giovedì 30 luglio 2015

Against the Grain Fruitis The Farmer Beescake

Ritorna Against the Grain, il birrificio del Kentucky incontrato qualche mese fa e fondato a Louisville nell’ottobre 2011 da quattro soci: Sam Cruz, Jerry Gnagy, Adam Watson e Andrew Ott. Il birrificio con annesso ristorante viene inaugurato nella suggestiva location all’interno del Slugger Field, uno stadio di Baseball (Minor League). I piani di espansione sono già in corso, con la costruzione di un nuovo birrificio in uno spazio di 2300 metri quadrati, con annesso magazzino e tasting room a Lousville, per aumentare del 400% la capacità produttiva. 
Ad ottobre 2013 il birrificio annuncia la nascita della “Funked Up Series”, ovvero una linea dedicata alle fermentazioni con lieviti selvaggi. La inaugurano una Saison brettata chiamata “We brett it wrong”, una Saison brettata ai lamponi  (Chris Framboise) e Scorched Monk, una sour ale affumicata ed invecchiata in botti di rovere francesi realizzata assieme a De Struise.  
La serie viene poi allargata con molte altre produzioni, spesso one-shot o collaborazioni che non fanno altro che espandere ulteriormente il già vasto portfolio di Against the Grain. Alla lista aggiungiamo la birra di oggi: Fruitis The Farmer Beescake
Si tratta di una saison prodotta con malti Pilsner, Vienna e Monaco, farro e miele; la fermentazione avviene con un lievito tipo saison  e poi la birra viene messa a maturare per sei mesi in tini d’acciaio, dove vengono aggiunti succo di meloni cantalupo e verdi (poponi) ed inoculati i Brettanomyces Bruxenellenis. Al momento dell'imbottigliamento viene poi aggiunto nuovo lievito, altro miele e succo di melone.
Leggero gushing all'apertura, ma nulla di incontrollabile, e birra che nel bicchiere si presenta di color arancio velato, con qualche venatura dorata; la pannosa schiuma biancastra si forma con generosità ed ha un'ottima persistenza. L'aroma non è particolarmente complesso ma offre una ancora una buona freschezza ed una bella intensità; accanto ai sentori floreali e fruttati (melone, arancio e pesca) c'è la discreta componente zuccherina e, last but not least, quella brettata di acido lattico. La sensazione in bocca è pressoché perfetta: corpo medio, carbonazione elevata per una bevuta vivace e scorrevole, che solletica costantemente il palato. La bevuta parte piuttosto dolce, con note di miele e fette biscottate, pesca, melone e polpa d'arancio, qualche accenno di canditi; a riportare l'asticella in equilibrio ci sono l'acidità lattica dei brettanomiceti (ma avverto anche una lievissima punta di aceto di mela) e una chiusura amara rusticamente terrosa e lievemente pepata. L'alcool (8%) è davvero molto ben celato con il risultato di una birra che inizia (forse un po' troppo) dolce e zuccherina per poi diventare - sorprendentemente - quasi rinfrescante: le manca solamente un po' più di secchezza per chiudere il cerchio in maniera perfetta, ma è un vizio perdonabile. Saison molto gustosa e pulita, intensa, che si fa ricordare.
Formato: 75 cl., alc. 8%, IBU 25.3, lotto e scadenza non riportati, pagata 15.47 Euro (beershop, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 29 luglio 2015

Birra del Carrobiolo American Pale Ale (O.G. 1047)

Il  2014 si è chiuso con parecchie novità per il “Piccolo Opificio Brassicolo del Carrobiolo – Fermentum”, fondato da alcuni soci nel 2008 e guidato dal birraio Pietro Fontana. Lo scorso novembre, non lontano dalla propria sede nei locali all’interno del convento dei Padri Barnabiti di Monza, in Piazza Carrobiolo,  è stato inaugurato il nuovo brewpub con cucina annessa; nella bella e centrale piazza Indipendenza potrete quindi pranzare e cenare accompagnando le pietanze con la buone birre del Carrobiolo che vengono prodotte nel piano interrato e nei locali adiacenti. Gli impianti originali all’interno del Convento resteranno comunque in funzione e verranno presumibilmente utilizzati per collaborazioni, produzioni sperimentali e  one-shot. 
Per l’occasione è stato anche effettuato un completo re-styling delle etichette che, personalmente, non mi rende molto contento: le trovo piuttosto  fredde ed asettiche ed auspico un ritorno a quelle precedenti. Se qualcuno ha voglia di fare una petizione on-line, io firmo..  :)  
L’ultima novità, datata 26 novembre 2014, riguarda la  presentazione del libro “Birra Sommelier”, un racconto sulla storia e la cultura della birra narrata proprio da Pietro Fontana ed illustrato dalle foto di Fabio Petroni; la sezione relativa agli abbinamenti gastronomici e alle ricette di cucina è stata curata dallo chef Giovanni Ruggieri. 
Ancora a corto di novità è invece il sito internet del birrificio, che riporta ancora oggi le birre nelle vecchie etichette e, soprattutto, non comprende le ultime novità. Tra queste credo si trovi l'American Pale Ale  (O.G. 1047) della quale non ho praticamente trovato nessuna informazione in rete, se non che sarebbe prodotta utilizzando (anche) il classico luppolo Cascade. 
Di colore dorato carico, velato, dispensa con troppa generosità  - la foto illustra piuttosto bene - una schiuma pannosa e biancastra che riempie subito il bicchiere ed obbliga ad un lunga attesa prima di poter vuotare i trentatré centilitri nel bicchiere. L'aroma, benché pulito, è d'intensità piuttosto bassa: avverto soprattutto sentori floreali e, una volta che la schiuma si è fatta da parte, quelli della scorza d'arancio, del pompelmo e del mandarino. L'eccesso di schiuma è preludio, al palato, di una carbonazione elevatissima che inizialmente quasi inibisce la percezione dei sapori: anche qui ci vuole una buona dose di pazienza per attendere che le bollicine escano un po' di scena e scoprire una bella intensità per un'American Pale Ale dall'ottima intensità per un ABV di 4.8%. Le lievi note di polpa d'arancia e di miele danno il giusto dolce a supporto dell'amaro (pompelmo, scorza d'arancia), presente sin da subito e protagonista della chiusura, con qualche accenno resinoso. Una discreta APA, semplice, pulita e secca, lontana da pericolose derive caramellose ma purtroppo in una bottiglia penalizzata  dai pochi profumi e afflitta da una carbonazione davvero esagerata.
Formato: 33 cl., alc. 4.8%, lotto i1507, scad. 12/2015, pagata 3.90 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 28 luglio 2015

AleBrowar Smoky Joe Fan Edition

Secondo appuntamento con la beefirm polacca AleBrowar, presentatavi in questa occasione. Attiva da maggio 2012,  sede operativa a Lebork, ottanta chilometri da Danzica e  produzione a Sztum (150 chilometri  di distanza) presso  la il birrificio Gosciszewo. I titolari sono  Bartek Napieraj,  Michał Saks e Arkadiusz ‘Arek’ Wenta. 
Per quel che valgono le classifiche di Ratebeer, la beerfirm parte molto bene: nell’anno del debutto  (2012) viene eletta miglior nuovo "birrificio" polacco e in seguito miglior "birrificio" (le virgolette sono mie, visto che non ha impianti) polacco in assoluto del 2014.  L’ultima classifica dei migliori 100 birrifici al mondo secondo Ratebeer ospita anche tre "birrifici" polacchi, ed uno di questi è AleBrowar. Il loro slogan (Hop Heads) la dice lunga sulle birre che vengono prodotte, ma tra le varie declinazioni di IPA c’è spazio anche per qualcosa di diverso. 
Nel 2013 la beerfirm chiama a raccolta i propri “fan” per un sondaggio on-line: viene chiesto loro quale “variante” di una delle birre prodotte vorrebbero veder realizzata. La vincitrice è la (extra) stout della casa chiamata Smoky Joe:  i “fan” ne vorrebbero una versione “torbata” anziché affumicata. Ad inizio 2014 la precedente Smoky Joe, che nel gioco del beer-rating si beccava un 97/100 su Ratebeer, viene mandata in pensione e viene sostituita dalla AleBrowar Smoky Joe Fan Edition, attualmente posizionata a 98/100. 
La nuova ricetta contempla frumento maltato, avena, orzo tostato, malti Carapils, Chocolate e torbato (45 ppm); il lievito è Safale S-04 mentre i luppoli utilizzati sono Challenger e Fuggles; se Google ha tradotto correttamente dal polacco, in sostanza è avvenuta la sostituzione del malto affumicato (legno di faggio) con quello torbato. 
Il suo colore è un marrone molto scuro, ai confini del nero; nel bicchiere si forma una cremosa e compatta schiuma beige, dalla buona persistenza. L’aroma – di buona intensità - è dominato da profumi che ricordano la pancetta affumicata,  c’è solo una lieve componente salmastra in sottofondo. Il gusto non brilla particolarmente di pulito: s’avverte una generale sensazione di torrefatto, poco elegante, alla quale s’affiancano le note di carne affumicata. La bevuta non presenta particolari difficoltà anche perché la consistenza di questa stout è piuttosto (troppo) acquosa, risultando un po’ slegata e poco morbida. Le bollicine sono poche, la chiusura è leggermente astringente con una suggestione di caffè, tostature ed un timido warming etilico. Definitivamente più interessante in bocca che al naso, questa Smoky Joe ha una buona intensità ma, a mio vedere, pecca profondamente nell'eleganza. I sapori ci sono, ma la bottiglia da me bevuta risulta piuttosto grezza e rozza, con tanto lavoro da fare per pulire, raffinare e smussare le asperità: da sistemare anche il mouthfeel, che in questa occasione si è dimostrato un po' troppo acquoso e slegato.
In conclusione mi diverto a gettare un sassolino nella divertente mare del beer-rating: se questa birra è un 98/100, che cosa dovremmo dare (affumicato o no) a questa, questa oppure a questa
Formato: 50 cl., alc. 6.2%, IBU 45, scad. 06/07/2015, pagata 4.50 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 27 luglio 2015

