domenica 29 dicembre 2013

Rochefort Trappistes 8 (Cuvée 2010)

Chiudiamo il 2013 (il blog va in vacanza sino all'epifania) con una birra non proprio natalizia, se non per l'etichetta. Davvero azzeccata quella della magnum (1, 50 lt.) che ogni anno i monaci dell'abbazia di St. Remy Brasserie producono con un etichetta a tema natalizio; la versione 2010 (o Cuvée 2010, come segnalato sotto al logo trappista) raffigurava una la slitta di Babbo Natale che trasportava una enorme bottiglia di birra. Nessuna differenza, ovviamente, per quel che riguarda la birra, se non che il generoso formato dovrebbe teoricamente garantire un miglior invecchiamento. Formato da condividere tra vari commensali durante il pranzo di Natale o, se preferite, da bere più lentamente nel giro di qualche giorno; con un'accurata ri-tappatura, infatti, questa Rochefort 8 ha dimostrato di saper reggere in modo soddisfacente al passaggio dei giorni.
Un classico, sorella minore della (da me) adorata Rochefort 10, con la quale finisco inevitabilmente ed inopportunamente  col confrontarla. La grande bottiglia ha un'ottima influenza sull'aspetto di questa Rochefort 8, tradizionalmente un po' bruttina alla vista. Nel bicchiere arriva invece di uno splendido color marrone rossastro, con riflessi ambrati, leggermente velato; assolutamente perfetta la schiuma, di colore beige chiaro, molto fine e compatta, cremosa, con buona persistenza. Al naso oltre che al marchio di fabbrica Rochefort (pera), ci sono sentori di uvetta, banana matura, prugna, frutta secca e leggere note liquorose che ricordano uno sherry.
In bocca sorprende per il modo impressionante in cui l'alcol (9.2%) è nascosto; corpo medio-pieno e bollicine ancora molto vivaci anche dopo tre anni di cantina. Oleosa e molto morbida, con note di uvetta, prugna e datteri, caramello, zucchero candito, frutta secca (mandorle, noci). La dolcezza del gusto ė bilanciata da una bella secchezza finale che riesce quasi a ripulire il palato, creando quell'isante di attesa necessario per poter ancor meglio assaporare il retrogusto, abboccato, caldo e morbido (ricco di frutta sotto spirito) dove finalmente l'alcol fa sentire la sua discreta presenza. Sorella minore della Rochefort 10, dicevo, con la quale condivide diversi elementi risultando senz'altro più facile da bere e meno alcolica. Meno carica di corpo, meno intensa e complessa della 10, con una capacità d'invecchiamento leggermente minore, può essere un'ottima birra da pasto o da dopocena; personalmente ho provato grande soddisfazione ad abbinarla, forse un po' banalmente, a datteri secchi ricoperti di cioccolato amaro; il dattero e la birra si richiamavano a vicenda, con il cioccolato che si sposava perfettamente con il morbido tenore alcolico della Rochefort 8, completandosi e specchiandosi l'uno nell'altro. Il riflesso nella birra erano delle note di cioccolato amaro che ricordavano quelle della Rochefort 10. La  perfetta chiusura di questo anno di birra sul blog. Auguri a tutti.
Formato 150 cl., alc. 9.2%, scad. 12/2014, pagata 19.80 € (drink store, Italia). 

venerdì 27 dicembre 2013

Kirkstall Dissolution Extra IPA

Ultimo debutto del 2013 sul blog, quello della Kirkstall Brewery che si trova nella omonima località negli immediati dintorni settentrionali di Leeds, nel West Yorkshire. Il nome scelto è lo stesso di un precedente birrificio attivo dal 1871 al 1983 sul canale Leeds-Liverpool; ma il paese di Kirkstall ha una tradizione brassicola che trova le sue radici ancora prima, nel dodicesimo secolo, quando alcuni monaci fondarono un'abbazia (con annesso birrificio) sulle rived del fiume Aire. I resti della Kirkstall Abbey sono ancora oggi considerati l'abbazia cistercense meglio conservata di tutti il Regno Unito; anche l'edificio che molti secoli più tardi ha ospitato la Kirkstall Brewey è ancora in piedi ed è stato recentemente restaurato e dichiarato sito d'interesse scientifico nazionale. La sua posizione sul canale permetteva il trasporto diretto delle birre via barca sino al porto di Liverpool e quindi l'esportazione verso le colonie inglesi anche in Australia e Nuova Zelanda. Negli anni di maggior splendore, la Kirkstall possedeva diversi pub ed aveva acquistato due birrifici di Leeds, prima di essere poi acquistata a sua volta, nel 1938 dalla Dutton's di Blackburn; la Dutton's venne poi comprata nel 1957 dalla Whitbread che ammodernò i vecchi impianti della Kirkstall ma, a seguito della lenta ma inesorabile crisi che colpì tutti i birrifici inglesi nell'ultima metà del secolo scorso, fu costretta a chiuderla definitivamente nel 1983. Dei 18 birrifici (e 150 brewpub) attivi nell'area di Leeds agli inizi del ventesimo secolo, ne sono oggi rimasti solamentre tre:  Leeds Brewery, Ridgeside Brewery, e Wharfebank Brewery. L'edificio della Kirkstall rimase in uno stato di degrado e di abbandono sino alla fine degli anni '90, quando fu oggetto di un ambizioso progetto di recupero che la trasformò nel Kirkstall Brewery Student Village,  dando alloggi ad oltre un migliaio di giovani studenti; il sito oggi include anche un bar, negozi,  una sala biliardo, una lavanderia, una palestra ed una sala in gradi di ospitare eventi e concerti.
Nel giugno del 2011 si aggiunge un quarto produttore di birra a Leeds: è  la "nuova" Kirkstall Brewery, in un edificio che si trova letteralmente all'ombra del vecchio stabile della storica Kirkstall; l'uomo dietro al progetto è Steve Holt, persona con una lunga esperienza nell'industria brassicola nonchè proprietario della Vertical Drinks Ltd, noto distributore ed importatore di birre  per il Regno Unito da Stati Uniti (soprattutto Sierra Nevada, dal 2003), Belgio e Germania. E' proprio la Craft Beer Revolution americana ad ispirare Steve Holt a mettere in piedi un proprio birrificio; la produzione (impianto da 8 barili) è affidata al birraio Dave Sanders (ex Elland Brewery). L'idea è quella di realizzare delle birre a metà strada tra l'innovazione americana (Sierra Nevada in primis), sopratutto per quel che riguarda le luppolature, e la tradizione della vecchia Kirkstall Brewery.  Sono in particolare i nomi delle birre a guardare al passato: la Pale Ale chiamata "Three Swords" (tre spade), si rifà al vecchio logo della Kirkstall (tre pugnali), mentre la birra che stiamo per stappare, chiamata Dissolution Extra IPA, si riferisce alla soppressione o dissoluzione dei monasteri in Inghilterra (tra i quali anche la Kirkstall Abbey) messa in atto da Enrico VII tra il 1536 ed il 1540.
All'aspetto è di color arancio pallido, velato, con sfumature dorate; la schiuma è biancastra, fine e cremosa, ed ha una buona persistenza. Ottimo benvenuto con un aroma fresco, elegante e pulito dove troviamo mandarino e pompelmo con delicate sfumature più dolci di frutta tropicale (mango, passion fruit), melone retato e lampone maturo. Un equilibrio molto ben riuscito che però non viene purtroppo replicato allo stesso livello in bocca; il corpo medio e la carbonazione bassa la rendono morbida e gradevole al palato, dove c'è anche una notevole intensità. Il gusto è però forse eccessivamente carico di dolce, con molta frutta tropicale, una leggera deriva nel miele, ed una controparte amara di pompelmo, resina e pino che però non "morde" come dovrebbe e che non è particolarmente elegante. Discretamente attenuata, ha qualche leggera nota di biscotto;  è una birra solida che scorre però un po' a rilento dal bicchiere allo stomaco. Il delicato e pungente aroma (figlio di un abbondante dry-hopping) suggeriva uno scenario un po' diverso, intenso sì, ma leggero e raffinato; c'è comunque un buon livello di pulizia, ed il risultato finale e tutto sommato abbastanza soddisfacente, anche se non al livello di molti altri birrifici inglesi che abbiamo imparato a conoscere nell'ultimo anno.
Formato: 50 cl., alc. 6%, lotto 083355, imbott. 12/08/2013, scad. 08/2014, pagata 3.33 Euro (beershop, Inghilterra).

