domenica 28 dicembre 2014

Nøgne Ø Dark Horizon 4th Edition

E siamo arrivati all'ultima birra del 2014, dopodiché il blog si prenderà una breve pausa defaticante e tornerà attivo con il nuovo anno. Mi sembra  giusto chiudere l'anno in bellezza, approfittando delle festività per stappare una di quelle bottiglie che hai in cantina e che lasci sempre in attesa di un occasione speciale. Il freddo è (finalmente) arrivato e la scelta è caduta su una sostanziosa Nøgne Ø: si tratta della Dark Horizon numero 4, forse la birra più "famosa" del birrificio norvegese fondato nel 2002 da Kjetil Jikiun, ma la cui maggioranza (54%), da novembre 2013, è detenuta dalla Hansa Borg Bryggerier, il secondo maggior produttore norvegese, e non stiamo parlando di "craft" ma di marchi piuttosto commerciali come Hansa, Waldemars, Borg. L'Hansa Borg ha anche la licenza di produrre per il mercato domestico l'Heineken. A voi decidere se considerare ancora Nøgne un produttore artigianale o no.
In sala cottura nulla è cambiato, per il momento: vi è ancora Kjetil Jikiun, l'ex pilota della Scandinavian Airlines con l'hobby dell'homebrewing; il suo lavoro lo portava di frequente negli Stati Uniti, ed è là che Kjetil fu contagiato dalla craft beer revolution al punto da mollare gli aerei ed aprire un microbirrificio.
E sono proprio gli Stati Uniti l'ispirazione dietro alla nascita della Dark Horizon: Kjetil voleva infatti realizzare qualcosa di simile alla Mephistopheles Stout della Avery, una massiccia imperial stout. La prima edizione di sole 6000 bottiglie numerate viene realizzata nel 2007 e diventa in poco tempo un ricercato oggetto di culto per i beer-geeks e per i beer-raters scandinavi, regione in cui le imperial stout vanno fortissimo.
La Dark Horizon, commercializzata in un scatola dal design molto ricercato, è stata poi replicata nel 2008 e nel 2010, con alcune leggere modifiche. Kjetil aveva ideato la prima versione come una birra "globale": ispirazione statunitense, malti inglesi, bottiglie di vetro tedesche, zucchero Demerara dall'isola Mauritius, luppoli dal Pacifico, ceppo di lievito canadese e caffè colombiano. Ad una massiccia imperial stout, inizialmente fermentata con un "normale" lievito ad alta fermentazione, vennero poi aggiunti una mezza tonnellata di zucchero Demerara, estratto di caffè fatto in casa e lieviti da vino. Il risultato (37° P, 75 IBU, 16% alc./vol.) ottiene l'oro alla World Beer Cup 2008 di San Diego, nella categoria 12: "Other Strong Ale or Lager",  in concorrenza con altre 28 birre. Una categoria molto "aperta", visto che l'argento andò alla Double Pilsner della Odell.  Imperial Stout vs. Pilsner ?
Nell'agosto 2012 viene prodotta la quarta (ed ultima, sino ad oggi) edizione della Dark Horizon, che è poi commercializzata nella primavera 2013 in un'elegante confezione triangolare di cartone, con la bottiglietta incartata di viola all'interno.
Assolutamente nera, riesce a malapena a formare un dito di schiuma nocciola un po' grossolana e poco persistente, ma per una birra dal tenore alcolico così elevato non c'era d'aspettarsi molto di più. L'aroma è complesso, dolce e forte, e privilegia l'opulenza piuttosto che l'eleganza: passano in  rassegna caffè, orzo tostato, cenere, tabacco, prugna, uvetta, liquirizia, rum e fruit cake. Al palato il corpo è meno pieno del previsto, sconfinando quasi nel medio; è praticamente piatta, non fosse per una finissima effervescenza che però non riesce ad emergere dalla grande viscosità di questa birra, che avvolge il palato con una morbida carezza quasi in contrasto con l'intensità e la potenza del suo gusto. Il percorso in bocca inizia molto dolce di uvetta, prugna, datteri, fruit  cake, more e mirtilli; proprio quando inizi a pensare che sia troppo dolce, ecco che la Dark Horizon trova il suo equilibrio, grazie ad un evidente ma non invadente calore etilico ed all'acidità e all'amaro del caffè. La birra è massiccia ed impegnativa, ma si sorseggia senza troppi sforzi: alcool, caffè amaro e frutta dolce sono molto ben amalgamati tra di loro, e sono anche i protagonisti di un retrogusto praticamente infinito, morbido e caldo. Non so come sarà questa birra tra qualche anno quando il caffè sarà definitivamente scomparso: il rischio di un naufragio nel dolce è davvero concreto: se anche voi ne avete una bottiglia in cantina in attesa di una buona occasione per berla, il consiglio è di non far passare troppi anni. Al momento attuale Dark Horizon è ancora una gran bella bevuta, che impegna ma regala belle soddisfazioni, bevendola con calma dopocena, in poltrona, sul divano e potete aggiungere tutte le altre stereotipate immagini "meditative" che vi vengono in mente (caminetto? davanti alla finestra mentre fuori nevica?). Il formato da 25 cl. è quello giusto, considerato il contenuto alcolico: terminata la bottiglia, non ho avvertito la necessità di berne ancora. Potreste accompagnarla anche ad un pezzetto di cioccolato fondente (andate dal 70% in su), ma è una birra così sostanziosa e densa che si può quasi considerare lei stessa un dessert.
Apro una parentesi sul prezzo: non so se qualche bottiglia sia mai arrivata in Italia ed  a che prezzo, ma in Norvegia, dove gli alcolici sono molto cari, viene venduta a 52 Euro al litro. La domanda inevitabile che ti poni a fine bicchiere è: "ne vale la pena"?  La risposta arriva subito, nonostante la birra ispiri la cosiddetta meditazione: "no".
Formato: 25 cl., alc. 16%, IBU 100, lotto 857/858, 22/08/2012, scad, 22/08/2022, pagata 13.16 Euro (Vinmonopolet, Norvegia)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 26 dicembre 2014

Almond 22 Christmas Cru

Si chiama Christmas Cru la proposta natalizia del birrificio abruzzese Almond '22, guidato dal 2003 dal birraio Jurij Ferri. Il nome scelto rimanda ad un altra produzione Almond, la Grand Cru, della quale questa birra natalizia ne è una più robusta variazione. 
Se non erro veniva solitamente prodotta con mosto cotte di uve Montepulciano d'Abruzzo, mentre l'edizione 2014 ha visto l'utilizzo di miele di Stachys, zucchero candito e spezie.
Nel bicchiere è di colore ambrato, con qualche sfumatura arancio, velata; molto bella la schiuma, ocra, fine, compatta e cremosa, dalla buona persistenza. Al naso è proprio il miele in bella evidenza, assieme ad una elegante e delicata speziatura dove s'affacciano sentori di coriandolo e zenzero, soprattutto; in secondo piano curaçao, biscotto, canditi (cedro, arancia) e zucchero candito. Gradevolissima e morbida in bocca, riesce ad essere avvolgente pur mantenendo un grande scorrevolezza e facilità di bevuta: il corpo è medio, le bollicine sono poche e - secondo me - qualcuna in più sarebbe stata meglio. Il gusto non nasconde il suo voler essere marcatamente dolce e festivo, accompagnando la speziatura con un contorno di biscotto e caramello, miele, frutta sciroppata (albicocca), arancia e cedro candito: c'è comunque una leggera acidità a bilanciare la bevuta, che risulta sempre molto equilibrata. 
Anche la presenza dell'alcool (9.5%) è tenuta sotto controllo con grande maestria: il guinzaglio viene sciolto solo quando necessario, ovvero nel retrogusto, morbidamente caldo e ricco di dolce frutta sotto spirito.
Strong Ale natalizia che guarda al Belgio, pulita, molto ben fatta e bilanciata: si lascia bere da sola con molta facilità, ma già che l'avete nel bicchiere perché non accompagnarla ad uno dei tanti dolci che adornano le nostre tavole in questo periodo? 
Formato: 75 cl., alc. 9.5%, IBU 20, lotto 1A, scad. 10/2017, pagata 9.00 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 25 dicembre 2014