Birrificio Rurale Hop Art 2015

Più o meno un anno fa ero a parlarvi dell'edizione 2014 della Hop Art del Birrificio Rurale. Copio&incollo quanto già detto a suo tempo: si tratta di una birra pensata appositamente per la stagione estiva, “dedicata di anno in anno al miglior luppolo trovato durante le selezioni dei nuovi raccolti che fatte presso i produttori;  non è riferita ad uno stile fisso ma varia in funzione del luppolo scelto, il suo profilo rimane sempre quella di una birra rinfrescante e beverina, mai eccessiva e caratterizzata dalla parte più nobile del luppolo scelto"
La prima Hop Art prodotta nel 2011 era un Golden Ale luppolata con Ahtanum e Sorachi Ace;  nel 2013 fu la volta del Mosaic, protagonista di una single-hop, mentre lo scorso anno furono utilizzati Mosaic ed Equinox a dare forma a quello che è stato lo stile-novità del 2014 in Italia, le Session IPA: la birra risultò anche essere una delle migliori bevute italiane sul blog.
Lo scorso maggio viene annunciata la Hop Art 2015: squadra vincente non si cambia?  Quasi, visto che il risultato è ancora una Session IPA, (la moda non è ancora passata) e oltre al ritorno dell'Equinox c'è il classico Simcoe ad accompagnare un altro luppolo americano, sviluppato nel 1974 dalla Ministero dell'Agricoltura statunitense, chiamato Comet.
Leggera modifica in etichetta, che quest'anno riporta chiaramente la scritta "Session India Pale Ale" al posto della generica parola "birra". Nel bicchiere arriva dorata, leggermente velata, formando un bianco cappello di schiuma cremoso, molto compatto e molto persistente.
Il bouquet aromatico è molto ben assemblato, bilanciando i profumi dolci di frutta tropicale (ananas, mango, papaya) con quelli degli agrumi (cedro, limone, mandarino); sono le variazioni di temperatura a far sì che predomini una componente rispetto all'altra. Ottima la pulizia, e benissimo anche intensità e freschezza. Praticamente perfetta la sensazione palatale, con il giusto livello di bollicine e la necessaria leggerezza e vivacità per potersi candidare al ruolo di session beer estiva. Ed il gusto è piacione e ruffiano al punto giusto, senza mai sconfinare nella cafoneria, dispensando frutta in abbondanza coscienziosamente distribuita tra agrumi (limone, cedro, pompelmo) e tropicale (ananas, mango/pesca). La base maltata (crackers, accenno di miele) fornisce il necessario supporto alla generosa luppolatura che trova il suo punto si sfogo nell'amaro finale, spiccatamente zesty ed intenso quanto basta per proseguire ad oltranza la bevuta. Una session beer molto pulita e profumata, rinfrescante e dissetante, impeccabile nella sua semplicità, che ha l'unico difetto, se così si può dire, di durare troppo poco nel bicchiere. L'edizione 2015 mi sembra un po' più equilibrata rispetto alla 2014, che mostrava invece un profilo agrumato molto più sfacciato e predominante. L'appuntamento - direi ormai un must estivo - è già fissato per l'edizione 2016. 
Formato: 33 cl., alc. 4.4%, lotto 258, scad. 19/03/2016, pagata 3,80 Euro (foodstore, Italia)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

domenica 26 luglio 2015

Mad Hatter Nightmare On Bold Street

Da Livepool ecco il debutto sul blog della Mad Hatter Brewing Company, aperta nel febbraio 2013 da Gareth "Gaz" Matthews and Sue Starling; l'esordio avviene con un impianto da 1,5 barili nel sobborgo di Toxteh, ben presto insufficiente a soddisfare la domanda e già sostituito da uno di 2.5 barili che viene installato non molto distante nei nuovi locali all'incrocio tra Jamaica e Watkinson Street; inizialmente viene anche aperta una piccola taproom, che però è stata già chiusa.
Ma facciamo un passo indietro: per Gaz l'homebrewing è qualcosa di familiare visto che suo fratello maggiore produceva la birra in casa e riforniva feste, amici e conoscenti. Non passa molto tempo che anche Gaz inizia a birrificare in garage; i suoi primi sforzi sono orientati a replicare la Theakston's Old Peculier, quella che a quel tempo lui reputava essere la miglior birra al mondo. 
Ottiene una laurea in criminologia ma la mancanza di sbocchi professionali lo riportano alla birra, nel tentativo di ricavarci una professione. E' sua moglie Sue a fargli il regalo di compleanno perfetto: lo benda e lo porta nei locali vuoti che lei stessa ha preso in affitto per lui in Upper Parliament Street: qui poteva installarci il suo microbirrificio. 
La scena birraria di Liverpool è ancora lontana dai livelli di Londra o di Manchester, ma anche in questa città stanno aprendo diversi microbirrifici. Mad Hatter dichiara di voler mescolare la Craft Beer Revolution americana con la tradizione inglese delle Real Ales ed è forse proprio per questo che è stato scelto il nome de "Il Cappellaio Matto", oltre all'inevitabile riferimento al libro di Lewis Carroll (Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie): nelle intenzioni del birrificio c'è la volontà di usare una buona dose di pazzia nel mescolare innovazione e tradizione, coltivandosi in proprio i ceppi di lieviti, nella speranza di "tirare fuori dal cilindro" qualcosa di buono.
Di bello ci sono senz'altro le etichette, realizzate dall'illustratrice Emily Warren (The Stealthy Rabbit): prendiamo la birra di oggi, una milk stout prodotta con lattosio e chicchi di caffè della Bold Street Coffee di Liverpool. Per l'occasione il Cappellaio Matto fa il verso al film  A Nightmare on Elm Street (in italiano Nightmare - Dal profondo della notte) ma dentro la maglietta a strisce orizzontali anziché il mitico Freddy Krueger c'è un inquietante coniglio. 
Nightmare on Bold St., dunque, non si presenta proprio nel migliore dei modi con un leggero gushing all'apertura che fortuitamente non provoca disastri;  è torbida, marrone scuro, con una testa di schiuma cremosa color nocciola, dall'ottima persistenza. Al naso impazzano gli esteri, con forti sentori di frutti rossi aspri e di mela che, assieme a quelli di cioccolato al latte e di caffè, formano un mix non particolarmente invitante, almeno per me. Il peggio purtroppo deve ancora venire: al palato è evidente l'infezione in una birra che apre aspra di frutti rossi e di aceto di mela. La bevuta prosegue brevemente (prima del lavandino) con un gusto (?) confuso e molto sporco nel quale emerge una generale sensazione di caffè. Annoto anche una discreta astringenza, moltissime bollicine che non aiutano certo a decifrare i sapori, ed un finale amaro di caffè e cicoria, molto poco gradevole.
Debutto sfortunato, per un birrificio che in soli due anni di attività ha già sfornato più di cinquanta birre, tra one-shot e stagionali: piuttosto che continuare a sfornare novità, che non sia il caso di concentrarsi su poche etichette e lavorare soprattutto sulla costanza produttiva?
Formato: 33 cl., alc. 5.3%, scad. 15/12/2015, pagata 4.00 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 25 luglio 2015