mercoledì 25 dicembre 2013

Founders Porter

Mike Stevens e Dave Engbers, amici dai tempi del college ed homebrewers, fondano nel novembre 1997 a Grand Rapids (Michigan) la Canal Street Brewing Co., abbandonando le loro precedenti occupazioni; è la conclusione di un lungo progetto partito tre anni prima, passati ad elaborare ricette, disegnare etichette e scegliere la giusta location. La scelta cadde su un edificio fatiscente in Monroe Avenue (il Brass Work Buildings), un tempo nota come Canal Street, dove nel 1800 avevano sede la maggior parte dei birrifici di Grand Rapids. Le prime etichette delle bottiglie riportavano infatti una vecchia fotografia in bianco e nero che raffigurava quattro birrai seduti su di un grande barile di legno; su di loro capeggiava la parola "Founders", ovvero i "fondatori" (della birra a Grand Rapids). Racimolati i fondi necessari tra amici, conoscenti ed un prestito di 350.000 dollari da una banca, parte l'avventura della Canal Street Brewing Co. LLC (il nome della società è ancora questo) che ben presto viene però conosciuta da tutti solamente come Founders. Stevens ed Engbers si occupano di tutto, dalla produzione di birra alla gestione del brewpub annesso, con l'aiuto di qualche amico e volontario, ma le cose non vanno secondo le attese. La line-up delle prime birre (una Red Ale, una Pale Ale, una Weizen ed una Porter) non ottengono grandi consensi e la situazione finanziaria peggiora di mese in mese; i fornitori richiedono di essere pagati in contanti (quando ci sono), e nel 2000 i due birrai non riescono più a pagare l'affitto, le rate del prestito e si trovano con otto mesi di tasse arretrate da pagare. A giugno del 2001 la United Bank gli notifica sei giorni di tempo per rientrare di 550.000 dollari; prima di dichiarare bancarotta, Stevens ed Engbers fanno un ultimo tentativo andando a parlare con Peter C. Cook, un famoso uomo d'affari e noto filantropo di Grand Rapids; l'incontro termina apparentemente senza nessuna decisione, ma dopo un paio di giorni i birrai ricevono una telefonata da parte della banca: il signor Cook si era personalmente fatto garante del loro debito. Per invertire la rotta, Mike e Dave chiamano a lavorare con loro il birraio Nate Walser (ex New Holland Brewing Co.); viene completamente rivoluzionata l'offerta delle birre, sostituendo  le birre semplici ed anonime con altre molto più robuste, complesse ed impegnative (e costose da produrre). Nello stesso anno (2001) nascono la Centennial IPA, la Dirty Bastard e la Breakfast Stout con le belle etichette disegnate da Grey Christian, tutte birre che ottengono uno straordinario successo. Il birrificio continua in lieve perdita per altri sette anni, ma gli affari vanno bene ed a bordo salgono altri investitori per un nuovo finanziamento da 4 milioni di dollari che consente alla Founders una prima espansione nel 2007, con il trasferimento negli attuali più ampi locali di Grandville Avenue. Seguono altri quattro ampliamenti all'edificio per portare la capacità massima annuale sino a 340.000 barili. Founders diviene il quinto maggior birrificio del Michigan, dietro a Bell's, New Holland, Brewery Vivant e Saugatuck Brewing Co., con una stima di circa 175.000 barili prodotti nel 2013;  un tasso di crescita medio del 72% all'anno, negli ultimi tre anni, e finalmente dividendi che vengono distribuiti agli azionisti. Dal 2010 Founders è costantemente (per quello che conta) nella Top 4 dei miglior birrifici al mondo secondo Ratebeer. Continuiamo il divertissement del beer-rating anche per introdurre la birra di oggi: Founders Porter, raffinatissima etichetta e terza miglior Porter al mondo secondo Ratebeer; seconda miglior American Porter al mondo secondo Beer Advocate.
Passando invece alle cose serie, ecco la birra nel bicchiere: aspetto inappuntabile, color ebano scurissimo, che non lascia praticamente filtrare nessuna luce. Schiuma di dimensioni molto modeste, neppure un paio di centimetri, ma a trama fine e molto cremosa, di colore nocciola. Il naso è pulitissimo ed elegante, anche se non molto pronunciato: orzo tostato e caffè macinato colpiscono subito l'olfatto, mentre in sottofondo ci sono sentori più sottili di vaniglia, brownie, mirtillo, tortino di frutta al cioccolato (chocolate fruitcake) ed una leggera nota affumicata. Splendida alla vista, sontuosa in bocca: corpo medio, poche bollicine, morbidissima e vellutata. Grande intensità di caffè e tostature, gusto molto amaro nonostante i "soli" 45 IBUs dichiarati (questo per dimostrare ancora una volta la relativa utilità di questo indicatore) che viene però ammorbidito da una perfetta acidità. Il cerchio si chiude correttamente con un ritorno al punto di partenza, l'aroma: il retrogusto ripropone infatti mirtillo, cioccolato amaro ed una leggera nota di cenere, oltre ovviamene all'amaro di caffè e di torrefatto. Birra pulitissima, dall'incredibile intensità per un ABV tutto sommato modesto (6.5%) che soddisfa ed appaga il palato pur riuscendo a scorrere con enorme facilità: perfettamente descritta in etichetta come "dark, rich and sexy"; è più complessa al naso che in bocca, dove però finisce per essere quasi un piccolo capolavoro di semplicità ed armonia. Da innamorarsi.
Formato: 35.5 cl., alc. 6.5%, scad. 01/06/2014, pagata 3.10 Euro (beershop, Inghilterra).

