendosi su livelli ancora accettabili; c’è un elegante bouquet fruttato che ospita mandarino, arancio e pompelmo, ananas, mango, lychee e passion fruit.  
In bocca c’è una bella intensità che richiama le note agrumate e tropicali dell’aroma, su una base di pane, biscotto e lievissimo caramello; bene anche la sensazione palatale, anche se volendo si potrebbe alleggerirla di un pelo a livello “tattile” per renderla ancora più scorrevole. La bevuta poi vira progressivamente in territorio amaro, senza mai perdere di vista l’eleganza, sino ad un finale erbaceo e resinoso con qualche presenza zesty.  
Devo dire che leggendo “hoppy blonde ale” in etichetta mi aspettavo nel bicchiere una sorta di Belgian Ale generosamente luppolata ispirata proprio a quelle di De Ranke o di Brasserie De la Senne. Il lievito neutro utilizzato in questo caso lascia i luppoli in bella evidenza senza caratterizzare la birra: il risultato finale si colloca quindi a metà strada tra una APA ed una IPA, peraltro molto pulita e ben fatta. 
Se tutto ciò rappresenta in effetti una ventata novità da parte di un produttore belga, lo stesso non si può certo dire per il resto del mondo della cosiddetta "birra artigianale", dove questi due stili spopolano in lungo ed in largo. Una produzione quindi "utile" soprattutto al mercato domestico,  in quanto è ovviamente meglio una IPA fresca fatta vicino casa di una che attraversa l’oceano arrivando nella migliore delle ipotesi dopo 3-4 mesi dall’imbottigliamento. 
Chi invece non risiede in Belgio ma ama le birre belghe non vi troverà in essa nessun legame con quella straordinaria tradizione brassicola; non si tratta di una rivisitazione in chiave moderna di una Belgian Ale ma, come detto, di una APA/IPA molto godibile nella sua apolidia. 
Bene l’avvertenza in etichetta di “berla fresca senza invecchiarla" che però contraddice la data di scadenza posta a due anni dall’imbottigliamento.
Formato: 75 cl., alc. 6%, IBU 35, lotto 2T16FEB15, scad. 09/02/2017, pagata 5.30 Euro (food store,  Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 15 settembre 2015

Weyerbacher Old Heathen Imperial Stout

E’ Dan Weirback  a fondare la Weyerbacher Brewing Company nel 1995 nella città di Easton, Pennsylvania: il nome è ovviamente la leggera storpiatura del suo cognome di origine tedesca avvenuta nel corso del tempo dall’altra parte dell’oceano atlantico. Operoso homebrewer dalla metà degli anni ‘80 ed appassionato beer hunter, Daniel ha alle sue spalle un passato da co-titolare di un’azienda che si occupava di fare manutenzione alle piscine e un’altra che distribuiva snacks e patatine fritte in sacchetto.  Nel 1993 è alla ricerca di un nuovo business da intraprendere ed è una vacanza in Vermont assieme alla moglie Sue (e una sosta alla Long Trail Brewery) ad aiutarlo nella decisione: tempo due anni (e trecentomila dollari di finanziamenti) ed è già operativo ad Easton il birrificio Weyerbacher, con l’aiuto del partner Joseph T. Nanovic, oggi ancora tra gli azionisti di minoranza. 
La produzione – grazie ad un impianto di seconda mano -  parte già ad  agosto 1995 con due birre – ora abbandonate – che per quel tempo volevano volutamente rappresentare una novità nel panorama “craft” americano: una Pale Ale ed una ESB tipicamente inglesi che tuttavia non riscuotono alla lunga grande successo e che mettono un po’ in crisi gli affari. Nel 1997, per cercare di farci notare in mezzo a tutti quei  birrifici che facevano American Pale Ale cercando di imitare Sierra Nevada”, Weirback decide di alzare l’asticella concentrandosi sulla produzione di birre più alcoliche; si parte con una Raspberry Imperial Stout  - idea elaborata nel passato da homebrewer - seguita dall’(english) barley wine “Blithering Idiot” che diventerà in seguito una della birre più apprezzate del birrificio. 