The Wall Mrs. White

Secondo appuntamento con il birrificio The Wall di Vengono Inferiore (Varese), che vi ho presentato in questa occasione. Dopo Fire Witch, la IPA della casa, ecco Mrs. White:  arriva nell’estate del 2014, l’anno in cui lo stile delle White IPA (da quest'anno incluse anche tra le categorie del BJCP)  ha iniziato a diffondersi nella nostra penisola, con qualche anno di ritardo rispetto agli Stati Uniti.
Ve ne avevo già parlato qui, indicando come data del primo esempio commerciale di White IPA (la Conflux Nr.2) la fine del 2010; si trattava tuttavia di una birra collaborativa (tra Deschutes e Boulevard) dalla distribuzione piuttosto limitata. I commenti entusiasti di coloro che riuscirono a berla fecero nascere un piccolo “hype” e spinsero altri produttori a cimentarsi in questo stile ibrido; la  Samuel Adams Whitewater IPA della Boston Beer Company del 2011 è stata probabilmente la prima White IPA ad ampia diffusione. 
Tecnicamente una White IPA dovrebbe quindi utilizzare un ceppo di lievito belga ed una luppolatura americana; "concesso" anche l'utilizzo di spezie, come spesso avviene per le wit, con coriandolo e scorza d'arancia tra quelle usate più di frequente. Potreste anche chiamarle American Wit, mentre non vanno confuse con le American Wheat, anch'esse birre di "frumento" che però prevedono un lievito americano, nessuna spezia e una luppolatura chiaramente meno intensa di quella che c'è in una IPA.
La White IPA di The Wall, se non erro, è generosamente luppolata con Columbus, Cascade e Simcoe; la ricetta prevede un ceppo di lievito americano (US-05), malto d’orzo, fiocchi di frumento e fiocchi d’avena, coriandolo e buccia d'arancia amara: una scelta che la colloca quindi a metà strada tra una White IPA ed una American Wheat.
Il suo colore è giallo paglierino, velato  e sormontato da una bianchissima testa di schiuma non molto persistente, la cui trama è un po’ grossolana. L’aroma apre con le spezie (pepe bianco, coriandolo) seguite dai profumi del cedro e del limone, della scorza di mandarino; il bouquet è fresco e pulito, in un equilibrio molto ben riuscito tra la parte “white” e quella “IPA”. Spezie e generosa luppolatura convivono senza che l’una cerchi di annullare o sopraffare l’altra.
Le cose sono un pochino diverse in bocca, dove la componente IPA prende decisamente il comando delle operazioni: la bevuta si sviluppa principalmente sull’agrumato (limone, cedro, mandarino) con una leggerissima base di malto (crackers, cereali) e qualche nota dolce di agrumi canditi a bilanciare. Pulita e fragrante, la Signora Bianca scorre molto veloce dissetando e rinfrescando senza indugi: le molte bollicine le donano una bella vivacità che mantiene sempre in tensione il palato. Chiude con una bella secchezza ed un amaro elegante, di buona intensità, dove alle note “zesty” (scorza di limone, pompelmo) si affianca qualche sfumatura erbacea.  Con una gradazione alcolica  ai limiti della soglia di sessionabilità, è una birra  che trova nell’estate la sua collocazione ideale, nonostante le minacciose figure della bella etichetta realizzata da Max Gatto evochino periodi dell'anno molto meno solari e "spensierati".
Formato: 33 cl., alc. 4.5%, IBU 30, lotto 0615, scad. 30/11/2015, pagata 4.20 Euro (foodstore, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 23 luglio 2015