Alcune note conclusive:
- a chi si domandasse, dopo aver letto la descrizione di questa birra, quale sia effettivamente oggi la differenza tra una Porter ed una Stout, consiglio di leggere questa risposta di Martyn Cornell.
- le Founders sono già apparse qualche volta in Italia, ad intervalli abbastanza irregolari. La buona notizia è che dal 2014 la loro reperibilità in Italia sarà molto più diffusa (sperando che siano trattate dai distributori in maniera appropriata).
- negli USA con circa 10-11 dollari posso comprare un 6 pack di Founders Porter, una grandissima birra.  In Italia, con gli stessi soldi (circa 8 Euro) compro al massimo (a volte non bastano) un paio di bottiglie da 33 cl. di una buona, forse ottima Porter italiana. Quanta strada abbiamo ancora da fare...

martedì 24 dicembre 2013

Hibu Trhibu

Bottiglia numero tre per il birrificio Hibu di Bernareggio, che avevamo incontrato per la prima volta giusto un anno fa, nel periodo delle festività natalizie. Facciamo una breve sosta dalle dolce e sostanzioso birre natalizie solleticando un po' il palato con l'amaro del luppolo. L'occasione viene con la IPA del birrificio, chiamata Trhibu, un bel gioco di parole che rimanda al nome del birrificio stesso, agli IBU (International Bitterness Units) tanto cari per gli amanti dell'amaro ed alle immagini tribali dell'etichetta.  Purtroppo non è riportato né in etichetta né sul sito del birrificio il mix di luppoli utilizzati per questa Thribu. Leggermente velata nel bicchiere, è di color oro antico con una bella testa di schiuma bianca, compatta e fine, dalla buona persistenza. Al naso rivela un bouquet vario ed interessante, che però non brilla di freschezza e che quindi risulta meno fine ed elegante di quanto potrebbe essere: un territorio molto familiare per gli amanti delle IPA, fatto di frutta tropicale (mango, passion fruit), pompelmo, arancia (marmellata, anziché frutta fresca); più in secondo piano sentori erbacei, di resina e, sorpresa, di lampone. Anche in bocca la mancanza di freschezza si fa purtroppo sentire, spostando la bevuta più verso il dolce che sull'amaro. 
L'ingresso di biscotto e caramello è seguito da note fruttate molto dolci (quasi candite) di mango e di melone, marmellata d'arancia. Il corpo è medio, la consistenza è abbastanza watery/leggera ma è una IPA che non scorre a grande velocità; la bevuta è un po' pesante, il finale non è molto secco, non c'è un taglio amaro che ripulisce la bocca ma solo qualche timida nota di scorza di pompelmo, vegetale e lievemente resinosa. C'è una buona pulizia ed intensità nel gusto, ma questa bottiglia di Trhibu viene a mancare proprio nel momento del bisogno (d'amaro); discreta, rimane nel bicchiere più a lungo del dovuto a causa di una mancanza di freschezza che la rende poco vivace e poco snella. Andrebbe ovviamente riprovata in condizioni migliori, ma come al solito su questo blog ci limitiamo alla descrizione specifica della bottiglia acquistata (e pagata).
Formato: 33 cl., alc. 6.9%, scad. 01/06/2015, pagata 3.90 Euro (foodstore, Italia).

lunedì 23 dicembre 2013

Dupont Avec les Bons Voeux 2010

Nel 1970 la Brasserie Dupont decide di omaggiare alcuni dei suoi migliori clienti con una birra natalizia, dalla forte gradazione alcolica: la birra non ha un nome vero e proprio, ma reca semplicemente la scritta "Avec les bons vœux de la Brasserie Dupont", ovvero "con gli auguri della Brasserie Dupont". La birra ottenne un grande successo tra i clienti, e convinse il birraio Marc Rosier a commercializzarla regolarmente (a partire dal 1996, secondo quanto riporta Michael Jackson nel suo Great Beers of Belgium) utilizzando proprio quell'augurio come nome della birra. E' la Dupont dalla gradazione alcolica più alta (9.5%), oggi disponibile nei formati da 37.5, 75 cl. ed in fusto. Pare sia molto difficile trovare un accordo sulla categoria stilistica d'appartenenza: l'abbiamo trovata definita come saison (invernale), triple, strong ale ed anche barley wine.
Edizione 2010 (come marchiato sul tappo di sughero) quella che andiamo ad aprire; shelf life di cinque anni ma, dal confronto con esemplari più giovani, non sembra essere una di quelle birre che migliorano con il passare degli anni. Nel bicchiere si presenta di un bel color dorato carico velato, con sfumature arancio; generosa la schiuma, biancastra, fine e cremosa e dalla discreta persistenza. L'aroma non è particolarmente pronunciato, appare un po' stanco ed ha ovviamente perso il vigore e la speziatura della gioventù: c'è una lieve nota rustica , un po' terrosa e di cantina (polverosa), ma soprattutto miele d'arancio, albicocca disidratata e frutta candita (pesca, arancio). 
In bocca stupisce subito per il modo in cui l'alcool viene nascosto; davvero impossibile scommettere sugli oltre 9 gradi dichiarati in etichetta. Il corpo è medio, discreta la carbonazione per un risultato finale molto gradevole e morbido in bocca. Troviamo note di crosta di pane, di miele, di frutta gialla (pesca ed albicocca) e di arancia; la dolcezza è molto ben bilanciata da una lieve acidità (lattica) che riesce a rendere la Bon Vœux molto scorrevole e quasi rinfrescante, al palato. Porta in dote una pulizia ed un equilibrio pressoché da manuale, ed è solamente alla fine, nel retrogusto ricco di frutta sotto spirito, che l'alcool si manifesta con un morbido tepore. Birra da manuale, gustosa e solida, che non dovrebbe mai mancare ad ogni Natale e che sparisce dal bicchiere con facilità presentando il conto al bevitore quando è ormai troppo tardi. Ma è doveroso anche citare questo interessante abbinamento sponsorizzato da Schigi: pasta e fagioli.
Formato: 75 cl., alc. 9.5%, lotto 102376 15:46, scad. 11/2015, pagata 5.44 Euro (beershop, Italia).