Dal 1998 assieme al birrificio è anche operativo un brewpub, rendendo la vita di Dan piuttosto intensa:  in birrificio dal mattino presto sino a mezzogiorno, in cucina al brewpub dal pomeriggio a tarda sera; nel 2001 Weyerbacher trasloca in una nuova location di dimensioni pressoché identiche ma con una disposizione degli spazi molto più funzionale alla produzione di birra. Viene installato un impianto produttivo più capiente (da 10 a 25 bbl) proveniente dalla Victory Brewing Co., una nuova linea per l’imbottigliamento e, visto che le vendite iniziano a prendere piede anche al di fuori della Pennsylvania, viene chiuso il brewpub per meglio concentrarsi su fusti e bottiglie, mercato che ormai occupa i due terzi della capacità produttiva. 
Sulla decisione di produrre soprattutto birre “importanti e dall’alto contenuto alcolico” non si torna più indietro: Dan si reca spesso in Belgio a “studiare” le Strong Ales e le grandi birre trappiste per poi ritornare negli Stati Uniti a realizzare una Tripel chiamata Merry Monks e soprattutto la strong ale “Quad”,  che leggo essere stata la prima “Quadrupel” americana a finire in una bottiglia. Sarà vero? 
Degna di nota anche la popolarissima Double Simcoe IPA, bevuta quattro anni fa, che dovrebbe essere stata la prima Double IPA Single Hop “mai prodotta al mondo”. La restante storia di Weyerbacher è fatta di ulteriori espansioni (2007, impianto da 40 bbl) e dell’inizio dei programmi di invecchiamento in botte al quale sono state sottoposte molte birre; la produzione nel 2013 ha superato i 17.000 barili, anno nel quale è avvenuto anche un radicale re-styling di tutte le etichette. Vicepresidente di Weyerbacher è Barbara Lampe mentre Head Brewer, dal 2006, è Chris Wilson. 
Sorprende  invece un po’ il fatto che l’imperial stout di un birrificio che dichiara apertamente di voler produrre “big beers” abbia una gradazione alcolica (8%) tutto sommato contenuta e comunque lontana dal livello delle sue compagne di categoria proposte da molti altri birrifici “craft” americani; il tutto va ovviamente a favore della fruibilità e della facilità di bevuta. 
"Old Heathen”, ovvero “il vecchio pagano”: questo il nome scelto per una birra prodotta per la prima volta nel 2001 con sette varietà di malti e due di luppolo;  attualmente il sito del birrificio la elenca fra le birre “retired”, ovvero non più in produzione. La sua versione barricata in botti ex-Bourbon si chiama Heresy. 
Nel bicchiere è praticamente nera e impenetrabile alla luce, con una densa e cremosa testa di schiuma color nocciola dall’ottima persistenza.  Allo splendido aspetto fanno seguito i profumi di vaniglia, fruit cake, caramello “bruciato”, orzo tostato e frutti di bosco ma la loro intensità crolla drammaticamente una volta che la schiuma si è dissipata. In bocca c’è un buon equilibrio tra il dolce (caramello, melassa, qualche accenno di uvetta) e l’amaro delle tostature e del caffè. La sua natura di Imperial Stout mansueta si rivela in una consistenza palatale che sacrifica la morbidezza per privilegiare la scorrevolezza: ma in presenza di così poche bollicine forse un po’ più di oleosità avrebbe giovato. La componente etilica è piuttosto discreta e ben dosata, ma la chiusura lievemente salmastra ed astringente non è purtroppo impeccabile e “guasta” un po’ la bevuta interrompendo di fatto la continuità tra gusto e retrogusto: il finale risulta così piuttosto corto e lascia un pochino insoddisfatti. Nonostante l’aroma un po’ sottotono e la pulizia del gusto tutt’altro che esemplare, questa Old Heathen risulta essere un’imperial stout molto accessibile e ben bilanciata e quindi potrebbe rappresentare una buona porta d’ingresso a chi si vuole avvicinare per la prima volta allo stile senza necessariamente impegnarsi da subito in bevute troppo alcoliche o asfaltature di catrame nero.  
Il birrificio la consiglia abbinata a stufati di carne, ostriche, caviale, arrosti di carne e, ovviamente, dolci a base di cioccolato, dichiarandola  anche adatta ad invecchiamenti e capace di migliorare con il tempo; il salmastro che s’inizia ad avvertire in questa bottiglia non mi fa però rimpiangere di averla bevuta dopo solo un anno dall’imbottigliamento, prima che fosse troppo tardi.
Formato: 35.5 cl., alc. 8%, imbott. 30/04/2014, scad. non leggibile, pagata 4.50 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.