Corona Extra

L’appuntamento del mese di luglio con la birra industriale, del discount o del supermercato che dir si voglia è con la famosissima Corona Extra.  Che ci crediate o no, è la prima volta che la bevo  (e, giusto per darvi qualche riferimento temporale, ho già passato gli “anta”); anche nel mio lungo passato di bevitore di birre industriali ero sempre rimasto perplesso dall’inquietante trasparenza della bottiglia e non l’avevo mai acquistata.  
Mi si è appena spalancato un piccolo grande mondo: in rete è pieno di informazioni contraddittorie sul  perché “si debba bere a collo e non nel bicchiere” e sul perché vada bevuta con uno spicchio di limone, o anche con un po’ di sale. 
Ma andiamo per ordine, perché ci sono cose più interessanti di sale e limone. La Cervecería Modelo viene fondata l’8 marzo 1922 da Braulio Iriarte Goyeneche, un spagnolo in Messico dal 1877, da quando aveva diciassette anni; la produzione parte nell’ottobre del 1925, con l’appoggio di capitali forniti da una schiera di altri facoltosi imprenditori spagnoli emigrati. La fabbrica viene costruita – e l’edificio lì si trova tutt’ora – su un terreno nel quartiere di Santa Julia di quella che allora era la Municipalidad de Tacuba, oggi inglobata in quella enorme metropoli che è Città del Messico. C’è da dire che in quel periodo la birra non era una bevanda particolarmente popolare in Messico: il ghiaccio e la refrigerazione non erano sempre disponibili e la gente preferiva bere l’economico Pulque, un fermentato dell’albero di Maguey. Nonostante questo, già nel 1928 le bottiglie di birra vendute erano arrivate ad otto milioni, suddivise tra la chiara Corona e la scura Modelo Negra. 
Nel 1932 muore Braulio Iriarte e il comando viene assunto da  Pablo Díez Fernández, anche lui nato in Spagna, uno dei pochi finanziatori che non avevano ancora abbandonato il progetto: Díez rimase in carica sino al 1971, mettendo subito in atto una politica di espansione. Con la fine del proibizionismo negli Stati Uniti nel 1933 iniziarono le prime sporadiche esportazioni a nord, che non ebbero però volumi significativi sino alla fine degli anni ’70. 
A questo proposito, è interessante quello che racconta il libro “The Emerging Markets Century” (2007) dell’economista Antoine Van Agtmael. Negli anni ’70 un grosso distributore della Baja California messicana non capiva perché le casse di Corona gli venissero restituite con così tanti “vuoti a rendere” mancanti. Le vendite aumentavano ma i resi erano sempre meno: scoprì che le bottiglie di Corona erano diventate molto popolari tra i surfisti americani che frequentavano le spiagge messicane, e sempre più spesso questi si portavano a casa il souvenir.  La bottiglia trasparente di Corona, senza nessuna campagna pubblicitaria, era inconsapevolmente diventata in California il simbolo della esotica vacanza al mare in Messico, al sole, sulla spiaggia: un caso che ricorda, con le dovute proporzioni, quello della bottiglia di Coca Cola. 
Alla Modelo colgono la palla al balzo e investono sull'esportazione: in poco tempo la Corona diventa molto richiesta  dapprima nella vicina California e poi in molti altri stati americani: nel 1986 un milione di casse attraversavano ogni mese il confine con gli Stati Uniti. Gli altri “competitors” americani non rimasero con le mani in mano, e fu curioso fu quello che accadde nei primi anni ’80:  qualche concorrente (Heineken?) sparse subdolamente la voce che alcuni test di laboratorio fatti dalla Food and Drug Administration avevano riscontrato tracce di urina umana in quelle bottiglie trasparenti. Addirittura si raccontava che diversi operai della Cerveceria Modelo erano stati visti urinare sulle bottiglie poco prima che fossero imbottigliate. La voce che “la Corona sapeva di piscio” si diffuse rapidamente e si portò dietro gli inevitabili strascichi legali che si conclusero ovviamente a favore del gruppo messicano: l’esportazione di Corona subì però un clamoroso crollo ed i messicani cercarono di recuperare immagine invitando a proprie spese decine di giornalisti americani a visitare le proprie fabbriche affinché potessero testimoniarne l’efficienza e l’assoluta pulizia. L’ufficio marketing della Modelo, per recuperare terreno, ebbe poi la brillante intuizione di associare la propria birra ad una ricorrenza messicana da celebrare in territorio statunitense. Tra i vari avvenimenti storici candidati, venne scelto il Cinco de Mayo (5 di Maggio): l’evento cadeva anche all’inizio della bella stagione e invitava la comunità messicana negli Stati Uniti a celebrarlo all’aria aperta, magari davanti al BBQ, con una Corona in mano. La pubblicità ebbe un grande successo e i festeggiamenti del 5 de Mayo si legarono indissolubilmente alla bottiglia di Corona: era solo questa la birra che milioni di americani e immigrati messicani volevano bere in quel giorno. Nel 1997 Corona sorpassa Heineken in cima alla classifica statunitense delle vendite tra le birre importate. 
Il resto della Corona-story è quello già visto tante altre volte, e passa per l’acquisizione di altri birrifici messicani per eliminarli e sopprimere i marchi concorrenti; attualmente quasi sette birre su dieci bevute in Messico vengono prodotte dal Grupo Modelo. Puntualmente arrivò anche il giorno in cui il pesce grande venne mangiato da un pesce ancora più grande, nello specifico gli americani della Anheuser Busch che a partire dal 1993 acquistano una quota societaria sempre maggiore del Grupo Modelo sino ad arrivare al 50%.  Per “soli” 20 miliardi di dollari nel 2013 Anheuser Busch (divenuto AB-InBev) si porta a casa l’altra metà restante. 
I numeri attuali dicono che oggi la Corona  non è tra le dieci birre più vendute al mondo,  ma in territorio statunitense si piazza saldamente al quinto posto rimanendo la birra d’importazione più venduta e doppiando per volumi l’eterna rivale Heineken. Lei rivendica il suo orgoglio messicano e continua ad essere prodotta esclusivamente nel suo paese d’origine, venendo poi esportata in 180 paesi. In Italia il primo importatore di Corona fu nel 1989 Pietro Biscaldi siglando con il Gruppo Modelo un esclusiva che oltre alla nostra penisola comprendeva anche il Principato di Monaco e Malta; nel 2008 la distribuzione passò nelle le mani di Carlsberg e, nel 2014, ovviamente di quelle di AB-InBev.  
Resta da fare luce sul perché la Corona vada bevuta a collo con uno spicchio di lime (e non limone) conficcato nel lungo collo della bottiglia.  Tanti sono stati i giornalisti che hanno rivolto la domanda direttamente al Grupo Modelo, senza però ottenere nessuna risposta. Solitamente ci si rifà ad una non specificata “tradizione locale”: alcuni sostengono che i messicani infilavano l’agrume all’imboccatura del collo della bottiglia aperta per tenere lontano mosche ed insetti. Altri che il lime (inizialmente solo strofinato sul bordo del collo) aveva la funzione di non far avvertire il sapore della ruggine che i primi tappi metallici spesso rilasciavano; o, se preferite, l’agrume attenuava quel gusto “skunky” causato dall’utilizzo di una bottiglia trasparente che non protegge per nulla la birra dalla luce. Una spiegazione più fantasiosa cita un episodio del 1981, avvenuto in un locale della California, in cui un barista inventò questo modo di servire la Corona ai propri clienti nell’ambito di una scommessa con un proprio collega: volevano vedere se riuscivano a creare una “tendenza” e poi a diffonderla.  Il fatto venne inizialmente riportato nel libro Buy-ology (2008) di Martin Linsdrom e fu poi ripreso da numerose riviste e giornali, diventando così la versione più “accreditata”.  Ma come la moda abbia fatto a diffondersi così rapidamente da un piccolo bar della California a tutti gli Stati Uniti, è un altro enigma da svelare.  
In verità pare che quasi nessun messicano la beva in questo modo (qualcuno può confermare?), e che i bar la servano con lo spicchio lime solo ai turisti stranieri. I più maligni (e io no?) sostengono invece che la fetta di lime abbia semplicemente la funzione di dare un po’ di gusto ad una birra praticamente insapore. 
Dopo le tante, forse troppe parole, passiamo alla pratica. Questa la lista degli ingredienti riportati sull’etichetta destinata all’Italia:  acqua, malto d'orzo, riso/granturco, luppolo, antiossidante E300 e  addensante E405. Se le sigle vi spaventano, sappiate che l’E300 (acido L-ascorbico)  viene utilizzato per la sua funzione antiossidante e per evitare l’imbrunimento del bel colore dorato esaltato dal vetro trasparente;  l’E405 (alginato di glicole propilenico) viene invece utilizzato per aumentare la consistenza e la durata delle bollicine. Niente che vi possa far male, ci mancherebbe. La Corona Extra rientra in quella categoria delle "Adjunct Lager": birre leggere, poco amare, frizzanti e dal basso contenuto alcolico che utilizzano succedanei dei cereali come ad esempio granoturco e riso.
Evito il rituale della bevuta a canna e dello spicchio di lime, versando Corona Extra nel bicchiere, ovviamente appena prelevata dal frigorifero, freddissima come lei stessa richiede. E' dorata e perfettamente limpida, in modo da permettere di ammirare le vivaci colonie di bollicine che attraversano diligentemente tutto il bicchiere, dal basso verso l'alto: della schiuma posso testimoniare solamente il colore bianco, visto la velocità con la quale si dissolve senza lasciare traccia. 
L'aroma, se così si può chiamare, è di bassissima intensità: mais, riso, qualche remotissima suggestione di miele. Non serve dare la colpa alla bassa temperatura di servizio, anche a temperatura ambiente non cambia nulla. Al palato è il trionfo dell'acquosità, mediamente carbonata, condizione necessaria per una birra che deve scorrere veloce per permettere al bevitore di finirla il più rapidamente possibile per poi ordinarne un'altra. Il gusto? Ah sì, quasi non me ne ero accorto. Bevuta "ghiacciata" è praticamente acqua frizzante colorata di giallo, con una lieve presenza di mais. Lasciatela riscaldare un po' se volete un spruzzatina di miele ed un po' più di mais. La ricerca disperata di sapore mi porta ad avvertire anche una leggera parvenza di agrumi, ma forse è la mia suggestione che inconsciamente vorrebbe uno spicchio di lime all'interno del bicchiere. Il consiglio è comunque di berla molto fredda, in quanto l'alzarsi della temperatura ne aumenta un po' la dolcezza e ne riduce la discreta secchezza, facendo venire meno quelle che sono le sue uniche funzioni: dissetare e rinfrescare. Come l'acqua, appunto. Chiudo confermando che la bottiglia non ha assolutamente sofferto di "cattivi odori" dovuti al "colpo di luce": ho sentito dire che il vetro trasparente della Corona sarebbe dotato di appositi filtri protettivi, ma non ho trovato informazioni a riguardo.  Ho prelevato la bottiglia da un cartone semi-chiuso al supermercato, quindi poco esposta alla luce, ma non credo sia stato questo a preservarla: del resto il responsabile dello "skunk" da colpo di luce è il luppolo, e in questa birra credo che ne sia stato messo davvero molto, molto poco.
Formato 35.5 cl., alc. 4.5%, lotto o26 05:39, scad. 17/02/2016, pagata 1,45 Euro (supermercato, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 22 luglio 2015

Buxton SPA

L’acronimo SPA è oggi utilizzato in tutto il mondo per indicare genericamente un centro termale o uno stabilimento che offre trattamenti per la salute del corpo e della mente: in una parola, benessere. Solitamente si pensa alle iniziali della locuzione latina Salus Per Aqua (Sanitas Per Aquam/Aquas), ossia “salute per mezzo dell’acqua”, ma pare che si tratti di un retroacronimo: in realtà il termine originerebbe semplicemente dall’omonima stazione termale belga,  nella provincia di Liegi, conosciuta in tutta europa dal XIV secolo per le sue benefiche acque minerali e termali. La sua fama portò ad utilizzare il termina Spa come sinonimo del termalismo, dapprima in inglese e poi in altre lingue. 
Ma la birra che c'entra? Beh, in giornate calde come queste anche una rinfrescante bottiglia è sinonimo di benessere e quindi di SPA. Il passaggio è un po’ forzato ma un po’ di verità c’è. SPA è il nome scelto dagli inglesi di Buxton per identificare la propria Special Pale Ale; è una delle prime birre realizzate dal birrificio fondato nel 2009 da  Geoff e Debbie Quinn. 
Da quanto leggo la ricetta è stata profondamente rivisitata nel 2011 dal birraio James  Kemp, nei suoi due anni di permanenza a Buxton prima del passaggio di consegne del 2013 con Coling Stronge, attuale head brewer. La versione attuale della Buxton SPA è, utilizzando le parole del birrificio, uno “showcase” del luppolo americano Citra, anche se non credo si tratti di una single-hop: la sua gradazione alcolica (4.1%) rimane all’interno della soglia di sessionabilità: peccato solo per il formato da 33 centilitri, decisamente insufficiente in giornate come queste. E dire che qualche anno fa le Buxton erano tutte prodotte nel classico mezzo litro anglosassone. 
Dorata, leggermente velata, la Special Pale Ale di Buxton forma un bianco cappello di schiuma compatta e cremosa, dall’ottima persistenza. Mandarino, arancio, limone ed in tono minore altri rappresentanti della famiglia degli agrumi (cedro, pompelmo) vanno a comporre il fresco e pulito bouquet olfattivo con qualche sentore più dolce di pesca.  Molto bene la sensazione palatale, corpo leggero, la giusta quantità di bollicine ed una grande scorrevolezza senza nessun pericoloso scivolone nel “troppo acquoso”.  I malti regalano note di crackers e un leggerissimo mielato a supporto dell’abbondante carico di agrumi (soprattutto arancio, pompelmo e lime) che proseguono nella stesa direzione dell’aroma: molta scorza, lievissima presenza dolce di polpa, e finale spiccatamente zesty con delicate sfumatura erbacee.  Secca, pulitissima e ben profumata, ça va sans dire che questa SPA è una birra dall’elevatissimo potere rinfrescante e dissetante, perfettamente riuscita nella sua semplicità. Fa quello che deve fare andando dritto al sodo: è una di quelle birre che, quando la temperatura esterna si avvicina ai trenta gradi,  vorreste sempre avere nel bicchiere, con l’unico deplorevole inconveniente che vi toccherà andare a ripienarlo con elevata frequenza.
Formato: 33 cl., alc. 4.1%, lotto G:B14, imbott. 13/04/2015, scad. 13/01/2016.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 21 luglio 2015