domenica 22 dicembre 2013

Struise Tsjeeses Reserva Port Barrel Aged 2011

Netta è la direzione che gli Struise Urbain Coutteau e Carlo Grootaert  hanno intrapreso negli utimi anni, dopo aver anche dismesso i panni di birrai "zingari" (o beer firm) ed aver inaugurato i propri impianti produttivi. Il grande successo che hanno ottenuto in paesi come gli Stati Uniti e la Scandinavia, paesi disposti a spendere anche molti soldi in birre dall'alta gradazione alcolica e quasi sempre barrel-aged. L'invecchiamento in botte sembra essere ormai diventata un priorità per gli Struise, con la stessa cotta di birra che finisce a passare qualche mese in diversi tipi di botte e viene poi immessa sul mercato a prezzi molto poco belgi. Inevitabile che in botte ci finisse anche la loro birra natalizia, o "winter tripel", come la definiscono, chiamata Tsjeeses. La parola, pronunciata, suona all'incirca come l'inglese "cheeses" ed ha anche una certa assonanza con "Jesus".  In verità - dice Urbain Coutteau - si tratta solamente di un'esclamazione senza alcun significato: sarebbe quello che lui stesso avrebbe pronunciato dopo aver assaggiato la prima versione di questa birra invernale, restandone favorevolmente impressionato. L'assonanza non fu però particolarmente apprezzata dalla TTB (Alcohol and Tobacco Tax Trade Bureau) Americana; l'etichetta, ancora meno. L'immagine caricaturale di Urban Coutteau che indossa un cappello da Babbo Natale con il fumo che gli esce dal naso ("inebriato dalla birra appena bevuta", dicono gli Struise) venne considerata dagli ispettori americani un'immagine offensiva che raffigura una specie di Gesù Cristo sotto l'effetto di stupefacenti. Il risultato fu il divieto d'esportazione negli USA, uno dei mercati principali del birrificio belga. Dapprima gli Struise pensano di modificare l'etichetta coprendo il volto di Babbo Natale con un burka nero ma poi, onde evitare altri problemi con le autorità a stelle e strisce, scelgono un approccio più "soft" eliminando il fumo che esce dal naso e mettendo addosso a Santa Claus un paio di innocenti occhiali da sole verdi alle bottiglie destinate al mercato statunitense.
Tre le versioni barricate (per sei mesi, credo) della Tsjeeses; una in semplici botti di quercia, una in botti che hanno ospitato Bourbon, e la terza in botti che hanno ospitato Porto. Mi è toccata in dote quest'ultima, per una di quelle bottiglie che compri giusto una volta l'anno e la tieni da aprire in una occasione speciale. Sontuoso l'aspetto, un bellissimo color ambrato carico, leggermente velato, con riflessi ramati. La schiuma, ocra, è finissima e cremosa, molto persistente; vi sono piccole particelle di lievito sospese nel bicchiere. Al naso sentori di legno, quasi di polvere, che lasciano dopo qualche secondo spazio a marzapane, tortino di frutta, caramello, uvetta e datteri; man mano che la birra si scalda emerge un leggero carattere che ricorda un vino liquoroso, o un porto, per l'appunto. Molto rotonda al palato, con un corpo tra il medio ed il pieno, una discreta carbonazione ma soprattutto una bella consistenza oleosa e densa, morbida, avvolgente. La bevuta non entusiasma da subito, questa Tsjeeses Reserva  ci mette più di qualche minuto per "aprirsi" e dare il meglio di sé, rivelando una gran bella complessità. Arancia e cedro canditi, datteri disidratati ed uvetta, caramello, miele d'arancia, zucchero di canna, con delle sottili note di porto che fanno di tanto in tanto capolino. Birra molto potente (10%) ma estremamente raffinata e lontana da ogni prova di forza fine a se stessa; l'alcool è molto ben dosato, riscalda il palato e lo abbraccia senza mai pungerlo o bruciarlo. Molto ben attenuata, con una partenza dolce che viene pian piano a scemare grazie ad una lieve acidità finale; c'è anche una leggera nota amaricante (scorza d'arancia) ma soprattutto un sublime retrogusto etilico quasi infinito, morbido e dolce, caldo ed avvolgente, pieno di frutta sotto spirito e impreziosito da note di porto. Birra complessa ed appagante, non difficile da bere ma che dev'essere sorseggiata con grande tranquillità in poltrona: delude un po' nei primi sorsi, ma datele il tempo che necessita per aprirsi nel bicchiere e (forse) non rimpiangerete i soldi spesi per l'acquisto. Sbaglierò, ma mi ha dato l'impressione di poter reggere ancora diversi anni con un buon potenziale d'invecchiamento in cantina. 
Formato: 75 cl., alc. 10%, lotto 2311270611 THT ACDPA, scad. 26/12/2017, pagata 24.00 Euro (beershop, Italia).

sabato 21 dicembre 2013

St. Bernardus Christmas Ale 2010

La Christmas Ale dovrebbe essere la più giovane tra tutte le birre della St. Bernard Brouwerij di Watou. Ha molto in comune con la "sorella" ABT 12; sembra che infatti fosse inizialmente chiamata ABT +, ed era prodotta in piccolissime quantità riservate, come regalo di Natale, ai dipendenti del birrificio ed ai clienti di lunga data. I commenti più che positivi hanno poi convinto il birrificio a commercializzarla con il nome di Christmas Ale. Una Belgian Strong Ale o Quadrupel (a voi il dilemma del dove incasellarla, se ci tenete), che condivide con la ABT 12 lo stesso lievito e la stessa imponente gradazione alcolica (10%); all'aspetto è velata e di un bel color ambrato carico / marrone, con riflessi rossastri; molto bella anche la schiuma, compatta, cremosa, color ocra e molto persistente. Delude invece il naso, chiuso, quasi assente; bisogna davvero faticare per "tirare" fuori sentori di prugna, zucchero caramellato, marzapane. S'avverte anche qualche leggera nota aspra di amarena, ed una lieve speziatura (noce moscata).  In bocca è meno imponente di quanto la gradazione alcolica lasci intuire: il corpo è medio, la carbonazione abbastanza sostenuta, con una consistenza oleosa-ma-non-troppo che la fa scorrere abbastanza bene. 
L'attacco è dolce, con caramello, biscotto al burro, uvetta sultanina e prugna disidratata, ben bilanciato da una leggera asprezza di frutti rossi (mirtillo rosso, ribes, prugna acerba); la bevuta quindi si alleggerisce progressivamente, con un finale quasi secco e molto pulito. L'amaro è impercettibile, il retrogusto è etilico, caldo e morbido, di nuovo a metà strada tra note dolci di uvetta e più aspre di frutti rossi. E' una birra che si lascia bere con sorprendente facilità, considerandone la gradazione alcolica; il dazio che paga è di non risultare particolarmente calda ed avvolgente, senza dare quella sensazione di "winter warmer". Pochi profumi, pochissimi indizi di Natale, un mezzo riscatto in bocca ma è una bottiglia che ci lascia un po' delusi, anche perché il confronto con la sorella ABT 12 è quasi inevitabile. Finisce di diritto nella lista delle "birre da riprovare".
Formato: 75 cl., alc. 10%, lotto C A 08:34, scad. 17/09/2015, pagata 8.80 Euro (food store, Italia).