To Øl Shameless Santa 2013

Nel vasto portfolio brassicolo della beerfirm danese To Øl non potevano certo mancare diverse proposte natalizie; ci sono i pesi "leggeri", come la saison invernale (?) Snowball  e una APA (Frost Bite) prodotta con aghi di pino e scorza d'arancio. E poi c'è il peso massimo Jule Mælk, una robustissima imperial stout (15%!).  A metà strada si colloca invece la birra natalizia che più delle altre guarda alla tradizione belga: una classica strong ale (Shameless Santa), disponibile anche in versione barricata con il nome di Shamelessly Barrel Aged. 
I due birrai zingari danesi la definiscono una Belgian Strong Red Ale, qualsiasi cosa ciò voglia dire: l'uso abbondante di malti caramellati (ecco il riferimento alle Red Ale) s'incontra con un lievito belga molto attenuante che, secondo le note dell'importatore italiano, viene fatto fermentare a 28-30°C per sviluppare note fruttate e speziate in abbondanza. La luppolatura è affidata a Mandarina e Calypso.  
Perché si chiama "il Babbo Natale spudorato"? Perché secondo To Øl non è assolutamente vero che a lui piaccia andare in giro a distribuire i regali; lui preferirebbe di gran lunga starsene comodo in poltrona, ad inzuppare il pane nella fondue ed a mangiare cioccolato sorseggiando (ovviamente) la Shameless Santa.
Edizione 2013, vestita tra l'ambrato ed il tonaca di frate, velato; testa di schiuma a trama fine, compatta e cremosa, color ocra, molto persistente. L'aroma apre con gradevoli sentori di pasticceria, di meringa e zucchero a velo, per poi passare alla frutta candita (cedro, arancio) e ad una delicata speziatura, dalla quale emerge il coriandolo. Completano il bouquet la marmellata d'arance ed il caramello. L'inizio abbastanza promettente non trova però adeguati riscontri in bocca, dove la birra è molto meno interessante: se la giocano caramello e canditi, supportati da un robusto warming di frutta sottospirito (uvetta). Rimane da annotare la presenza di zucchero candito e di una discreta acidità che, a fine corsa, alleggerisce un po' una birra abbastanza impegnativa, dal corpo medio e poco carbonata; chiude con un retrogusto piuttosto etilico, anche se morbido, che riscalda a colpi di frutta sotto spirito. Disponibile (al momento) solo nel generoso formato da 75 cl., la Shameless Santa si fa sorseggiare con discreta soddisfazione anche se la noia fa ogni tanto capolino dal bordo del bicchiere. Bene l'aroma, che richiama il periodo natalizio con i suoi dolci, meno emozionante il gusto che è comunque pulito e che riesce a bilanciare il suo dolce con una lieve acidità ed un robusto calore etilico.
Formato: 75 cl., alc. 10%, lotto 2013, scad. 10/09/2018, pagata 16.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 24 dicembre 2014

Delirium Christmas

E' Léon Huyghe,  arrivato a Melle (una quindicina di chilometri a sud-est di Gand) nel 1902, a fondare quattro anni dopo la Brouwerij Den Appel, rilevando la proprietà di un birrificio preesistente. Il nome rimane in uso sino al 1936, quando viene modificato in Leon Huyghe Ltd. Nel corso degli anni il birrificio è stato sottoposto a numerose espansioni che hanno consentito la produzione di una vastissima gamma di prodotti e di marchi, anche per conto terzi. L'accusa che viene loro rivolta (cito la Good Beer Guide Belgium) è quella di produrre sostanzialmente delle leggerissime varianti di poche birre "base", dal gusto identico. Prendiamo ad esempio l'atroce linea di radler/birre alla frutta chiamata Floris (la tremenda Florisgaarden Chocolat Gardenbeer si becca un sintomatico 1/100 su Ratebeer) che sono offerte anche con una diversa etichetta (Morels) e che non differiscono molto dalle tropicaleggianti Mongozo o da altre birre alla frutta, sempre prodotte da Huyghe, chiamate Früli.
Non è un caso che dietro alla loro birra di maggior successo ci sia anche una grande operazione di marketing e d'immagine. La famosa birra dell'elefantino rosa, la Delirium Tremens, venne prodotta per la prima volta nel dicembre del 1988, diventando velocemente la flasghip beer di Huyghe, accompagnata da un vasto merchandising. Inizialmente bandita dagli Stati Uniti e dal Canada, ha visto nascere nel 1992 una "confraternita di adepti" (Confrerie van de Roze Olifant) a scopo promozionale; nel 1999, per celebrarne il decennale, nacque  la Delirium Nocturnum, mentre la Huyghe continua la sua crescita acquistando e poi chiudendo altri birrifici belgi ed incrementando l'export che arriva ad assorbire il 70% della produzione. Nel 2012 vengono inaugurati i nuovi impianti, che con un investimento di sette milioni di euro permettono di aumentare la capacità produttiva a 350.000 ettolitri l'anno. Rimangono da citare il Délirium Café, a Bruxelles, le caratteristiche bottiglie di vetro che cercano di emulare la ceramica e, ovviamente, la Delirium natalizia.
Alternativamente commercializzata come Delirium Christmas o Delirium Noël, si presenta nel bicchiere di un bell'ambrato carico con riflessi ramati, limpido; solido e generoso il cappello di schiuma, color ocra, cremoso e molto persistente. L'aroma delude, è quasi assente: a fatica emergono sentori di caramello e biscotto, frutta secca, pera e canditi. L'elevatissima carbonazione è la prima cosa che risalta al palato, disturbando la percezione del gusto; la consistenza è quasi oleosa, il corpo medio. Biscotto e toffee danno il benvenuto, c'è un accenno di uvetta e di frutti rossi, c'è il dolce dello zucchero candito. Il finale è sorprendentemente secco, con una lieve nota amaricante di frutta secca ed erbacea che non ti saresti mai aspettato. L'alcool (10%) è molto ben nascosto, e sono piuttosto le bollicine in eccesso a rallentare la velocità di bevuta: ma il principale difetto dell'elefantino rosa natalizio è, in netto contrasto con la sua immagine eccentrica, la noia. Pochi elementi in gioco in una strong ale monocorde che, a parte riscaldare in maniera morbida e discreta che la beve, risulta molto avara nel dispensare emozioni. 
Formato: 33 cl., alc. 10%, lotto 21 14 246, scad. 09/2017, pagata 4.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

Opperbacco Imperial Deep Underground

La bevuta di oggi è ideale continuazione di quella di un mesetto fa: Deep Underground, la porter molto luppolata di Opperbacco, realizzata in collaborazione con gli homebrewers Matteo “Iumbe” e  Loreto Lamolinara.
I primi assaggi della sua versione "imperiale" si possono fare lo scorso gennaio, durante l'edizione 2014 di Rhex Rimini, ovvero (ex Selezione Birra, ex Pianeta Birra e, a febbraio 2015, Beer Attraction. 
La ricetta è essenzialmente la stessa (malti pale ale, pilsner, chocolate, cristal wheat, avena, special b, black) con la stessa abbondante luppolatura (Summit e Dana) e in più l'aggiunta di caffè e liquirizia a fine bollitura. Anche l'etichetta non si discosta molto da quella della sorella minore, con la l'aggiunta della solita corona "imperiale" e chicchi di caffè.
Anch'essa nera, con una perfetta testa di schiuma beige cremosa e compatta, molto fine e molto persistente. L'aroma non è particolarmente intenso, ma è comunque molto pulito: in primo piano caffè e liquirizia, pompelmo, ed una lieve componente fruttata dolce a metà strada tra frutta tropicale e frutti di bosco. Ottima la sensazione palatale: birra morbida, quasi cremosa, con poche bollicine ed un corpo tra il medio ed il pieno. 
Il gusto mi appare invece un po' irrisolto tra malti e luppoli, indeciso su quale strada prendere: si parte dalle tostature e dal pane nero per poi virare sul dolce della polpa d'agrumi e (lievemente) della frutta tropicale; caffè, liquirizia e tostature rimangono molto in sottofondo. I luppoli dominano anche nel finale, ricco di vivaci note resinose, vegetali (menta?) e terrose, lasciando caffè e tostature di nuovo in sottofondo. 
Ripropone in parte l'enigma della sua sorella minore Deep Underground: troppo luppolo anche per una Imperial Hoppy Porter, questa volta il risultato s'avvicina di più a quello che potrebbe essere una Imperial Black Ipa.  La birra è solida e ben fatta, priva di difetti, l'alcool è molto ben nascosto ma - e qui è solo una questione di gusto personale  - non sono riuscito a capirla: ha la morbidezza e la cremosità (quasi) di un'impegnativa imperial stout, ma a questo punto il gusto abbondantemente luppolato meriterebbe forse una maggiore scorrevolezza. Tra le due sorelle, il mio "voto" va alla più elegante Deep Underground "normale".
Formato: 33 cl., alc. 9.5%, IBU 104, lotto 1014, scad. 03/2016, pagata 4.00 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 23 dicembre 2014