La Fucina Liberitutti & Cardiopalma

Tra i (non molti) birrifici italiani che sono partiti come Beer Firm per poi mettere in funzioni i propri impianti annoveriamo anche il molisano La Fucina, attivo dal 2012. Tre soci fondatori (Angelo Scacco, Dario di Pasquale e Gianluca Scarselli) un lustro circa di homebrewing alle spalle, ed un nome che richiama “il laboratorio del fabbro in cui venivano forgiati strumenti e utensili di ogni tipo. Col passare degli anni il termine la fucina è diventata nel linguaggio comune un vero e proprio laboratorio in cui operavano artigiani o addirittura alchimisti sempre intenti a sperimentare o a creare nuove leghe ed elementi. Proprio come le figure che popolavano le fucine medievali, noi nel nostro birrificio vogliamo cercare di rendere possibile ciò che sembra impossibile”. 
Si pare con quattro birre:  Mon Amour (Blanche), La Strana (al confine tra stout/porter/brown ale con aggiunta di caffè), Pellerossa (strong ale belga), Liberitutti (APA/IPA american style), alle quali si aggiunge la collaborativa Bside (APA), realizzata assieme ad altri due birrifici molisani,  Kashmir e Sannita.   
Il passaggio da Beer Firm a birrificio vero e proprio avviene in soli due anni: nemmeno un anno fa, il 7 settembre 2014, vengono inaugurati gli impianti in quel di  Pescolanciano (Isernia). In loco rimane operativo anche il piccolo impianto pilota utilizzato per testare le ricette, che nell’idea dei soci dovrebbe diventare una sorta di “microbirrificio sociale” a disposizione di homebrewers o semplici curiosi che volessero tentare di produrre birra. Annesso al birrificio è anche stato realizzato un piccolo beershop dove poter acquistare non solo le birre de La Fucina ma anche di altri produttori, italiani ed esteri. 
Il sito internet è attualmente in manutenzione e non offre molte informazioni, mi viene in soccorso l’immancabile pagina Facebook. Altre quattro birre originali se ne sono progressivamente aggiunte altre, come ad esempio l’American Pale Ale dal singolare nome  “Bevi e Nun Rompe er Cxxxo”  la Cardiopalma e le ultime due nate Rostro IV e ComunAle, quest’ultima prodotta per i locali di Pescolanciano. Molto belle le etichette – anche se non sono riuscito a scoprire l’autore: surreali, fantasiose ed oniriche. 
Due sono le birre protagoniste del post di oggi col quale il birrificio debutta sul blog: un “doppio” appuntamento insolito ma non inusuale, dovuto alla necessità di aprire una seconda bottiglia per rimediare ad una prima piuttosto problematica. 
Iniziamo da Liberitutti (6%), che Ratebeer classifica tra le IPA: l’etichetta fornisce un breve indizio sulla presenza di Simcoe e Magnum come luppoli utilizzati. Si presenta di color ambrato con riflessi ramati, ma il bicchiere si riempie immediatamente di una schiuma biancastra e pannosa che si forma copiosa costringendo ad attendere diversi minuti prima di riuscire a vuotare completamente la bottiglia nel bicchiere. L’aroma è di scarsa intensità, ed è forse un bene perché i profumi non sono particolarmente invitanti: la pulizia latita parecchio, ed in mezzo a degli strani sentori di terriccio umido, muschio e cantina si avverte qualche nota di solvente, di caramello e forse di agrumi. L’elevatissima carbonazione non aiuta a decifrare il gusto, che risulta comunque piuttosto sporco e privo di un senso compiuto; si passa da una leggera presenza di biscotto e caramello ad un amaro vegetale e resinoso opprimente, molto poco elegante e gradevole. La bevuta risulta completamente sbilanciata in questa direzione, con astringenza finale e con un ritorno di quella sensazione di cantina umida, quasi di muffa; bottiglia con evidentissimi problemi, meglio fermarsi qui.
Fa molto caldo e, insoddisfatto, decido di tentare di dissetarmi stappando la seconda bottiglia di La Fucina in frigorifero, Cardiopalma (5%): il suo vestito si colloca tra il dorato e l’arancio, sormontato da un bel cappello compatto di schiuma biancastra, fine e cremosa, dall’ottima persistenza. Al naso sentori di pera e floreali, di amaretto, qualche accenno di miele: l’intensità è discreta mentre sull’equilibrio, sulla pulizia e sulla finezza (vedi soprattutto gli esteri da lievito) c’è parecchio da lavorare. Anche questa birra è afflitta da un’esagerata quantità di bollicine che rendono davvero difficile la percezione dei sapori: ma dopo aver fatto stemperare un po’ la frizzantezza il gusto non migliora a causa della poca pulizia. Per un ABV del 5% la sensazione tattile è piuttosto pesante, nonostante il corpo medio-leggero: indovino quasi delle note di biscotto e di miele, di arancio (forse curacao?) ed una chiusura amara erbacea, astringente. Dovrebbe trattarsi di una Belgian Ale (fonte da prendere con le pinze, Untappd), io onestamente non sono riuscito a decifrarla.  
Dispiace sempre dare impressioni negative (sopratutto per i soldi spesi) su un birrificio del quale avevo peraltro sentito anche parlare bene in giro: va bene la bottiglia sfortunata che comunque non dovrebbe esserci e che ogni tanto può capitare, ma qui sono due su due.
Costanza produttiva cercasi, disperatamente.
Nel dettaglio:
Liberitutti, formato 33 cl., alc. 6%, lotto 14-15/15, scad. 30/03/2016, pagata 3.40 Euro (foodstore, Italia)
Cardiopalma, formato 33 cl., alc. 5%, lotto 05/15, scad. 02/2016, pagata 3.40 Euro (foodstore, Italia)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 20 luglio 2015