venerdì 20 dicembre 2013

Struise Pannepeut (Pannepøt) 2008

Non è esattamente una birra natalizia, ma il periodo dell'anno è comunque quello adatto per una corposa Struise Pannepeut; per parlare di questa birra dobbiamo obbligatoriamente rinviarvi ad un'altra, ovvero la Pannepot che abbiamo bevuto ad inizio anno. Se i due nomi sono molto simili, pensate che in origine lo erano ancora di più, con la Pennepeut che nacque chiamandosi Pannepøt; la lettera presa dall'alfabeto danese non è casuale. La prima Pannepøt venne infatti prodotta nel 2006, al Københavnske Øldage 2006, ovvero una one-shot che gli Struise prepararono per quel festival di Copenhagen. La differenza con la Pannepot non risiede solamente nella lettera "ø"; ci sono molte similitudini, è vero, ma da quanto si legge in giro vi sarebbe almeno un diverso mix di spezie a diversificare le due birre; vero anche che dei birrai (belgi, soprattutto) non bisogna fidarsi mai troppo. La Pannepøt ottenne comunque un buon successo in Scandinavia e convinse gli Struise a metterla in produzione regolare riuscendo, un pò più lentamente, a far poi breccia anche tra i bevitori belgi. Poco dopo il nome venne anche cambiato da Pannepøt a Pannepeut, per aiutare i clienti al di fuori della Scandinavia a meglio identificare le due birre.
Siamo quindi davanti ad una imponente (10%) Belgian Strong Ale, che venne prodotta presso gli impianti della Deca (a Vleteren), dove gli Struise si appoggiavano quando ancora non avevano impianti propri. La Pannepeut si presenta di un bel color marrone scuro, con leggeri riflessi ambrati; la schiuma è di dimensioni modeste, un po' grossolana, e vi sono piccole particelle di lievito in sospensione nel bicchiere. Aroma abbastanza complesso, vinoso (marsala, sherry) con una leggera ossidazione; datteri, uvetta, ciliegia sotto spirito, toffee, un lieve ricordo (dopo 5 anni) di spezie. Splendida in bocca, piena e molto poco carbonata, morbida, ricca, oleosa, davvero appagante. Il gusto non di discosta più di tanto dall'aroma, con un carattere di vino liquoroso, dolce e caldo, ricco di uvetta e prugne; l'alcool ha una presenza tutto sommato morbida e discreta, mai sopra le righe. La marcata dolcezza viene comunque ben equilibrata da una lieve acidità finale e da una timida nota amaricante che ricorda la china; termina lunghissima, con un retrogusto etilico ricco di frutta sotto spirito. Una bottiglia che ha ormai virato nel territorio dei vini liquorosi, leggermente ossidata, ma che regala ancora grosse soddisfazioni, soprattutto se (come al sottoscritto) vi piacciono i vini come sherry, marsala, porto, i passiti. Perse negli anni le spezie di gioventù, è una birra da sorseggiare lentamente a fine pasto che mostra gli anni senza aver perso in vigore ed in struttura. E' ancora potente e rotonda, avvolgente, da bere lentamente in tutta tranquillità.
Formato: 33 cl., alc. 10%, lotto B, scad. 03/2015, pagata 4.90 Euro (beershop, Italia).

giovedì 19 dicembre 2013

De Dolle Stille Nacht 2009

Dopo la "doverosa" ma giovane ed esuberante Stille Nacht 2013 di ieri è il momento di passare a qualcosa di più maturo, andando indietro di quattro anni a stappare una bottiglia di Stille Nacht 2009, per una mini verticale che si è rivelata molto interessante. Il colore è leggermente più scuro della 2013: arancio, ramato, con qualche riflesso ambrato, schiuma di modeste dimensioni, color ocra, cremosa e dalla discreta persistenza. Non molto vitale l'aroma, se lo confrontiamo con quello quasi esplosivo della Stille giovane appena arrivata: dolce, grande dominio di miele d'arancio, albicocca, poi sentori di marmellata d'arancio, cedro e qualche accenno di toffee. Ma è sufficiente un sorso per rendersi conto della grande evoluzione che la birra ha avuto nel corso degli anni: morbida, ricca di frutta come uvetta e datteri, con un discreto carattere vinoso, marsalato, ed una leggera ossidazione assolutamente non sgradevole; lasciandola respirare nel bicchiere emergono più in secondo piano note di miele d'arancio, marzapane, frutta secca. Anche per lei (come per la 2013) il corpo è medio-pieno, con un netto calo delle bollicine ed una bella morbidezza oleosa; è invece sparito del tutto l'amaro, presente in minima parte nella 2013. Il dolce è anche qui stemperato da una lieve acidità finale, cui fa seguito un lunghissimo retrogusto etilico, morbido e caldo, ricco di frutta sotto spirito, straordinariamente appagante. 
Bottiglia che ha smaltito la vivacità e la leggere asperità della gioventù ammorbidendosi ed amalgamandosi: l'alcool è molto meno percepibile rispetto alla 2013, con una complessità al palato che rivela diverse sfumature ad ogni boccata. Il peso degli anni gravita in maniera negativa soprattutto al naso, con un aroma un po' spento, ma  la 2009 vince con facilità il confronto gustativo con la sorella minore. Nonostante la lieve ossidazione, si lascia sorseggiare con enorme piacere, facendosi apprezzare sorso dopo sorso, per un perfetto dopocena di una fredda notte d'inverno. Il leggero carattere marsalato la rende tuttavia anche un'interessante abbinamento a diversi dolci: il panettone è forse la scelta più ovvia, anche se la perfezione potrebbe essere raggiunta, come suggerisce Stefano Ricci, affiancandola ad uno stollen. Ed il pensiero a fine bevuta è sempre quello: per quante ne abbiate messe cantina, rimpiangerete sempre di non averne comprata, a suo  tempo, qualche bottiglia in più.
Formato: 33 cl., alc. 12%, lotto 10/2009, scad. 10/2012.