Hornbeer The Fundamental Blackhorn

Breve pausa dalle birre natalizia ed ultimo debutto dell'anno sulle pagine del blog. Si tratta di Hornbeer, birrificio sito a Kirke Hyllinge, nella penisola dello Hornsherred dal quale prende il nome, venti chilometri ad ovest di Roskilde ed a cinquanta da Copenhagen. Lo aprono a maggio del 2008 il birraio Jørgen Fogh Rasmussen e sua moglie Gundhild. Una piccola curiosità: Jørgen è il fratello di Anders Fogh Rasmussen, il più longevo primo ministro danese, rimasto in carica dal 2001 al 2009; sino allo scorso settembre ha poi ricoperto il ruolo di segretario generale della Nato. 
L'apertura del microbirrificio è un sogno che Jørgen, homebrewer dagli anni '70, riesce a coronare dopo lunghissimo tempo: l'inizio non è però dei migliori. Pochi mesi dopo l'inaugurazione, in agosto, i locali vengono devastati da un incendio e la produzione sino all'autunno del 2009 deve appoggiarsi ad altri birrifici.
Ma una volta ripristinato il piccolo impianto da cento litri, per Jørgen e la moglie Gundhild, illustratrice e pittrice, i cui quadri diventano poi le etichette delle bottiglie, arrivano finalmente le prime soddisfazioni. 
Nell'anno del debutto, il 2008, la Danske Ølentusiaster (associazione di appassionati birrofili danesi) aveva proclamato la neonata Caribbean Rumstout come la migliore birra danese dell'anno. Si potrà obiettare che la scena brassicola danese non è particolarmente affollata e/o competitiva, con attualmente circa 150 microbirrifici molti dei quali hanno però una distribuzione molto limitata. Nel 2009 Hornbeer condivide a pari merito con Mikkeller il premio di birrificio (Mikkeller?)  danese dell'anno, per poi vincerlo in solitudine nel 2010, 2011 e 2013. 
La birra che ha maggiormente contribuito a rimpolpare la bacheca del birrificio è senza dubbio The Fundamental Blackhorn, una massiccia imperial stout (ABV variabile tra 10 ed 11%) medaglia d'oro 2011 al Beer & Whisky Festival di Stoccolma, miglior birra "forte" danese del 2012 e medaglia d'argento ottenuta alla Beer Cup 2012 di San Diego nella categoria American Imperial Stout.
E' prodotta con malti Black, Coffee e Chocolate, miele, e viene poi fatta maturare su chips di rovere e noci. 
Eccola nel bicchiere, maestosamente nera con il suo splendido "cappello" di schiuma color nocciola, compatta, cremosa e molto persistente. L'aroma non è esattamente l'immagine dell'eleganza, ma ha una buona intensità nella quale s'intrecciano soprattutto alcool, caffè, orzo tostato e liquirizia, con qualche lieve sentore di agrumi, legno umido, tabacco e frutta secca. La tradizione scandinava è perfettamente rispettata al palato: corpo pieno, birra densa, poco carbonata, catramosa, quasi masticabile. Il primo sorso,  dopo un breve ingresso fruttato di agrumi (è un American Imperial Stout, quindi generosamente luppolata), è un'ondata nera fatta di orzo tostato, liquirizia e caffè, legno, cenere e tabacco, perfettamente corrispondente all'aroma. L'alcool è molto meno evidente in bocca che al naso, con una bevibilità meno impegnativa del previsto: è comunque una birra molto intensa che si sorseggia con calma e che vi accompagna per tutta la serata. A ripulire il palato dal nero del catrame ci sono una leggera acidità del caffè e soprattutto una generosa luppolatura resinosa: il finale è (molto) amaro, tostato, resinoso, terroso, con un morbido warming etilico. 
Imperial Stout solidissima e molto ben fatta, che rincuora e riscalda per poi accompagnarti tra le braccia di Morfeo, con il suo generoso formato da mezzo litro: ideale ma banale, come ho fatto io, accompagnarla ad una tavoletta di cioccolato fondente, ma dicono sia ottima anche con formaggi erborinati o invecchiati. Se non avete fame, abbinatela invece alla poltrona, al caminetto, a un libro o ad un film.
Formato: 50 cl., alc. 11%, IBU 120, scad. 23/09/2022, pagata 11.51 Euro (Vinmonopolet, Norvegia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 22 dicembre 2014

Abbaye des Rocs Speciale Noel

Come vuole la tradiziione belga, non ci sono molte informazioni sul sito ufficiale della Brasserie des Rocs. Viene fondata nel 1979 a Montignies-sur-Roc in Vallonia, nella provincia dell’Hainaut e situata ad una decina di chilometri dal confine francese ed anche  dallla Brasserie Des Blaugies: informazione molto utile se avete intenzione di fare una vacanza da quelle parti. 
Bisogna cercare un po’ in internet e districarsi tra francese e fiammingo per mettere insieme qualche riga di presentazione del birrificio messo in piedi da Jean Pierre Eloir, ex-impiegato al catasto, e dalla moglie Marie-Jeanne Bertiau, figlia di Gilbert Bertiau, un tempo birraio prima alla Brouwerij Cavenaile di Dour e poi alla Declercq di Hazebrouck (Francia).  Sembra che a seguito di una scommessa fatta con il suocero ormai in pensione, il quale lamentava come il lavoro del birraio fosse molto difficile e faticoso, Jean Pierre iniziò con l’homebrewing per dimostrargli che era possibile  produrre una buona birra anche nella propria cantina, con pochi mezzi, pochi sforzi e con poca esperienza.
Il gioco si trasformò poi in un hobby, con una ottantina di litri di birra che venivano prodotti ogni due settimane in garage; la necessità di “smaltire” la produzione convinse Jean Pierre a richiedere i permessi e le autorizzazioni necessarie per operare commercialmente. 
Nacque così nel  dicembre 1979 la Brasserie Eloir-Bertiau, produttrice di una sola birra chiamata Abbaye des Rocs, ideata con un ceppo di lievito recuperato da alcune bottiglie di Rochefort e Westmalle; è questo l’unico legame – se lo si vuole cercare – con la cosiddetta “birra d’abbazia” belga.  Il nome infatti scelto Abbaye des Rocs si riferisce  (un po’ furbescamente, si potrebbe dire oggi a posteriori) solamente ad un vecchio rudere di  campagna che si trova a qualche centinaia di metri dalla casa dei coniugi, un tempo possedimento dell’Abbazia di Crespin. Considerata la limitata capacità dell’impianto, Abbaye des Rocs rimase l’unica birra prodotta sino al 1985 quando, in occasione delle festività, venne realizzata una Abbaye des Rocs Spéciale Noel seguita l’anno successivo da La Montagnarde
E’ solo nel 1987 che le cose iniziarono a diventare più grandi: il birrificio divenne una società a responsabilità limitata e venne costruito un nuovo locale adiacente alla casa di famiglia per ospitare i nuovi impianti di seconda mano  (l'ammostatore era stato utilizzato anche nell’abbazia di Chimay)  che consentirono di aumentare la produzione da 80 a 1500 litri. Anche i cambiamenti furono più veloci: nel 1990 nacque la Blanche des Honnelles, e nel 1991 il birrificio cambiò nome in Brasserie des Rocs per poi diventare, nel 1993, una società per azioni. Ma la novità più rilevante fu quella del 1996 con il birrificio che aveva ormai raggiunto gli 800 ettolitri l'anno: il testimone passò nelle mani di Nathalie Eloir, figlia di Jean Pierre, che andò in sala cottura mentre il padre decise di occuparsi soprattutto degli aspetti commerciali. Arrivarono una dopo l'altra Abbaye des Rocs Blonde, Abbaye des Rocs Grand Cru e Abbaye des Rocs Triple Imperiale; la produzione è destinata per la maggior parte all'esportazione, con Stati Uniti, Francia e Italia come mercati principali. Molte birre sono leggere varianti della  Abbaye des Rocs, prodotte su esplicita richiesta di clienti esteri, che all'inizio del ventunesimo secolo portarono la produzione a 3000 ettolitri l'anno.
Non sorprende dunque che la natalizia del birrificio di Montignies-sur-Roc, prodotta per la prima volta nel 1985, non sia molto diversa dalla sua birra più famosa, l'ottima Abbaye des Rocs Brune che si trova abbastanza  facilmente in Italia anche sugli scaffali dei supermercati con un ottimo rapporto qualità prezzo.
Edizione 2013, che va versata nel bicchiere con cautela perché sul fondo della bottiglia si agitano grosse particelle di lievito/proteine. Il colore è tonaca di frate, con intensi riflessi rosso rubino; impeccabile la schiuma color beige chiaro, compatta, fine, cremosa e dalla buona persistenza. Il naso non nasconde certo le sue intenzioni di "essere dolce": abbondanza di zucchero, ciliegia sciroppata, uvetta e prugna, caramello. L'etichetta non riporta l'uso di spezie ma non va dimenticata la "regola numero uno": non fidarsi mai di quello che dice un birraio belga. L'utilizzo di spezie (se c'è stato) è davvero parco con il risultato molto azzeccato di delicatissimi sentori di cannella e di chiodi di garofano che risultano gradevoli anche a chi non ama le birre speziate. Il percorso continua in linea retta senza nessuna deviazione, riproponendo al palato quanto già passato in rassegna: caramello, prugna e uvetta, ciliegia con l'aggiunta di biscotto e di note di vino liquoroso che a tratti ricordano un porto. L'alcool è ben nascosto e non riesce ad "asciugare" tutto il dolce del gusto, ma in suo aiuto arriva un po' di amaro, terroso, che chiude la bevuta evitandole di scivolare dal "dolce" al "troppo dolce". La scia che lascia è di nuovo dolce, morbida e tiepidamente etilica, con prugna, uvetta, caramello e zucchero.
La Speciale Noel della Brasserie de l'Abbaye des Rocs mi sembra sostanzialmente una leggera variazione alla Brune, della quale ne ricalca corpo (medio), carbonazione (media), gradazione alcolica e tutte le altre caratteristiche principali, con l'aggiunta di una delicatissima speziatura. Essendo molto buona la Brune, ne deriva un'altrettanto gustosa e soddisfacente birra natalizia dall'ottima bevibilità che forse reclama un pochino di calore etilico in più, essendo destinata ad essere consumata nei mesi più freddi dell'anno.
Formato: 75 cl., alc. 9%, lotto 133201741, scad. 11/10/2015, pagata 6.88 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 21 dicembre 2014