Doctor Brew Cascade IPA & Azacca IPA

Altro appuntamento ravvicinato con la beerfirm polacca Doctor Brew, presentatavi qualche settimana fa. Ancora due IPA, una tipologia particolarmente amata e richiesta dai nuovi beer geek polacchi e quindi prodotta nel maggior numero di varianti possibili dai protagonisti dell’avanguardia polacca: in questo senso non potevano assolutamente mancare le Single Hop IPA. 
Eccone due esempi che in un certo senso si collocano ad opposte estremità temporali:  una IPA che utilizza solo Cascade, un luppolo che si potrebbe considerare il “simbolo” della craft beer revolution americana, da quando nel lontano 1980 fu utilizzato nella Sierra Nevada Pale Ale, e un’altra che utilizza una varietà sperimentale abbastanza recente (2014) chiamata Azacca. 
La Cascade IPA di Doctor Brew, oltre all’omonimo luppolo (suppongo sia stata utilizzata la varietà americana) prevede malti Pale Ale, Monaco, Caramello,  Melanoidin e frumento maltato, per un ABV del 5.6% e 56 IBU: venne presentata ad aprile 2014 a Breslavia nel locale  Browar Mieszczański.  Il suo colore si colloca tra il dorato antico ed il ramato, velato, e forma una generosissima schiuma biancastra e compatta, cremosa, dalla lunga persistenza. Oltre al marchio di fabbrica del Cascade, il pompelmo, l’aroma regala profumi floreali, di mango e di pesca, caramello: in sottofondo ci sono le note erbacee ed alcuni ricordi di tè verde. La freschezza è discreta, di pari passo con l’intensità: bene la pulizia. Al palato c’è una corrispondenza pressoché perfetta con il naso: sulla base maltata di biscotto e caramello si sviluppa un intenso percorso gustativo che include pompelmo, mango e pesca. C’è pulizia, eleganza ed un bell’equilibrio tra dolce ed amaro, con quest’ultimo che diventa protagonista solo nel finale, in un bel mix di sentori vegetali, di terriccio umido e di tè verde. Una IPA ben riuscita, che scompare dal bicchiere molto rapidamente grazie anche ad una sensazione palatale quasi cremosa e dalle poche bollicine. 
Nella seconda Single Hop è protagonista il luppolo Azacca, rilasciato commercialmente negli ultimissimi mesi del 2013 e precedentemente comparso in alcune birre con il nome ancora sperimentale di  ADHA 483. E’ “opera” della American Dwarf Hop Association e deve il suo nome all’omonimo dio Haitiano dell’agricoltura. Da quanto leggo in giro viene descritto come un luppolo dalle grandi caratteristiche aromatiche (agrumi, tropicale) che dovrebbe quindi essere principalmente utilizzato in late e dry-hopping. Tra le birre single-hop americane di birrifici  a me noti che lo hanno  già utilizzano segnalo quelle di Alpine (California), Cigar City (Florida) e Ninkasi (Oregon).
Doctor Brew sceglie una base di malto molto semplice (100% Pale Ale) per una IPA di colore dorato con qualche riflesso arancio: bene la schiuma, bianca, fine, cremosa, dalla buona persistenza. L’aroma – ed è un vero peccato visto che è qui dove il luppolo in questione dovrebbe dare il meglio – è però poco intenso e non brilla neppure in eleganza: avverto sentori di miele e vegetali, con una leggera presenza di frutta tropicale (melone, ananas e papaya). In bocca la birra risulta un po’ troppo pesante a livello tattile, con corpo medio-leggero e poche bollicine.  La pulizia del gusto è tutt’altro che esemplare: ci sono miele ed una generica sensazione di frutta tropicale che la scarsa finezza non permette di descrivere con maggior precisione; la bevuta è tuttavia facile, complice anche il caldo di questi giorni, e chiude con un discreto amaro tra il vegetale ed il resinoso, pungente.  La sufficienza la raggiunge, peccato per la mancanza di pulizia che non permette di cogliere con maggior accuratezza le caratteristiche di un nuovo luppolo che invece mi incuriosiva.
Molto bene la prima (Cascade), solo benino la seconda (Azacca) IPA. Ringrazio di nuovo il birrificio per avermi inviato le bottiglie da assaggiare.
Nel dettaglio:
Cascade IPA, formato 50 cl., alc. 5.6%, IBU 56, scad. 30/06/2015.
Azacca Single Hop IPA, formato 50 cl., alc. 6.2%, IBU 71, scad. 13/07/2015

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 19 luglio 2015

Toccalmatto Maciste Heroic Double IPA

Prende il nome dal personaggio del film italiano Cabiria (1914), l'ultima Double IPA di Toccalmatto: un uomo mitologico di straordinaria forza, del quale però non vi è nessuna traccia nella mitologia greca o romana.  Pare che l'invenzione del nome Maciste sia da attribuire a Gabriele D'Annunzio, ma non c'è accordo su questo punto; certo è che questo eroe forzuto ed atletico fu poi protagonista di moltissimi film italiani e  anche stranieri. 
Viene presentata in anteprima a Londra al Great British Beer Festival dell'agosto 2014 e il 31 dello stesso mese in contemporanea nei locali King Arthur di Ciampino e Birra+ di Roma. Il perché è presto spiegato: pare che l'idea di questa birra sia stata concepita in occasione del compleanno  di Bruno Carilli, patron di Toccalmatto, e Gianluca Spuntarelli, publican del King Arthur, con la collaborazione di Valerio Munzi del Birra+.
La ricetta prevede malti Pils e Carapils, ma soprattutto luppoli Simcoe, Chinook, Warrior, Amarillo e Centennial, quattro di questi utilizzati anche in dry hopping.
Nel bicchiere si presenta di colore dorato, velato, con una testa di schiuma bianca non troppo generosa ma cremosa e compatta, molto persistente. L'aroma è fresco e pulito, anche se il bouquet fruttato non è particolarmente intenso: passano in rassegna pompelmo, arancio e mandarino, con una leggera presenza di dolce tropicale, soprattutto ananas.
Le cose si fanno decisamente più coinvolgenti e intense al palato: ingresso di crosta di pane, il dolce del miele e della frutta tropicale (ananas, mango) danno un bell'equilibrio ad una bevuta nella quale l'intenso amaro resinoso diviene lentamente il protagonista. L'alcool non si nasconde, mostrando tutto il contenuto alcolico (8.5%) dichiarato in etichetta: è una Double IPA molto pulita e robusta che si beve con discreta facilità e che, soprattutto, si mantiene sempre bilanciata senza mai scivolare in derive troppo amare. Ottima la sensazione palatale, con il giusto livello di bollicine, un corpo medio, ed una discreta morbidezza. Chiude con una bella secchezza, lasciando una lunga scia amara nella quale le note leggermente pepate della resina s'incontrano con il calore etilico.
Penalizzata da un'aroma tutt'altro che esplosivo per una Double IPA che vanta "quattro dry hopping di luppoli americani in quantità incoscienti", Maciste prova la sua scalata all'olimpo delle migliori interpretazioni italiane senza tuttavia arrivarci, regalando comunque un'ottima bevuta, con l'alcool forse un po' troppo in evidenza, soddisfacente ma - almeno per quel che mi riguarda - piuttosto avara di emozioni.
Formato: 33 cl., alc. 8.5%, lotto 15017, scad. 19/05/2016, pagata 4.80 Euro (birrificio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 16 luglio 2015

Cantillon Vigneronne 2013

Negli anni 70 Jean-Pierre Van Roy (sposo di Claude Cantillon) rileva il birrificio dagli altri membri della famiglia Cantillon, poco propensi a continuare un'attività (produrre lambic) che secondo loro non aveva nessun futuro. Tra le prime novità da lui introdotte c’è il ritorno dei lambic “alla frutta”, che erano prodotti regolarmente da Cantillon sino agli anni 30 del secolo scorso prima di essere abbandonati.  
Nel 1973 c’è il ritorno in produzione di una Framboise (lambic ai lamponi),  ora chiamata Rosé de Gambrinus. Ai lamponi fa poi seguito l’uva bianca, riprendendo una tradizione della vallata dell’Yssche, un piccolo corso d’acqua che nasceva nella Foresta di Soignes a sud di Brusseles e attraversava i paesi di Hoeilaart, Overijse e Huldenberg:  in quest’area vi erano molti produttori di quello che era chiamato “druivenlambik”, ovvero un blend di lambic e uva che veniva coltivata in loco. 
Nello stesso anno della Framboise viene prodotto anche il primo Druivenlambik di Cantillon, poi rinominato Vigneronne a partire dal 1987 per sottolineare maggiormente la sua parentela con il vino: l’attuale etichetta, realizzata da Raymond Goffin, è del 1989.  La stella a sei punte è un simbolo alchemico che contiene quattro elementi, rappresentati da triangoli: il fuoco (il bollitore), la terra (i cereali), l’aria (i lieviti spontanei) e l’acqua. 
Nonostante la grande richiesta, la Vigneronne rappresenta attualmente solo il 5% della produzione Cantillon:  ogni anno, tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre, una tonnellata di uva bianca matura (moscato, solitamente) viene fatta arrivare dall’Italia. Tutti grappoli vengono “lavorati” a mano, per prelevare gli acini che devono essere pronti per la fine di ottobre, quando inizia la stagione utile (= fresca) per poter produrre il lambic. Il “lambic all’uva” viene poi fatto invecchiare in botti fino al momento dell’imbottigliamento: nelle bottiglie viene messa una piccola quantità di sciroppo ad elevato contenuto zuccherino (analogo al liqueur d'expedition) che sarà responsabile della seconda fermentazione. Bevetela entro i primi dodici mesi dalla produzione se volete sentire soprattutto la frutta (uva): in alternativa potete lasciarla in cantina per un numero potenzialmente infinito di anni ed aprirla quando ne avete voglia.
La fotografia inganna un po', ma Vigneronne è di colore dorato leggermente pallido e velato: in superficie si forma un dito di schiuma bianca che però svanisce molto rapidamente. Il bouquet olfattivo si compone di note lattiche, legnose, di sudore e di cantina che sono bilanciate da quelle più gentili di uva e fiori. Man mano che la temperatura si alza emergono note dolci che ricordano l'albicocca e quasi il marzapane. Il percorso continua in linea retta al palato, riprendendo sopratutto le caratteristiche meno "ostiche" del lambic: evidente il suo carattere vinoso, con l'uva (aspra e dolce) affiancata dalla mela verde. L'acidità (lattica e leggermente acetica) è molto ben controllata, con una pulizia impeccabile ed una secchezza tannica che la rende molto dissetante e rinfrescante, soprattutto se bevuta fresca. Ma la soddisfazione è grande anche lasciandola riscaldare, per far meglio far risaltare la componente vinosa con il leggero ma sorprendente dolce dell'uva matura e dell'albicocca. Leggera e scorrevole, poche bollicine, chiude con una punta amara lattica e qualche suggestione di scorza di limone; una bellissima bevuta, ricca di piacere e di emozioni, elegante senza compromettere il proprio carattere rustico e contadino. 
Suggerirei di provarla anche a chi non ha grossa familiarità con le birre acide: potrebbe essere una introduzione non troppo impegnativa ad un mondo tutto da scoprire. E se vi state domandano qual è l'ispirazione dietro alle birre italiane che ammiccano al mondo del vino, ad alcune grandi birre di Montegioco o Loverbeer, qui avete una probabile risposta, o una possibile certezza.
Formato: 75 cl., alc. 5%, lotto C123, prodotta il 23/10/2013, scad. 12/2023, pagata 13.50 Euro (beershop, Italia). 