mercoledì 18 dicembre 2013

De Dolle Stille Nacht 2013

Stille Nacht, ovvero la birra che fa esclamare ad ogni appassionato di birra “adesso è Natale”. Disponibile solitamente ai primi di dicembre di ogni anno, la Stille Nacht è una delle birre più interessanti ed affascinanti creazioni del birrificio De Dolle guidato da Kris Herteleer, nonché una birra che vale davvero la pena mettere in cantina ed aprire di tanto in tanto per godere dei suoi cambiamenti nel corso degli anni. Venne prodotta per la prima volta nel 1980 ed in origine era  di colore scuro, simile alla Oerbier, indossando la sua attuale livrea più chiara a partire dal 1982, quando – leggiamo – Kris si stancò di sentirla chiamare dalla gente “la Oerbier buona” e decise di tracciare una linea di separazione più netta tra le due birre. Sia la Oerbier che la Stille Nacht  erano prodotte con un ceppo di lievito fornito dal birrificio Rodenbach;  a Novembre del 1999 la Palm, che aveva da poco acquisito la Rodenbach, inviò una lettera a tutti i propri clienti (oltre a De Dolle, c’era anche il monastero di St. Sixtus, Westvleteren) comunicando la decisione d’interrompere, dal primo dicembre, la vendita del lievito proprietario. I tentativi di utilizzare dei lieviti differenti non soddisfano molto Kris, il quale decide di “riciclare” in proprio il ceppo di Rodenbach. Chi vi scrive non ha nessuna esperienza né di homebrewing né di microbiologia e coltura dei lieviti; cercherò di riassumere al meglio quello che sono riuscito a reperire in internet, traducendo per la maggior parte da fonti in lingua inglese. Nel caso di errori ed imprecisioni nella terminologia utilizzata, qualsiasi correzione sarà benvenuta e quantomai apprezzata. Ecco le fonti:


Per tornare alla storia della Stille Nacht, Kris Herteleer si affidò ad un biologo di una università per inoculare e coltivare il lievito Rodenbach: trattandosi però di un ceppo di lievito molto complesso, la "replica" non avvenne  nel modo previsto. In particolare, il "nuovo" ceppo risultò molto pulito ma privo di quelle caratteristiche batteriche (acetiche e lattiche) tipiche proprio del Rodenbach. Il nuovo lievito produsse  una densità finale nel mosto della Stille Nacht molto più bassa del solito, con aumento della gradazione alcolica dall'8 al 12%; la rifermentazione, inoltre, sembrava non finire mai. Nonostante le temperature di dicembre, molte bottiglie esplosero; per non perdere l'intera produzione, Kris decise di travasare il contenuto delle bottiglie ancora intatte in botti che avevano ospitato vino Bordeaux (Château Léoville-las-Case), e di tornare ad imbottigliarle dopo dodici mesi. E' la nascita della Stille Nacht Reserva (2000), una birra che da un inizio quasi disastroso si rivelerà essere poi eccezionale, uno dei capolavori della produzione De Dolle, riprodotta poi nel 2005, nel 2008 (solo per amici e familiari) e nel 2010.
Ci vorranno oltre tre anni affinché il nuovo lievito inizi a presentare quelle caratteristiche leggermente acide che Kris cercava; ed entrò in gioco anche le dea bendata, ovvero alcuni fusti di una vecchia Stille Nacht non completamente vuoti che vengono restituiti dalla Finlandia e che permettono al microbiologo di fiducia di Kris di recuperare del Rodenbach originale da coltivare. 
Nel frattempo la Stille Nacht aveva assunto un profilo più pulito e più dolce, indubbiamente diverso dal passato, forse più accomodante per un palato non abituato a pH bassi, che aveva spaccato a metà gli aficionados: alcuni ne restarono delusi, altri invece apprezzarono. Da allora, ogni anno, quasi ogni birrofilo attende l'uscita della Stille Nacht per scoprire "com'è", con commenti che spaziano dall'entusiasmo dell'"è tornata quella di una volta" alla delusione. Eppure, come sottolinea Kuaska in un breve ma splendido articolo per la rivista Fermento Birra (Numero 6), "ogni millesimo di questa birra ha un qualcosa di magico ed un percorso diverso, e nonostante tutti gli sforzi dettati dall'esperienza, difficilmente classificabile. Può capitare un'annata che, giovanissima, appaia francamente deludente, facendoci dubitare sul lavoro di De Dolle e che, dopo pochi mesi o qualche anno, si schiude come una bellissima farfalla dalla sua crisalide. E viceversa, Stille Nacht battezzate dagli esperti come capolavori assoluti, che durante la maturazione perdano verve senza confermare le promesse di lunghissima vita e di gemma assoluta".
Lunga ma doverosa introduzione, ed eccoci arrivati al momento di stappare la Stille Nacht 2013, della quale è d'obbligo è l'acquisto multiplo, o a cartone, per chi può. Una bisogna berla inopportunamente fresca, per tradizione, le altre vanno invece in cantina e riscoperte negli anni a venire. La 2013 appare di color oro antico, leggermente velato, con sfumature tendenti all'arancio; da manuale la schiuma: compatta, fine, cremosa-quasi-pannosa, molto persistente. Stille giovane ed esuberante, quasi sfrontata in un bouquet aromatico prorompente e pulitissimo: abbondanza di canditi, arancia e pesca, albicocca disidratata, ananas, miele d'arancio, ed  una frizzante nota pepata da lievito. Gradevolissima in bocca, dal corpo tendente più al medio che al pieno, vivacemente carbonata ma incredibilmente morbida e rotonda. L'ingresso è dolce con note di biscotto e di miele, per poi proseguire richiamando quasi in toto l'aroma di frutta candita: pesca, albicocca ed arancia, con l'alcool (12%) a distribuire un calore ben percepibile, a tratti quasi piccante/pepato, che però non disturba mai la bevuta. La grande dolcezza è magistralmente stemperata da una bella acidità finale, che sgrassa il palato, preparandolo al lunghissimo finale. C'è una punta d'amaro (scorza d'arancio), una suggestione di salinità che a volte sembra far capolino, ma l'epilogo è un retrogusto morbido e caldo, ricco di frutta sotto spirito. Il Natale è adesso arrivato, con una birra giovane e vivace, con un profilo aromatico e gustativo non molto complesso ma estremamente pulito ed equilibrato: l'inizio sembra promettente, ma saranno gli anni a venire a dare il verdetto definitivo sulla Stille 2013. Domani si replica, mettendo a confronto la giovane con una sorella di 4 anni più vecchia.
Formato: 33 cl., alc. 12%, lotto 2013, scad. 11/2016, pagata 4.70 Euro (beershop, Italia).