De Dolle Stille Nacht 2014

Il Natale di ogni birrofilo può dirsi tale solamente quando riesce a mettere le mani sulla Stille Nacht: è solo allora che può esclamare: "adesso è Natale!".
Stille Nacht è la natalizia di De Dolle, birrificio belga che si trova ad Esen ed è guidato dal "pazzo" Kris Herteleer; la storia di questa birra ve l'ho già raccontata l'anno scorso, e la potete trovare qui assieme alla descrizione della Stille Nacht 2013.  Ai "novizi" devo ricordare che questa è una delle (poche) birre che vale davvero la pena di tenere in cantina per molto tempo e di fare invecchiare per andare poi alla scoperta dei cambiamenti nel corso degli anni. Ma se decidete di percorrere questa affascinante strada, sappiate che ci sono pochissime certezze: è una birra imprevedibile, che rispecchia il suo creatore. Impossibile non citare Kuaska: "può capitare un'annata che, giovanissima, appaia francamente deludente, facendoci dubitare sul lavoro di De Dolle e che, dopo pochi mesi o qualche anno, si schiude come una bellissima farfalla dalla sua crisalide. E viceversa, Stille Nacht battezzate dagli esperti come capolavori assoluti, che durante la maturazione perdano verve senza confermare le promesse di lunghissima vita e di gemma assoluta".
Il consiglio è sempre il solito: nonostante il suo prezzo sia un po' lievitato negli ultimi anni, acquistatene sempre più di una bottiglia; consumate il rito di berne una "fresca", per celebrare l'arrivo del Natale e prendete qualche "appunto di degustazione". Mettete le altre in cantina, lasciate passare qualche anno e poi stappatene una, confrontando quello che avete nel bicchiere con quanto avevate scritto a suo tempo. Sarà un'esperienza molto divertente e ricompensante. 
Che dire della "giovine" Stille Nacht 2014? Il millesimo è impresso sul tappo, come avviene ormai da qualche anno: personalmente lo preferivo scritto in basso a destra dell'etichetta.
Il colore è arancio carico, opaco, con qualche lieve sconfinamento nell'ambrato; compatta e cremosissima la schiuma biancastra, dall'ottima persistenza. Il naso, all'apertura, è ricco di mela e pera al forno, frutta candita (cedro, arancio) ma mi sembra d'avvertire anche qualche lievissima nota fenolica (plastica) ed un punta di lattico. Continuo ad annusare per cercare conferme, ma dopo qualche minuto non ci sono più sono invece apparsi il miele e le spezie (pepe), il mosto d'uva. Birra dall'imprevedibile evoluzione nel corso degli anni, dicevo prima, ma capace di regalare impressionanti cambiamenti anche dopo solo una ventina di minuti che l'hai versata nel bicchiere. L'imbocco è un po' ruvido, inizialmente aspro, e di nuovo appare quella leggera nota lattica che dopo qualche minuto scompare, e la Stille 2014 dà il meglio di sé dopo diversi minuti che è nel bicchiere e la temperatura è salita intorno ai quindici gradi: ritornano i canditi dell'aroma, c'è frutta sotto spirito (albicocca), miele e caramello, zucchero candito. La bevuta, inizialmente spigolosa ed un po' irrisolta, s'ammorbidisce in un equilibrio ben riuscito dove acidità ed asprezza (uva spina) vanno a bilanciare il dolce dello zucchero e dei canditi. Il finale è una nuova sorpresa, inaspettatamente secco, con un retrogusto quasi vinoso dove l'alcool, sino ad ora solamente un silenzioso compagno di viaggio, fa sentire la sua presenza rincuorandoti e riscaldandoti dal freddo dell'inverno.
Celebrato il Natale, è il momento di mettere la Stille in cantina e di affidarla al tempo: solo lui saprà dirci, nel corso degli anni, se da questa crisalide uscirà lentamente una splendida farfalla.
Formato: 33 cl., alc. 12%, scad. 12/2019, pagata 5.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 20 dicembre 2014

Vicaris Winter 2014

Si chiama semplicemente Winter la natalizia della Brouwerij Dilewyns di Dondermonde, che vi ho presentato in questa occasione. Come il nome suggerisce più che di una vera e propria birra natalizia si tratta di una birra stagionale disponibile nei mesi più freddi dell'anno, solitamente a partire da novembre.  
Il millesimo 2014 arriva nel bicchiere di color tonaca di frate, opaco; la testa di schiuma è compatta e "croccante", di colore beige, cremosa e molto persistente. 
Al naso toffee, frutti rossi, ciliegia, zucchero candito, liquirizia (dolce, avete presente le rotelle?), con sentori  più leggeri di uvetta e di prugna. Il gusto porta invece sugli lo scudi la liquirizia, indiscussa protagonista, affiancata da note di biscotto e pane nero, toffee, uvetta e zucchero. La marcata dolcezza viene contrastata da una leggera acidità (accenno di caffè) e da una leggerissima nota amaricante terrosa, breve pausa prima di un retrogusto dolce dove ritornano uvetta e prugna assieme ad un timido tepore etilico, unica avvisaglia di un alcool (10%) altrimenti celato in maniera assolutamente straordinaria.
Birra molto dolce ma mai stucchevole, dal corpo medio e col giusto ammontare di bollicine, scorre molto bene in bocca sacrificando un po' la presenza e risultando  a sorpresa un po' carente nella sua funzione di "winter warmer": a voi stabilire se in questo caso la sorprendete facilità di bevuta sia un piccolo difetto o un grande pregio. In ogni caso, la bevuta è pulita e risulta alla fine soddisfacente. 
Formato: 33 cl., alc. 10%, scad. 01/07/2017, pagata 3.40 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 19 dicembre 2014

Le Trou du Diable Saison du Tracteur

“Il buco del diavolo”  (Le Trou du Diable) è il nome dato ad una serie di rapide del fiume Saint-Maurice che  - si dice – sembrano precipitare così in basso da arrivare all’inferno; lo stesso nome viene utilizzato da André Trudel e Issac Tremblay per  il brewpub aperto nel 2005 a Shawinigan, cittadina industriale del Québec a 150 chilometri da Montreal. Dei due è André  - ex homebrewer -  ad occuparsi della produzione, con Issac nel ruolo del “motivatore”:  "le sue birre erano così buone e gli dissi che era davvero un peccato che restassero un piccolo segreto casalingo". Col passare del tempo il birrificio ha affinato la sua produzione spingendosi sempre di più nel territorio degli affinamenti in botte e delle fermentazioni spontaneee, diventando oggi uno dei più apprezzati produttori craft canadesi. 
Non capita molto spesso di poter assaggiare Trou du Diable in Italia, ma di recente ne sono state importate diverse bottiglie e fusti che, se non erro, hanno fatto il loro debutto allo scorso Eurhop. Se avete intenzione d’assaggiarle, cercate quindi di reperirle finché ce ne sono. 
Dal vasto portfolio ecco uscire una Ale Agricole, equivalente francese del termine Farmhouse Ale a sua volta equivalente (e torniamo al francese) di Saison; se credete ai concorsi, sappiate che la Saison du Tracteur racimola premi dal 2010, tra World Beer Awards ed Mondial de la Bière. E i premi mi trovano assolutamente d’accordo, questa volta.  
Ed è una saison che trasuda di campagna sin dalla splendida etichetta un po’ retrò: nel bicchiere è arancio pallida, opalescente, con il classico generoso cappello di schiuma bianca, compatta, quasi pannosa, molto persistente. Al naso, pulitissimo,  c’è un benvenuto di spezie (pepe, coriandolo), erba appena tagliata, leggeri sentori di pera e banana, arancia, scorza di limone, crosta di pane, cereali ed una nota “funky” di paglia, di fienile. Chiudete gli occhi ed immaginatevi, accaldati ed affaticati, con questo profumato bicchiere in mano seduti sull’erba, in un assolato ed afoso pomeriggio estivo. Il primo sorso vi sembrerà perfetto: birra vivacemente carbonata, scorre agile e veloce in bocca con un corpo che oscilla tra il medio ed il leggero. A palato, come al naso, vi ripasserà davanti tutta la campagna, dal frutteto al fienile: pane, cereali, crackers, accenni di miele, arancia (polpa e scorza), limone e, davvero, paglia:  lievito e segale contribuiscono nel conferirle un’elegante rusticità, un po’ pepata, che a tratti quasi riscalda il palato. Il dolce dell’arancio, che tende un po’ a predominare su tutto il resto, viene bilanciato da una leggera acidità che la rende molto dissetante e rinfrescante.  Chiude secca, con un retrogusto morbido ma intenso di erba tagliata e di scorza d’agrumi, con qualche leggerissima sfumatura terrosa. 
Saison davvero sorprendente, ancora freschissima e fragrante nonostante quasi un semestre alle spalle: profumatissima, intensa ma al tempo stesso facilissima da bere, molto ben equilibrata tra dolce, amaro, eleganza, rusticità e spezie. Da bere ad ettolitri, e se solo la sua acidità fosse un po’ più pronunciata per meglio contrastare il dolce dell’arancio, la potrei quasi nominare “bevuta dell’anno”.   
Formato: 60 cl., alc. 6%, IBU 35, imbott. 09/07/2014, pagata 8.70 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 18 dicembre 2014