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 15 luglio 2015

Birra Cervisia Mozzo

La scena brassicola italiana è sempre più affollata e per chi beve è sempre più difficile orientarsi? Sembra una banalità ma qualcosa di vero c'è. I contatore di Microbirrifici.org si avvicina al numero 1000  (produttori e beerfirm, anche non più in attività), le grandi multinazionali iniziano anche in Italia a proporre le cosiddette “birre crafty” che ammiccano al mondo “artigianale”, aggettivo che peraltro non è assolutamente garanzia di qualità di quello che poi arriva nel bicchiere. Ci sono poi le birre che vengono commissionate da distributori di bevande: non è una novità, da anni sugli scaffali dei supermercati ci sono delle birre provenienti dal Belgio (un tempo anche nelle lussuose? bottiglie di ceramica)  prodotte apposta per chi importa e sulle quali non si riuscivano a reperire informazioni chiare.
Prendiamo oggi  il caso di Birra/Birrificio Cervisia. Esiste (o esisteva) effettivamente un microbirrificio italiano con questo nome e con sede a Caserta. Ma Fabbrica Birra Cervisia era anche uno storico birrificio genovese, fondato presumibilmente nel 1907 e passato poi attraverso diversi cambi di proprietà sino a convergere nel gruppo Dreher di Trieste, che negli anni 70 venne acquisito da Heineken: nel solito processo di razionalizzazione di marchi, nel 1985 il marchio Birra Cervisia cessò di esistere.  In una porzione dei locali che un tempo ospitavano la produzione c’è oggi il microbirrificio Maltus Faber. 
A fine 2014 l’importatore/distributore Dibevit  decide di riesumarlo, rivisitandone in chiave moderna il logo del cavalluccio marino e ammodernando anche la linea di birra. In mancanza di impianti produttivi, ci si rivolge ad Apecchio, nelle Marche, dove si trova il Birrificio Amarcord. Tre sono le nuove birre che vengono lanciate, citando dal comunicato stampa, “per soddisfare un consumatore amante di prodotti di qualità ricercati e caratterizzanti. Cervisia oggi conserva l’impronta dei suoi inizi e la combina con una delle più moderne tecniche di brassaggio, il dry hopping, proponendo tre differenti referenze. Ognuna ha un nome che prende ispirazione dalla vita marinara genovese e si caratterizza per un gusto inconfondibile:  Mozzo è una amber ale con aromi di frutta e erba, Ciurma è una lager dagli aromi freschi e intensi di malto, Camallo è una indian pale ale dalle dolci note iniziali di miele contrapposte a un finale fresco e asciutto. Cervisia si presenta oggi al grande pubblico con tre referenze, tre stili, tre caratteri differenti, per soddisfare anche i palati più esigenti e ricercati di chi ama birre dalla forte personalità”
Ma il comunicato stampa fornisce anche qualche informazione utile sulla ricetta:  la Pale Ale Camallo (6.4%), ad esempio, utilizza invece malti Pilsner, Vienna e Caramel Dark, luppoli in bollitura Magnum, Chinook, Centennial ed Ahtanum, con dry-hopping di Galaxy e Cascade. Sensazione di deja-vu? Sì, la ricetta “base” è la stessa usata qui e qui dallo stesso birrificio con, suppongo, qualche leggero aggiustamento. L’Amber Ale Mozzo è invece  prodotta con malti Pilsner, Caramel Dark, Aromatic e Chocolate, luppoli Magnum, Willamette, Centennial in bollitura, Galaxy e Cascade i dry-hopping, proprio come questa Amber Ale
Specifico subito che l'utilizzo degli stessi ingredienti non indica necessariamente che si tratti della stessa birra rietichettata: con gli stessi malti e luppoli si possono produrre birre molto diverse tra di loro. 
Passiamo quindi alla sostanza: limpidamente ambrata con riflessi ramati, Cervisia Mozzo forma una bella testa di schiuma ocra, compatta, fine e cremosa, dalla buona persistenza. L'aroma è praticamente assente (alla faccia del "dry hop" annunciato in etichetta) ed è una bottiglia che ha circa 7 mesi di vita sulle spalle: a fatica avverto caramello, toffee, qualche ricordo di biscotto ma anche una leggera nota metallica. Purtroppo in bocca non c'è un gran miglioramento: intensità molto scarsa, caramello e biscotto ai limiti della soglia di percezione, di nuovo una leggera presenza metallica ed un finale timidissimo nel quale s'intravede appena una puntina d'amaro terroso. Si può in un certo senso parlare di "equilibrio" perché in presenza di un'intensità così dimessa sarebbe davvero difficile provocare squilibri. Devo lamentarmi anche sulla sensazione palatale, con una spiccata acquosità che viene drammaticamente accentuata dalle pochissime bollicine: la bevuta è poco vivace, slegata, stanca. Faccio davvero fatica a finire i trentatré centilitri, e provo ad invocare l'uscita di sicurezza della "bottiglia sfortunata".
Formato: 33 cl., alc. 5.4%, scad. 27/11/2015.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 14 luglio 2015

Stillwater Cellar Door

Con la Cellar Door  si  concludono gli assaggi degli esordi di Stillwater Artisanal, beerfirm statunitense fondata da Brian Strumke nel 2010: il riassunto della sua storia lo trovate qui.  Dopo la Stateside Saison, la birra del debutto, arriva Celllar Door che verrà poi seguita a breve dalla Existent. E’ a maggio (2010) che Strumke annuncia sul proprio blog di aver terminato la sua seconda birra, disponibile inizialmente solo in casks e kegs a partire da giugno. Una birra volutamente pensata per i mesi più caldi dell’anno che viene prodotta con frumento e malti chiari tedeschi, lievito saison, luppoli Citra e Sterling e l’aggiunta di salvia bianca.  Le bottiglie non tardano ad arrivare, prima nel formato 75 e più tardi in quello da 35,5: l’etichetta è al solito opera del fidato amico, grafico e tatuatore Lee Verzosa, che per l’occasione realizza un fumante foro di proiettile su quella che potrebbe essere una porta di legno. L’etichetta riporta anche che si tratta di una “Wheat Ale”, e Ratebeer l’incasella tra le birre di frumento (Blanche/Wit); non sapendo la percentuale effettiva di frumento utilizzato, per BeerAdvocate rimane una saison. 
La sostanza parla di una birra dorata e dalla limpidezza un po’ inquietante per quella che vuole essere una “Farmhouse Ale”: da manuale invece la schiuma, bianca, fine e cremosa, dall’ottima persistenza. 
L’aroma è pulito ed elegante, con una discreta intensità composta da banana, miele, zucchero candito, pera, sentori floreali, salvia ed una delicatissima speziatura che richiama il pepe bianco ed il coriandolo. La piacevolezza del bouquet olfattivo è invece lasciata alla soggettività del bevitore: personalmente non impazzisco di gioia quando la banana incontra la salvia.  Detto questo, Cellar Door è una birra ben fatta e pulitissima anche al palato, con un corpo medio ed una discreta carbonazione a renderla vivace senza compromettere una generale sensazione di morbidezza e rotondità. Il gusto corrisponde quasi in pieno all’aroma ed è molto ben bilanciato tra le note di pane e di miele, la banana e la pera, lo zucchero e la frutta candita: l’inizio è dolce ma la chiusura è abbastanza secca con un amaro di buona intensità nel quale sono protagonisti salvia, erbe officinali e qualche leggera nota terrosa.  Birra ben fatta e che si beve con grande facilità, nella quale troverete un carattere elegante e molto poco rustico, nonostante l'utilizzo del termine "farmhouse ale" che tanto va di moda adesso negli Stati Uniti.
Formato: 35.5 cl., alc. 6.6%, lotto 267:14, scad. non riportata, pagata 5.40 Euro (beershop, Italia)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 13 luglio 2015