martedì 17 dicembre 2013

Anarchy Citra Star

Facciamo una breve pausa dalle birre natalizie per rinfrescarci un attimo il palato con un birra leggera e dissetante.  Bevuta che coincide con l'ennesimo debutto sul blog di un nuovo birrificio inglese, quello chiamato Anarchy Brew. Ha sede a Morpeth, una ventina di chilometri a nord di Newcastle Upon Tyne, nel nord dell'Inghilterra. Viene inaugurato a Gennaio 2012 dai coniugi Simon e Dawn Miles, un passato da homebrewers e una passione - che non si riflette molto nel portfolio di birre prodotte - per il Belgio.  Aiutati, al momento, da altre quattro persone, dichiarano chiaramente di essere più interessati agli esperimenti ed "all'innovazione" (virgolettato d'obbligo, visto che sembra significare abbondanti luppolature extra europee) che alla tradizione brassicola inglese. Trovano casa in un edificio che prima ospitava un negozio di mobili, lo svuotano del contenuto installandoci gli impianti produttivi, una tasting room ed un piccolo shop dove i clienti possono acquistare direttamente le birre. L'avventura inizia con il nome di Brew Star, ma dopo circa sei mesi ecco arrivare una lettera dalla Brewster Brewing Company (situata più a sud, nei dintorni di Nottingham) che li intima di cambiare il proprio nome. L'assonanza dei due nomi, infatti, poteva creare confusione tra i consumatori ed essere considerata una violazione del proprio marchio registrato. Al di là di una evidente somiglianza fonetica tra i due nomi, l'obiezione sollevata dalla Brewster sarebbe stata probabilmente oggetto di una lunga disputa legale dall'esito tutt'altro che scontato. I coniugi Miles decidono tuttavia di non spendere tempo e parte dei propri fondi in avvocati ma di restare concentrati sulla birra: cambiano quindi il nome in un più aggressivo Anarchy Brew, andando subito a registrare nome e logo.  Nel frattempo, sono già arrivate alcune medaglie: argento per la Anarchy Lager (Siba 2013), oro per la bitter Sublime Chaos al 2013 Siba North East. Una quindicina le birre prodotte in quasi due anni di attività, numero abbastanza contenuto se lo paragoniamo con quello della maggior parte dei microbirrifici inglesi nati in questi ultimi anni ed assurdamente molto più prolifici.
All'assaggio la Citra Star, immagino una single-hop prodotta con l'omonimo luppolo americano che arriva in una bottiglia dalla forma abbastanza inusuale per un produttore inglese. Bel colore dorato, velato, con sfumature arancio pallido; la schiuma è bianca, a trama fine, cremosa e molto persistente. Aroma che ovviamente mantiene fede al nome della birra: festival dell'agrume, aspro, con lime, limone, cedro e qualche leggera nota di arancia; indubbiamente monotematico, scontato, ma molto forte e molto pulito. Quasi ineccepibile. Pochissime sorprese anche in bocca, ma ciò non dev'essere visto come un difetto: è solamente una conferma delle aspettative di una birra molto secca, con pochissimo corpo, dissetante e rinfrescante. Se questo è quello che cerchi, questo è quello che hai. Imbocco veloce e leggero, qualche traccia di crosta di pane e cereali e poi una vagonata di agrumi, con arancio e pompelmo  (e qualche note di pesca gialla) che ingentiliscono un po' la bevuta rispetto ai toni aspri dell'aroma. Ovviamente secchissima, è una session beer (4.1%) rinfrescante e dissetante, che inevitabilmente chiude il cerchio finendo dove era iniziata: amara e zesty, ricca di scorza di lime e limone. Molto profumata e pulita, ruffiana e piaciona ma abbastanza brava a restare in equilibrio sul burrone del succo di frutta senza precipitarci dentro. Dicembre non è sicuramente il suo mese ideale (a meno che non vi troviate a berla dentro un affollato ed accaldato pub), ma questa è una birra che potreste arrivare ad amare nei mesi più caldi dell'anno.
Formato: 33 cl., alc. 4.1%, IBU 36, scad. 31/01/2014, pagata 3.04 Euro (beershop, Inghilterra).

lunedì 16 dicembre 2013

Santa Kauss

Debutto natalizio sulle pagine del blog, quello del birrificio piemontese (Piasco, provincia di Cuneo) Kauss; un nome a me ancora sconosciuto, ma con ormai  oltre 600 produttori esistenti in Italia ed aperture quasi settimanali diventa davvero difficile essere sempre sul pezzo. Società fondata ad Aprile 2012 da Luigi Cagioni, Diego Botta e Ivan Lodini, che ha debuttato a marzo 2013; il birraio è Luigi “Cagio” Cagioni, diplomato in agraria e poi laureato nel settore  agroalimentare, ma soprattutto grande appassionato di birre nonché homebrewer dai primi esperimenti del 1997. Bella e curata l’immagine del birrificio, ma sito internet ancora in allestimento che rimanda alla inevitabile pagina Facebook per reperire informazioni. Le birre in produzione regolare dovrebbero essere tre, dai nomi tutt’altro che originali ma che permettono ai meno "esperti" di orientarsi facilmente nella scelta: Birra Bionda (una lager tedesca), Birra Rossa (una bock con luppoli americani, se non erro) ed una classica doppelbock deprecabilmente chiamata Birra Doppio Malto.  In estate viene anche prodotta una Birra Bianca, mentre per questo Natale la gamma si è ulteriormente arricchita di una nuova produzione, questa volta dal nome ben riuscito: si tratta di una Weizenbock molto sostenuta (9.3%!) chiamata Santa Kauss. 
Molto attraente l'aspetto: marrone scuro velato con riflessi rossastri ed ambrati; la schiuma, color ocra, non è molto generosa e si dissipa abbastanza rapidamente.  Il naso è dolce, pronunciato ed abbastanza pulito, con una netta prevalenza di banana matura; qualche spezia in sottofondo (soprattutto chiodi di garofano), toffee e qualche sentore interessante di ciliegia sciroppata. Gradevole in bocca, dal corpo medio, con consistenza oleosa e poco carbonata; morbida, con (fortunatamente) la banana un po' meno in evidenza che al naso. Frutta sotto spirito (uvetta e datteri), caramello/toffee, per un buon livello generale di pulizia ed intensità. Chiude leggermente amara, a mitigare un po' il dolce, con note terrose e di mandorla amara. Il finale è caldo, etilico, ricco di frutta sotto spirito: uvetta, prugna ed un leggero ritorno di banana. Interessante weizenbock (fosse un birrificio americano l'avrebbe senz'altro "imperializzata), pulita e solida, molto "pompata", che riesce a nascondere l'alcool abbastanza bene, lasciandogli il palcoscenico solamente nel caldo retrogusto. Un bel winter warmer da un birrificio che non ha ancora compiuto un anno di vita ma che sembra saper muovere i passi nella giusta direzione.
Formato: 75 cl., alc. 9.3%, lotto 13210175, scad. 29/03/2015, pagata 8.00 Euro (stand birrificio).