Baladin Nöel Café

Eccoci all'inaugurazione ufficiale della stagione natalizia 2014, con la prima birra di Natale; restiamo in Italia da quello che viene considerato il colpevole (La birra artigianale – È tutta colpa di Teo) della (ri)nascita della birra artigianale in Italia: Birrificio Agricolo Baldin e Teo Musso.  
Era il 1996, anno in cui il Le Baladin aperto a Piozzo da Teo Musso nel 1986 viene trasformato in brewpub, con la produzione di un Blonde e di una Ambrée seguite, nel febbraio 1997, dalla nascita della Super, la prima birra Baladin in bottiglia. La birra di Natale di Baladin viene semplicemente chiamata Nöel, e vede la luce nel 1998: molto probabilmente si tratta della prima birra natalizia (artigianale) italiana, se qualcuno ha dati per smentire o confermare me lo può indicare nei commenti.  In quel periodo i microbirrifici in Italia si contavano sulle dita di due mani. 
Pian piano la Nöel è poi diventata – a grande richiesta degli appassionati – una birra disponibile tutto l’anno, ed ha visto in tempi più recenti la nascita della sorella gemella Leon, un'anagramma che meglio si adatta alla commercializzazione ed al consumo al di fuori delle festività. Nel corso degli anni la natalizia di Teo Musso è anche stata protagonista di interessanti variazioni: nel 2002  cinquecento litri di Nöel vennero fermentati con il 25% di mosto di Dolcetto, per creare la Nöel Perbacco;  nel 2004 fu presentata al sole del gusto la  Nöel Chocolat  prodotta con le fave del rarissimo (?) cacao Ocumare 67 della Hacienda San José, aggiunte in fase di bollitura. Tre anni dopo arriva la Nöel Café, con un vero chicco di caffè che venne inserito manualmente in ogni bottiglia.  L’ultima variazione a me nota è la Nöel Vanille, realizzata con bacche di vaniglia provenienti dal Madagascar. 
Proposta per il Natale 2014 (ma anche 2013, mi risulta) è di nuovo la Nöel Café; la ricetta prevede l’utilizzo di  “un  caffè speciale, il “Terre Alte”, frutto di una miscela dolcissima con aromi speziati e floreali, nato dall’unione di due pregiate coltivazioni di montagna, Presidi Slow Food, di originarie della Guatemala (Huehuetenango) e  Honduras (Montagna Campara). Tostato a legna in Italia nella Casa Circondariale di Torino a completare un percorso di solidarietà e sostenibilità.”   
E’ da molti anni che non bevo una  Baladin Nöel, le ultime bottiglie risalivano al lontano 2009-2010 (ah, rileggersi a cinque anni di distanza!)  e per la mia esperienza non è una birra molto adatta ad invecchiamenti prolungati.   
Parte dunque il Natale birrario 2014 con la Baladin Nöel Café; credo tuttavia che la bottiglia in questione sia stata prodotta nel 2013. Ad ogni modo, si presenta di un bel color tonaca di frate con intensi riflessi rubino a cui la foto non rende nessuna giustizia; impeccabile la schiuma beige chiara, compatta, fine e cremosa, dalla buona persistenza. L'aroma apre con sentori di frutta secca, uvetta, ciliegia sciroppata, pera, caramello; il caffè (0.5%) è una sfumatura molto sottile che va ad impreziosire un bouquet dolce, pulito ed elegante. Il percorso continua pressoché immutato al palato: l'equilibrio, la pulizia e la facilità di bevuta sono le sue principali caratteristiche. Ritornano uvetta, ciliegia, caramello, s'aggiungono note di biscotto e di prugna, per una birra dolce, a tratti zuccherina, lontana da qualsiasi estremismo che rispecchia in pieno la "filosofia" Baladin. Persino l'alcool (9%) viene tenuto al guinzaglio, con il risultato che questa Noel si beve con grande facilità ma lascia un po' insoddisfatti per quel che riguarda il "warming", nonostante presenti qualche accenno di vino liquoroso. La sua consistenza, vicino al watery, è perfettamente funzionale alla scorrevolezza; il corpo è medio, con una carbonazione abbastanza contenuta. Chiude comunque abbastanza secca, lievemente tannica, con un accenno amaro di frutta secca ed un soffio di polvere di caffè.
Birra ben fatta e versatile: ve la potete godere da sola o come accompagnamento ai dolci natalizi, ma non è assolutamente un azzardo abbinarla a formaggi stagionati o a saporiti piatti di carne,
Formato:  75 cl., alc. 9%, IBU 21, lotto 231/130, scad. 12/2015, pagata 14.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 17 dicembre 2014

Haandbryggeriet Odin's Tipple

Odin's Tipple, ovvero la bevanda (alcolica) di Odino, da “sbevazzare smodatamente”. E' lui, la principale divinità nordica, personificazione del sacro, dio supremo della guerra, padre della battaglia e della vittoria, della sapienza, della poesia, ad essere il protagonista dell’etichetta, con in mano un corno (cfr. Il Triplo Corno di Odino)  ricolmo di birra. Eppure si narra che a lui soltanto, nel Valhalla, fosse consentito di bere il vino, mentre agli altri “dato non era se non di gustare la birra”
Ma non è sicuramente qualcosa da bere allegramente e senza freni ad una festa, questa impegnativa imperial stout di Haandbryggeriet, se non erro il secondo maggior produttore craft norvegese dopo  Nøgne Ø:  abbondanza di malti scuri scuri (molto Chocolate, ammettono), zucchero muscovado, nessuna spezia  ed un solo ceppo di lievito belga.  Alcuni siti internet riportano “wild yeast” mentre su quello di Haandbryggeriet viene soltanto indicato “belgian yeast”: a scanso di equivoci, dopo averla bevuta posso affermare che non c’è davvero nulla di “selvaggio” in questa Odin’s Tipple del 2012. 
Perfettamente nera, forma una delle schiume marrone scuro fine, e cremosa, dall’ottima persistenza. I profumi che si liberano non sono però particolarmente forti: l’alcool arriva per primo precedendo di poco i sentori di fruit cake e liquirizia, con qualche vago ricordo di orzo tostato. 
Le intenzioni dichiarate del birrificio di Drammen erano quello di realizzare una birra forte senza farla diventare una bomba alcolica e corposa senza farla sembrare olio motore. 
Se sulla prima parte mi posso trovare parzialmente d’accordo, è invece difficile non pensare all’olio motore quando questa imperial stout arriva in bocca: densa, viscosa e morbida, quasi masticabile, corpo pieno, poche bollicine. Sono cinquanta centilitri che t’impegnano per tutta la serata, nel momento in cui decidi di stapparla: prendetevela comoda, mettetevi in poltrona con libro/tablet/televisore e senza nessuna fretta di alzarvi, perché la bevuta procede piuttosto lentamente. Il gusto non è particolarmente movimentato, ristagnando tra liquirizia, caffè, qualche leggera nota di uvetta, di prugna disidratata e di tostature; l’acidità del caffè porta un misero sollievo a fine corsa, prima del lunghissimo finale dove l’alcool esce definitivamente dal guscio (quasi) a colpi di bourbon. Mezzo litro davvero troppo da bere in solitudine, la metà sarebbe stata ampiamente sufficiente,  a meno che non la beviate all’aperto in una sera d’inverno in Norvegia con lo scopo di riscaldarvi. Imperial stout intensa nella quale però la semplicità tende a diventare sinonimo di noia, dopo i primi due gustosi sorsi. Tenete a portata di mano una tavoletta di cioccolato fondente, sarà un'ottima compagna di bevuta. 
Formato: 50 cl., alc. 11%, IBU 65, lotto 539, imbott. 07/11/2012, scad. 07/11/2016, pagata 10,91 Euro (Vinmonopolet, Norvegia)          