Gambolò Little Storm

Arriva nella primavera del 2013 la novità del Birrificio Gambolò  (qui il breve profilo) chiamata Little Storm.  Si  tratta di una interpretazione moderna (= luppolata) di una Mild Ale inglese. 
Le Mild erano birre molto popolari dal diciannovesimo secolo sino alla metà del ventesimo: secondo lo storico Ron Pattinson fu la scarsa diffusione al di fuori del Regno Unito la principale causa del declino di questo tipo di birre. Contrariamente alle Porter (alle quali le Mild  "rubarono" la popolarità) e alle Pale Ale, che invece le rimpiazzarono nelle preferenze dei bevitori, le Mild non furono mai esportate in grandi quantità e non furono mai replicate all'infuori dei confini della madre patria. Una volta che l'interesse degli inglesi verso queste birre scese, i birrifici smisero di produrle in quanto non c'era neppure richiesta dall'estero.
I nuovi microbirrifici ed il CAMRA hanno prolungato l'agonia dello stile evitandone l'estinzione, ma è vero che anche all'interno della cosiddetta "craft beer" le Mild Ale che vengono prodotte sono una percentuale davvero molto piccola. 
L'interpretazione di Gambolò sposta il focus dai malti (come vorrebbero le linee guida) ai luppoli, nella fattispecie Mosaic ed Amarillo. Nel bicchiere è di colore ambrato, con qualche riflesso tendente all'arancio; la birra è velata e forma una bella e compatta testa di schiuma biancastra dall'ottima persistenza. 
L'aroma è pulito anche se non particolarmente intenso: s'apprezzano i profumi dolci della frutta tropicale matura (mango, papaya, ananas) con qualche lieve ricordo di toffee e di tè verde. In bocca è molto leggera, con una carbonazione medio-bassa ed una discreta morbidezza che tuttavia non riesce a trasmettere quelle emozioni di uno stile nato per essere somministrato dal cask. Al palato è però meno pulita dell'aroma: la scelta della ricetta di privilegiare i luppoli ai malti porta ad una base maltata (caramello) leggerissima, ma se la luppolatura non brilla o inzia a sentire il passare del tempo allora la bevuta ha qualche passaggio a vuoto e sfocia nel (troppo) acquoso. C'è una generale presenza dolce di frutta tropicale (mango, melone), una chiusura abbastanza secca ed un amaro di discreta intensità che si dibatte tra il terroso ed il vegetale. La bevibilità è ottima (ma con un ABV di 3.8% sarebbe inconcepibile il contrario) mentre l'intensità e la pulizia solo discrete: l'interpretazione dello stile mi sembra interessante, con la costruzione di un delicatissimo equilibrio di luppoli anziché di malti che però risulta particolarmente soggetto al deterioramento temporale. Mi piacerebbe riprovarla freschissima, appena imbottigliata. 
Formato: 33 cl., alc. 3.8%, lotto 0415, scad. 12/02/2016, pagata 4.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 12 luglio 2015

Doctor Brew Sunny Ale & Molly IPA

Secondo appuntamento con Doctor Brew, la beerfirm polacca che vi ho presentato qualche settimana fa, fondata da Marcin Olszewski  e Lukasz Lis, entrambi ex-homebrewer che nel 2013 hanno trasformato il loro hobby in una professione. Il birrificio mi gentilmente inviato alcune birre da assaggiare "in fretta": sono tutte birre molto luppolate e dalla shelf life piuttosto breve, da bere il più rapidamente possibile. Invito che raccolgo prontamente.
In Polonia la craft beer revolution si sta attualmente sviluppando a suon di luppolo: è quello che la gente chiede ed è quello che la maggior parte dei birrifici sta producendo: APA, IPA e DIPA in grande quantità, mentre prevedo che ci vorrà ancora un po' per vedere il mercato orientarsi verso altri tipi di prodotti che, anche in altre nazioni, hanno progressivamente scalzato le IPA dall'hype generale.
Eccone altri due esempi firmati Doctor Brew.
Il primo è la Molly IPA (7.1%), 95 IBU ad opera di Chinook, Centennial, Mosaic (USA), Ella e Topaz (Australia); malto Pilsner, con aggiunta di fiocchi di riso. Nel bicchiere è dorata, leggermente velata, e forma un bianchissimo cappello di schiuma cremosa e compatta, dall'ottima persistenza. L'aroma è d'intensità abbastanza modesta, ed il bouquet dei profumi è tutt'altro che entusiasmante, con sentori di pompelmo ed erbacei; c'è anche una lievissima presenza sulfurea. 
Per fortuna le cose migliorano un po' in bocca, con un gusto di buona intensità che su una base maltata di pane e miele sviluppa un amaro molto intenso resinoso e vegetale, con qualche ricordo di erbe officinali. Non c'è però molta frutta, e qualche lieve nota di agrumi canditi non basta a fornire quel dolce sufficiente a bilanciare la bevuta. La pulizia è molto buona, ma la birra risulta piuttosto monotona e a lungo andare un po' noiosa, a meno che non amiate le spremute di succo verde. Bene invece la sensazione palatale: birra morbida, corpo medio, ottima scorrevolezza con poche bollicine. Si  beve e la sufficienza la porta a casa, ma personalmente in un IPA oltre all'amaro vorrei che ci fossero tante altre cose a rendere interessante, piacevole e stimolante la bevuta. Peccato, perché in bocca mi è sembrata la Doctor Brew più pulita bevuta sino ad ora.
Scendiamo ora di "livello" per stappare la Sunny Ale, che su Ratebeer viene inserita tra le American Pale Ales, nonostante i 60 IBU dichiarati (Amarillo, Galaxy, Mosaic); i malti sono Vienna, Pils, Pale Ale, Monaco e frumento.
Si presenta di colore oro carico, velato, ed una generosa schiuma bianca, pannosa e compatta, dall'ottima persistenza. Anche qui l'intensità dell'aroma latita, mentre freschezza e pulizia sono un po' carenti: mandarino, arancio, qualche generico sentore dolce di frutta tropicale. Non è molto diverso il gusto, anch'esso colpevole di essere poco pulito: crosta di pane, qualche nota di biscotto, un lieve intermezzo dolce di frutta tropicale prima di un'ondata amara erbacea, resinosa e leggermente zesty che diventa protagonista della maggior parte della bevuta. C'è una buona secchezza, mentre la sensazione tattile al palato è un po' troppo pesante per una birra dichiaratamente  leggera, estiva (o primaverile) da 5.2% ABV: il corpo è medio-leggero. Ci sono pochi profumi e poco equilibrio: non basta coprire tutto con una una carriola di amaro per rendere una birra piacevole e gradevole.
Due birre discrete, ma non prive di difetti e ampiamente migliorabili: sicuramente meglio la Molly, una IPA interessante e pulita che forse ha sofferto il passare del tempo dal suo imbottigliamento perdendo un bel po' del suo vigore. Ringrazio di nuovo Doctor Brew per avermi inviato le birre da assaggiare. 
Nel dettaglio:
Molly IPA, formato 50 cl., alc. 7.1%, IBU 95, scad. 24/06/2015.
Sunny Ale, formato 50 cl., alc. 5.2%, IBU 60, scad. 18/06/2015.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.