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 16 dicembre 2014

HOMEBREWED! Postino Brewery Maximus Primus Double IPA

Ritorna lo spazio HOMEBREWED! per quello che credo sia l'ultimo appuntamento del 2014, per poi ripartire alla grande nel 2015: nelle prossime settimane - prima di una breve vacanza - il blog sarà monopolizzato o quasi dalle birre natalizie e da qualche bevuta "speciale" con la quale si festeggia sempre il periodo di fine anno. 
A chiudere il 2014 è ancora il turno della Postino Brewery, il birrificio casalingo di  Giancarlo Maccini, alias "Gianpostino", homebrewer di Solignano (Parma) e attualmente  residente a Londra, che vi ho presentato in questa occasione e che ringrazio per avermi inviato la bottiglia da assaggiare. Homebrewer instancabile ed eclettico, come avremo occasione di vedere prossimamente. Dopo una American Pale Ale ed una Saison, l'asticella si alza con una muscolosa Double/Imperial IPA chiamata Maximus Primus.
Produzione all grain, la lista  dei malti include Pale Ale, Pilsner, Biscuit e Caravienna, malto di farro; i luppoli sono invece Summit, Warrior, Chinook, Simcoe, Citra & Amarillo. 
La fotografia non rende completamente giustizia al colore, che è comunque ambrato molto carico, con qualche sconfinamento nel "tonaca di frate"; ottimo il cappello di schiuma, fine, compatto e cremoso, molto persistente. L'aroma è ancora fresco (la bottiglia ha circa due mesi e mezzo di vita), con un buon livello di pulizia che permette di apprezzare gli aghi di pino, il pompelmo e, soprattutto, il dolce della frutta tropicale; mango, melone retato, passion fruit. Completano il bouquet lievi sentori di lampone, caramello, alcool.
Leggermente meno pulita in bocca, la Maximus Primus Double IPA non si nasconde e mostra subito un'intensità notevole: domina il dolce del biscotto, del caramello, della polpa d'arancio e della frutta tropicale, mentre ai lati della lingua si fa subito strada l'amaro, resinoso e "pepato".  L'alcool scalda ed irrobustisce la bevuta; non è chiaramente una session beer, ma neppure una birra che domanda un lento sorseggio. La corsa finisce con una notevole accelerazione d'amaro, vegetale, resinoso, speziato, quasi balsamico, con una gradevole nota di menta. Il corpo è medio-pieno, con poche bollicine ed una morbida consistenza oleosa. E' una bevuta muscolosa che procede per accumulo: molto dolce, molto amaro; non ci sono difetti, non ci sono off-flavors, ma si potrebbe migliorare la pulizia e la scorrevolezza, intesa come sensazione tattile al palato. Double IPA ben fatta, e mi tocca ripetermi: ne ho assaggiate molte fatte da birrifici veri e propri decisamente inferiori. 
Chiudo qui la descrizione della birra, ed apro una parentesi collegata al mio gusto personale, che mi rendo conto non è probabilmente molto utile all'homebrewer Giancarlo. Potrei sommariamente dividere le Double IPA in due grandi categorie; quelle muscolose dove si c'è un po' la gara "a chi urla più forte" tra dolce ed amaro e che generalmente sono le interpretazioni che i paesi scandinavi fanno delle DIPA americane. Ma se avete la fortuna di bere in California una DIPA (o se riuscite a trovarne una fresca qui in Italia), difficilmente troverete le caratteristiche appena descritte. Le DIPA che ho maggiormente apprezzato sono molto ben attenuate, snelle, senza eccessi di dolce e con la giusta predominanza di amaro: non danno l'impressione di venire equilibrate aggiungendo "tanto quanto o un po' di più della controparte", ma piuttosto semplificando, limando ogni eccesso. Il risultato sono birre molto intense ma dall'incredibile facilità di bevuta, nelle quali dolce e amaro si prendono per mano e camminano fianco a fianco, piuttosto che sgomitare per prendersi il posto in prima fila.
Fortunatamente non faccio la birra in casa, ma se idealmente dovessi farla, seguirei la regola del keep it simple: snellire, alleggerire, semplificare, sopratutto per quel che riguarda i malti. Potrei anche citare il famoso slogan "la potenza non è nulla senza il controllo". Ma mi rendo conto di aver sconfinato fin troppo nel gusto personale, senza sapere esattamente quale era la birra che Giancarlo aveva in mente di fare.
La (semiseria) valutazione su scala BJCP della Maximus Primus Double IPA è di 35/50 (aroma 8/12, aspetto 3/3, gusto 13/20, mouthfeel 4/5, impressione generale 7/10). 
Ringrazio di nuovo Giancarlo per avermi sfatto assaggiare la sua produzione; HOMEBREWED! vi dà appuntamento a Gennaio 2015.
Formato: 33 cl., alc. 8.2%, imbott. 23/09/2014.

lunedì 15 dicembre 2014

Agrobirrificio Oldo Imperatorskaya

Non è esattamente un debutto sul blog, quello dell'Agrobirrificio Oldo di Cadelbosco Sopra, Reggio Emilia; lo avevamo infatti incontrato, indirettamente, come produttore di alcune birre per conto terzi:  Grannie Hoppie, Kill Me in The Morning I e II.   
Il birrificio agricolo Oldo – di proprietà dei coniugi Andrea e Francesca Soncini - apre i battenti nel 2012 guidato dalla mano del birraio Francesco Racaniello; sono quasi una decina le birre prodotte, con un netta predilezione per le birre "facili", da bere in grande quantità. Per quel che riguarda a bassa fermentazione, segnalo la  Giò, una pils che ottenne il terzo posto a Birra dell’Anno 2014 dietro alle “famose” Grigna e Tipopils nella categoria 1 ” Chiare, basso grado alcolico, “Italian Lager”;  la Speriment Ale (Piano Marshall IPA) è stata invece nominata tra le “birre quotidiane, di grande qualità organolettica che hanno come caratteri principali equilibrio, semplicità e piacevolezza” dalla Guida alle Birre d'Italia 2015 curata da Slowfood.
L’impianto da 500 litri del birrificio si trova in un complesso rurale chiamato la Bregola, in via dell’Oldo; nei campi circostanti viene coltivata una parte dell’orzo utilizzato, che viene poi maltato in Austria; lo spaccio è aperto al pubblico tutti i sabati.   
Tra le produzioni di Oldo che, come detto, prediligono la facilità di bevuta, l’unica eccezione sembra essere rappresentata per il momento dall’imperial stout chiamata Imperatorskaya; ed è proprio con questa   -  complice il freddo –  che iniziamo. 
Purtroppo la bevuta della “imperatrice” non inizia nel migliore dei modi: benvenuto di gushing, birra comunque salvata in extremis grazie al versamento in un paio di bicchieri.  Calmate un po’ le acque, la birra si presenta praticamente nera, con una generosa testa di schiuma nocciola un po’ grossolana ma dalla buona persistenza. L’aroma, dall’intensità dimessa e discretamente pulito, offre sentori di orzo tostato, caffè/moka, mallo di noce, liquirizia. Inizialmente disturbato dalle troppe bollicine, dopo qualche minuto di permanenza nel bicchiere il gusto si risolve in un generale insieme di caffè d’orzo e liquirizia, non particolarmente pulito. 
A bilanciare le tostature c’è una componente zuccherina, quasi caramellata, ma l’insieme risulta un po’ slegato in bocca, con la sensazione che a parole potrei descrivere come “acqua da una parte, gusto della birra dall’altra”. L’alcool è molto nascosto, persino troppo: la bevuta risulta abbastanza agevole, ma da una imperial stout dal contenuto alcolico importante (10%) sentiresti anche il bisogno di un po’ di calore etilico che qui invece latita ed arriva timidissimo solo nel finale, prendendo la forma della prugna sotto spirito. Chiude leggermente astringente (bustina di tè), con una lieve presenza salmastra/salsa di soia. Le motivazioni appena elencate descrivono una bevuta poco soddisfacente, se devo dire la verità; l'intensità è buona ma sono diversi gli aspetti da migliorare (leggi soprattutto pulizia ed eleganza), gushing a parte.
Formato: 33 cl., alc. 10%, IBU 48, lotto ACO 31, scad. 01/2016, pagata 5.00 Euro (beershop, Italia).   

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.    

sabato 13 dicembre 2014

Extraomnes Imperial Zest

Arriva nelle spine dei locali tra aprile e maggio di quest'anno, ma qualcuno sull'imprescindibile Barbiera della Birra lo aveva previsto con un anno e mezzo d'anticipo: la Zest di Extraomnes raddoppia dando dando vita all'Imperial Zest, con tanto di cane con corona, scettro ed ermellino in etichetta. 
Luigi d'Amelio/Schigi sceglie una delle birre più di successo del birrificio di Marnate, facilissima da bere ed dissetante compagna necessaria dei giorni più caldi dell'anno, e quasi ne raddoppia la gradazione alcolica per "sfidare" (forse un po' per gioco) la moda brassicola di "imperializzare" qualsiasi stile. 
Una contraddizione solo apparente, perché alla prova dei fatti anche l'Imperial Zest si rivela una birra dalla bevibilità quasi sconvolgente se si tiene presente la sua gradazione alcolica (9%).
Bottiglia molto fresca (due mesi di vita), che riempie il bicchiere di un opaco arancio; la schiuma, cremosissima e compatta, è fine e molto persistente. In una bevuta alla cieca, il naso potrebbe mettervi in difficoltà: la freschezza e l'asprezza pompelmo, mandarino, lime ed arancio si confrontano con la dolcezza della pesca gialla, dell'ananas e del litchi. Una macedonia di frutta quasi identica a quella della Zest "standard". 
Dovrete berla per intravedere le prime differenze, a partire dal corpo (medio) più sostenuto; la base maltata (pane, crackers) è il campo da gioco dove si sfidano nuovamente dolce (polpa d'arancia, pesca gialla) e zest (scorza d'agrumi, lime, pompelmo). Bisogna quasi sforzarsi e concentrarsi nella descrizione, perché questa Imperial Zest ha una bevibilità assassina ed il bicchiere si svuota con una velocità impressionante. Risulta meno amara e quindi più bilanciata rispetto alla Zest, con l'alcool che mette la testa fuori dal nascondiglio - molto subdolamente - solamente a fine corsa, come se fosse un autovelox alla velocità di bevuta che ti coglie in fragrante e ti multa: rallenta, questa non è una session beer. 
Con il dolce, l'amaro ed lieve warming etico magistralmente assemblati tra di loro, l'Imperial Zest di Extraomnes è una splendida, profumata e pulitissima Belgian Strong Ale e  probabilmente la compagna ideale se avete deciso di ubriacarvi ma non lo volete ammettere. Dovrete solo ordinarne qualche bicchiere e, uno dopo l'altro, lei si prenderà cura di voi.
Formato: 33 cl., alc. 9%, lotto 273 14, scad. 31/03/2016, pagata 4.30 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.  

venerdì 12 dicembre 2014

Bayerischer Bahnhof Original Leipziger Gose

Per introdurre la birra di oggi bisognerebbe ripercorre la storia della Gose, uno stile che ha rischiato di scomparire nel secondo dopoguerra dello scorso secolo e che invece è rinato e sta diventando abbastanza popolare anche grazie alla cosiddetta “rivoluzione delle birra artigianale”. Se volete approfondire, vi rimando a questo ed a quest’altro articolo che meglio di me hanno riassunto il passato della Gose.  
Riporto solo alcuni cenni,  per vostra comodità: si tratta di una birra ad alta fermentazione e prodotta con un’elevata percentuale di frumento (almeno 50-60%); l’associazione Germania-frumento  potrebbe farvi istintivamente pensare ad una Hefeweizen, ma ci sono alcune differenze fondamentali: il lievito utilizzato per fare una Gose è poco caratterizzante, l’Editto di Purezza (Reinheisgebot) viene violato in quanto si utilizzano spezie (sale, coriandolo), e vi è un’acidità lattica più o meno marcata dovuta alla presenza di lattobacilli. Il risultato è una birra chiara, leggera ed acidula, molto dissetante e rinfrescante, il cui nome deriva da Goslar, città della Bassa Sassonia dove lo stile ebbe origine e il cui fiume (Gose) aveva un’acqua naturalmente salina dovuta  che veniva utilizzata dai birrifici.  
Nel diciannovesimo secolo la popolarità delle Gose si spostò da Goslar a Lipsia, dove arrivarono ad esserci quasi ottanta Gosenschenken, ovvero locali dove la Gose veniva servita. Le devastazioni della seconda guerra mondiale provocarono la chiusura di tutti i produttori di Lipsia;  nel 1949 solamente la Friedrich Wurzler Brauerei aveva ricominciato a mescere Gose, continuando sino al 1966, anno in chiuse i battenti causa la prematura morte del proprietario  Guido Pfnister.  La Gose ritornò a Lipsia solamente nel  1986, grazie a Lothar Goldhahn, publican dell’Ohne Bedenken, che riuscì a recuperare alcune ricette originali ed a farle produrre dalla Schultheiss-Weisse-Brauerei di Berlino Est, visto che nessuno dei birrifici di Lipsia aveva mostrato interesse. Dopo vent’anni era così possibile tornare a bere una Gose a Lipsia;  nel 1995 Goldhahn fece produrre la  “sua” Gose alla Andreas Schneider Brauerei di Weissenburg, Baviera.  Il proprietario, Andreas Schneider, s’innamorò a tal punto di questo stile che decise nel 1999 di aprire a Lipsia un brewpub chiamandolo  Bayerischer Bahnhof, in quanto situato all’interno della vecchia stazione ferroviaria del centro storico della città tedesca. 
Inaugurata nel 1842, nel diciannovesimo secolo la Bayerischer Bahnhof di Lipsia era un importantissimo snodo ferroviario per chi era diretto a sud, verso la Baviera, l’Austria e l’Italia, perdendo importanza solamente nel 1912 quando venne costruita una più funzionale stazione in periferia.  Parzialmente distrutta dalle bombe delle seconda guerra mondiale, la stazione riprese a funzionare anche in assenza dei fondi necessari per completarne la doverosa ricostruzione: fu solamente dopo la riunificazione delle due Germanie che fu reperito il denaro necessario per un progetto di ricostruzione che fosse al tempo stesso conservativo e funzionale al ventunesimo secolo.  Andreas Schneider non si fece scappare l’occasione e riuscì ad inaugurare, il 19 Luglio del 2000, la nuova Gasthaus & Gosebrauerei Bayerischer Bahnhof; dal 2003, il mastro birraio è Matthias Richter. La maggior parte della produzione viene assorbita dal locale, ma sono comunque disponibili le classiche bottiglie dal lungo collo che, si dice, un tempo non venivano neppure chiuse poiché la schiuma prodotta dal lievito durante la fermentazione formava una specie di tappo "naturale".
Meno affascinante invece la bottiglia che mi è capitata tra le mani, una classica 33 centilitri. Nel bicchiere è dorata, con la velatura che è direttamente proporzionale alla quantità di birra che riuscite a far stare nel classico "cilindretto" nella quale viene servita; molto bello il cappello di schiuma, bianco, cremoso e compatto, dalla buona persistenza. L'aroma è sorprendentemente forte e pulito, con evidenti sentori floreali, di agrumi, di mela ed una discreta mineralità leggermente salina; appena percettibile la speziatura del coriandolo. In bocca regna un gran bell'equilibrio fatto di pane e di miele, agrumi, qualche nota di banana e coriandolo; il gusto è fresco e fragrante, la salinità e l'acidità sono piuttosto contenute e costituiscono solamente delle sfumature della birra, piuttosto che la sua caratteristica principale. Ne esce una birra leggera, semplice e facilissima da bere, molto scorrevole e discretamente carbonata; la leggera acidità la rende particolarmente dissetante, nel pieno rispetto dell''equilibrio e del rigore tipico della tradizione tedesca: dolce, acido e salato s'alternano senza nessun eccesso, dando forma ad una birra facilmente fruibile anche da chi si potrebbe spaventare nel leggere le parole "sale ed acido".
Formato: 33 cl., alc. 4.6%, lotto e scadenza non riportati, pagata 3.30 Euro (beershop, Italia).

Nota: la “recensione/descrizione” della birra bevuta è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 11 dicembre 2014

Founders Dark Penance

Novità 2014 in casa Founders, birrificio ubicato a Grand Rapids, nel Michigan, del quale vi ho descritto la settimana scorsa l’ottima Breakfast Stout. L’annuncio è dello scorso luglio:  una potente (8.9%) Imperial Black IPA sarà la birra stagionale disponibile da Ottobre a  Dicembre;  Dark Penance (la Penitenza Oscura) viene così ad affiancarsi alle altre IPA del birrificio che, in ordine di grandezza, sono la All Day Session IPA, la Centennial IPA, la Double Trouble e la Devil Dancer, oltre alla Red’s Rye IPA. 
Founders non ama affollare il mercato a colpi di one-shot e novità: ogni tanto rilascia delle produzioni occasionali/sperimentali in quella che ha chiamato la “Backstage Series”, ma  era dalla primavera del 2012, quando fu presentata la All Day IPA, che il birrificio non aggiungeva una nuova birra alla sua line-up regolare.  
La ricetta, secondo quanto racconta Dave Engbers, uno dei due fondatori del birrificio, ha avuto una gestazione di circa un anno ed include malti Crystal e Midnight Wheat, con una abbondantissima luppolatura (100 IBU) di Chinook e Centennial. 
Rilasciata sul mercato in americano in ottobre, Dark Penance è già arrivata in Italia a fine novembre, con un tempismo sorprendente che garantisce di avere una birra ancora molto fresca da bere; l’estate è già passata e quindi viene scongiurato anche il pericolo di veder soggiornare una birra molto luppolata in magazzini o depositi ad elevate temperature.   
Nera, quasi minacciosa nel bicchiere, con una testa di schiuma beige fine e cremosa, non molto generosa ma dalla buona persistenza.  L'aroma è pulitissimo ed ancora notevolmente fresco, per una birra che ha attraversato l'oceano: aghi di pino, pompelmo, mango e melone. In sottofondo qualche lievissimo sentore di frutti rossi di bosco e, quando la birra si scalda, di orzo tostato. Il colore nero trova corrispondenza in bocca solo in una lievissima presenza di pane nero, altrimenti la bevuta muove i suoi passi nel territorio di una muscolosa Double IPA: richiamo degli stessi frutti tropicali presenti nell'aroma, pompelmo ed un amaro resinoso, pepato che morde ai lati della bocca e che ben interagisce con il calore etilico. Birra pulitissima, muscolosa e potente, chiude con una bella progressione amara, resinosa e terrosa, con qualche leggera tostatura. Bandite le ruffianerie, la Penitenza Oscura di Founders è una solidissima Imperial IPA dal colore nero basata su pochi elementi magistralmente combinati tra di loro. 
Nella mia personale classifica di gradimento dello stile non raggiunge il livello della Stone Sublimely Self Righteous Ale, ma il livello è davvero molto alto. Si sorseggia con calma e con grande soddisfazione, ma cercatela e bevetela in fretta: è una birra molto muscolosa che non deve fare cantina, i suoi delicati  equilibri potrebbero presto essere messi in discussione.
Formato: 35.5. cl., alc. 8.9%, IBU 100, scad. 17/07/2015, pagata 4.50 Euro (beershop, Italia).

mercoledì 10 dicembre 2014

Chimay Bleue (Blu) 2014 vs. Chimay Bleue (Blu) 2010

Pochi chilometri a sud del centro di Chimay, nella provincia belga dell’Hainaut, nella vallata di Scourmont, si trova l’Abbaye de Notre Dame; una decina di monaci cistercensi provenienti da Westvleteren la edificarono 1850. I monaci iniziarono quasi subito (1862) a produrre birra e formaggio; sembra che la prima birra realizzata a Scourmont fosse una bassa fermentazione chiamata Bavaria, ispirata a quelle che venivano prodotte a Dortmund, rimpiazzata dopo alcune cotte da una Brown Ale presumibilmente basata su una ricetta elaborata a Westvleteren.  E’ probabilmente a partire dal 1875 che il monastero decide di commercializzare la birra per reperire risorse economiche necessarie al proprio sostentamento. A quel tempo venivano prodotte una birra leggera, che i monaci bevevano quotidianamente servendosi direttamente dalle botti di legno, ed una più forte, maturata in botti catramate all’interno; fu questa – chiamata Biere Forte - ad essere imbottigliata e venduta all’esterno. L’abbazia de Notre-Dame de Scourmont, divenne così il primo monastero trappista a commercializzare birra e, di conseguenza, ad utilizzare la denominazione di “birra trappista”; ma fu anche il primo ad utilizzare le bottiglie da 75 cl. che venivano chiuse con tappo di sughero. 
Le due guerre mondiali lasciarono il segno anche a Scourmont con il “solito” sequestro dei bollitori di rame da parte degli invasori tedeschi; fu Jean De Clerck, nel secondo dopoguerra, a rimettere in piedi il birrificio del monastero.  De Clerck (1902-1978), emerito professore all’università di Leuven ed espertissimo “brewing scientist” (impossibile definirlo solo “birraio”) è da considerarsi l’artefice della ricostruzione post-bellica belga ed uno dei personaggi più influenti personaggi dell’industria brassicola europea del ventesimo secolo.  Nel 1948 pubblicò il suo Cours De Brasserie (A Textbook of Brewing) in due volumi, poi tradotto in inglese nel 1957 ed in tedesco nel 1964; un testo che è stato (e forse lo è ancora?) la bibbia per moltissimi studenti ed aspiranti birrai.  
Padre Théodore venne “obbligato” da De Clerck a frequentare 120 ore dei suoi corsi all’università di Lovanio;  assieme al Professor Dropsy, un collaboratore di Jean, il monaco selezionò   - con pazienza benedettina – e  coltivò il ceppo di lievito che viene ancora oggi utilizzato per produrre tutte le Chimay. Furono loro i responsabili della rinascita e del “successo”, se così si può chiamare, che le birre del monastero trappista hanno riscosso in tutto il mondo; fu Padre Théodore, negli anni ’70, ad insistere affinchè i vecchi impianti di produzione venissero sostituiti con altri più nuovi, più capienti e più efficienti, nel 1988. Se percorrete oggi la strada principale che attraversa la cittadina di Chimay, nel mezzo di una rotatoria potete ancora vedere uno dei vecchi bollitori in rame che ora funge da arredo urbano. 
Al contrario dei “fratelli” di Westvleteren, i monaci di Scourmont scelsero di crescere per far fronte all’aumento di domanda: oggi l’abbazia è uno dei principali datori di lavoro della (non particolarmente ricca) regione dell’Hainaut. Quasi tutte le attività (produzione, commerciale, amministrativa) vengono oggi svolte da terzi che agiscono sotto la supervisione dei monaci, che non devono essere distratti da quella che resta la loro attività principale: la preghiera. A Baileux (10 km.) vengono prodotti i formaggi ed imbottigliate le birre, che vengono trasportate con autobotti. Dal pensionamento (1991) di Padre Théodore, l’ultimo monaco mastro birraio, anche la produzione di birra all’interno del monastero avviene per opera di birrai laici.  A Jean De Clerck, morto nel 1978, venne concesso “l’onore” di essere sepolto nel cimitero adiacente all’abbazia.   
Come per tutti i birrifici storici, anche su Chimay si è da tempo aperta una discussione sul cambiamento (= minor qualità) delle birre nel corso degli anni:  le “accuse” sono riassunte in questo articolo di Roger Protz del 2005.  Sostituzione dei luppolo con l’estratto di luppolo, utilizzo di estratto di malto e – in percentuale significativa – di amido di frumento. Nel corso di alcune conversazioni con Michael Jackson, padre Théodore confermò di utilizzare, a partire dagli anni ’50, estratto di luppolo. La ricetta della Chimay Bianca, da lui elaborata nel 1966, prevede l’utilizzo esclusivo di estratto di luppolo “per meglio controllare e rendere stabile il livello di amaro nelle diverse cotte”. I monaci di Scourmont hanno rotto il silenzio solamente in pochissime occasioni per confermare che le ricette non sono state cambiate e sono ancora quelle elaborate da Padre Théodore;  dal 1992  la birra non matura più in vasche aperte ma in più moderni maturatori conici chiusi. Il lievito – dicono i frati – si adatta all’ambiente in cui “vive” e questo è secondo loro l’unico cambiamento avvenuto. 
Dopo tante (troppe?) parole, è il momento di bere;  identificata solamente dal colore del tappo (blu) nel formato da 33 cl., la birra più “forte” del monstero trappista prende invece il nome di Grande Réserve nel più generoso (e più indicato per l’invecchiamento) formato da 75 centilitri. Venne prodotta per la prima volta nel 1948 come birra natalizia, entrando poi in produzione stabile e continuativa – a furor di popolo - a partire dal 1954. 
La Chimay Bleue ha le caratteristiche necessarie per essere  una birra da invecchiare in cantina: è scura, ha un contenuto alcolico rilevante (9%), non è una birra che fa del luppolo la sua “ragione d’essere”. E mi permetto di aggiungerne altre due: è facilissima da reperire, ha un costo accessibile. A confronto oggi due bottiglie: una del 2010 ed una del 2014, anno in cui tutta la gamma Chimay è stata sottoposta ad un bel restyling delle etichette secondo me molto azzeccato.   
La giovane Bleue 2014 si presenta con la sua tonaca da frate impreziosita da bei riflessi rossastri, quasi rubini: da manuale l’ampia schiuma, ocra, cremosissima e compatta, molto persistente. Leggermente più torbida e meno brillante la 2010, con sfumature più ambrate che rosse e con piccoli fiocchi di lievito in sospensione:  la schiuma è un po’ più scura ma meno abbondante e meno persistente. Discretamente intenso e molto pulito, il naso della 2014 offre sentori di pera, uvetta e prugna, zucchero caramellato, un accenno di pasticceria che personalmente mi ha ricordato i torcetti al burro.  Buona parte di questi elementi ritornano anche nell’aroma della 2010:  uvetta e prugna, caramello, biscotto al burro, con l’aggiunta di fichi e datteri disidratati. E’ presente una leggera ossidazione responsabile sia di interessanti e gradevoli sfumature che ricordano il porto, che di qualche lieve sentore di cartone bagnato. 
Ancora più evidenti le differenze al palato: normale che la 2014 sia vivacemente carbonata, un po' spigolosa al palato ma tutto sommato abbastanza morbida e godibile, dal corpo medio. Molto più docile il mouthfeel della 2010, che appare più rotonda, oleosa, lievemente più corposa  e molto più morbida. 
Per entrambe il gusto è relativamente semplice e segue la strada indicata dall'aroma: caramello, biscotto, prugne ed uvetta per la 2014, con l'alcool forse persino troppo nascosto per una birra con questo contenuto alcolico, dalla quale ti aspetteresti un po' più di calore; ed il warming arriva, proprio a fine bevuta, ad asciugare il palato dal dolce per permettere di gustare il caldo retrogusto abboccato di frutta sotto spirito. Si spinge ancora più sul dolce la 2010, con qualche nota di porto affiancata da quelle del caramello, del biscotto, dell'uvetta e della prugna. L'alcool è un po' più in evidenza, per una birra calda, morbida ed avvolgente che mostra un po' il segno degli anni nel finale, dove l'ossidazione si porta con sé anche qualche live nota allappante. 
Due birre non troppo diverse tra di loro, con la mia preferenza che va senz'altro per la 2010, meglio amalgamata, meno "spigolosa", meno carbonata e più armoniosa della 2014, nonostante mostri già qualche "ruga" di vecchiaia. Ancora troppo carbonata la 2014 (una caratteristica che personalmente riscontro - e che non amo - in tutte le trappiste scure giovani), pulita e ben fatta ma non particolarmente memorabile. Decisamente più appagante la bevuta della 2010: difficile dire quanto potrà ancora resistere in cantina, ripeterò l'assaggio di un'altra bottiglia tra qualche anno per verificarlo.
Chimay Bleue 2010: formato 33 cl., alc. 9%, lotto 10-083, scad. 12/2015, pagata 2.50 Euro (supermercato, Italia)
Chimay Bleue 2014: formato3 3 cl., alc. 9%, lotto 14-334, scad. 12/2019, pagata 1.99 Euro (supermercato, Italia)

Nota: la “recensione/descrizione” della birra bevuta è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.