domenica 15 dicembre 2013

Millevertus Douce Vertus de Noël

Apriamo ufficialmente la stagione natalizia 2013 iniziando un po' in sordina, ovviamente con il Belgio, ma con una natalizia dalla gradazione alcolica abbastanza contenuta. E' la stagionale della Brasserie Millevertus, che vi abbiamo presentato appena due mesi fa. Il birrificio si distingue per le etichette abbastanza spiritose e divertenti, e non fa eccezione neppure quella della birra natalizia, sexy ed ammiccante. La Douce Vertus de Noël cambia ogni anno, con leggeri aggiustamenti che vengono fatti di anno in anno con lo scopo di migliorarla; terminato il Natale, la Douce Vertus de Noël si accorcia il nome, cambia etichetta e diventa semplicemente La Douce Vertus fino al Natale dell'anno successivo, quando viene rilasciata la nuova Douce Vertus de Noël. Ricetta che prevede quattro tipi di malto e quattro luppoli diversi, per una birra che nel Maggio 2012 (quindi quella prodotta a Natale 2011) è stata  nominata la miglior birra della Vallonia.
In bottiglia non è indicato l'anno di produzione, ma la data d'acquisto e la scadenza fissata a settembre 2014 mi fa ipotizzare che si tratti di una produzione 2012.
Splendida nel bicchiere, un bellissimo color marrone quasi limpido con riflessi ambrati/rossastri; la schiuma, molto persistente, è ocra, fine e cremosa. L'aroma va un po' a cozzare con il bell'aspetto e con l'ammiccante etichetta: quasi nullo, a fatica si riesce a percepire qualcosa di terroso, forse toffee, qualche sentore legnoso. Per fortuna le cose migliorano in bocca: il fondo è terroso e leggermente tostato, c'è una leggera speziatura ma è impossibile identificare le singole componenti; fa capolino anche qualche nota di caffè e di cioccolato. Sorprende in positivo il finale, molto secco, ricco di polvere di cacao, con una nota amaricante di china e di caffè. E' un Natale quasi amaro, contrariamente al nome, quello che offre questa Douce Vertus, e quindi abbastanza controcorrente rispetto ai tanti dolcioni che la tradizione brassicola belga propone. Corpo medio, giusta carbonazione, watery quanto basta per essere bevuta facilmente senza però sacrificare una buona morbidezza e persistenza palatale. Non brilla di pulito, è avara di profumi e non riscalda con il suo alcool le fredde notti di dicembre; rimane senza dubbio più bella da vedere che buona da bere, ma come aperitivo o introduzione alle corpose ed alcoliche birre natalizie ci può anche stare.
Formato: 33 cl., alc. 7%, scad. 09/2014, pagata 1.70 Euro (beershop, Belgio).

sabato 14 dicembre 2013

Camden Town Versus Odell Baltic Porter

Tempo di birre collaborative per il birrificio londinese Camden Town, che abbiamo incontrato per la prima volta qui; a metà 2013 viene infatti lanciata la "The Versus Series", birre one-shot prodotte assieme ad altri birrai. Ad inaugurare c'è una collaborazione importante, con il birrificio americano Odell (Colorado); ne seguirà, qualche mese più tardi, una assieme agli italiani Brewfist, Birrificio Italiano e Birra del Borgo. Ma torniamo allo scorso Maggio, quando Doug Odell si reca a Londra per realizzare una versione particolare di una delle sue birre più apprezzate, la Cutthroat Porter. La ricetta utilizza ingredienti "simili" (così viene dichiarato sul sito della Camden, anche se si fa fatica a capire il significato di "simile") alla Porter di Odell, ovvero malti Pilsner, Monaco, Caramalt, Amber, Chocolate e Roasted; i luppoli sono Northdown Halleratu Tradition ed Hallertau Hersbrücker. Il lievito usato è però quello della Hells Lager di Camden, quindi a bassa fermentazione, e l'alcool viene aumentato dal 5% della Cutthroat al 7%.
Si presenta di colore ebano scurissimo; la schiuma, dalla discreta persistenza, è beige, fine e cremosa. 
L'aroma non è né particolarmente pulito né molto pronunciato: orzo tostato, caffè, qualche lieve sentore di mirtilli, cioccolato e di fumo/cenere. Le cose migliorano invece in bocca, dove se non altro c'è una maggiore intensità: scorrevole e facile da bere, poco carbonata, corpo medio-leggero. Lo scenario è assolutamente coerente con l'aroma: molte tostature con caffè e cioccolato in secondo piano; lieve acidità finale, una leggera nota di cenere e l'alcool che offre un tiepido calore solo nel retrogusto, tra note terrose e torrefatte. Una collaborazione che onestamente non mi ha entusiasmato (superflua, verrebbe da dire) ma a parziale scusante c'è forse la bottiglia vicino alla data di scadenza; aroma sotto tono, meglio l'intensità del gusto che regala qualche buona soddisfazione. Ma, bevuta una volta, non è una birra che tornerei a cercare, per intenderci: nello "scontro" (Versus), vince senza dubbio la Cutthroat originale.
Formato: 33 cl., alc. 7%, scad. 14/01/2014, pagata 3.04 Euro (beershop, Inghilterra).

venerdì 13 dicembre 2013

De Dolle Extra Export Stout

Nasce come offerta per il mercato americano, dietro specifica richiesta dell'importatore, la Extra Export Stout dei birrai "matti" De Dolle; il successo ha poi convinto Kris Herteeler ad inserirla nella produzione regolare del birrificio (un paio di volte l'anno) e renderla quindi facilmente reperibile anche nel nostro continente. Malti roasted, chocolate, pale e caramel, un solo luppolo utilizzato, il Nugget, zucchero candito e lo stesso ceppo di lievito utilizzato per la Arabier: dovrebbe (condizionale d'obbligo) essere questa la base della ricetta per questa Export Stout, alla quale va comunque aggiunto - nel bene e nel male - la genialità del birraio.
Versiamola nel bicchiere: bellissimo l'aspetto, di colore nero impenetrabile; sontuosa anche la schiuma, compatta, a trama fine e cremosissima, molto persistente, di colore nocciola. Al naso sentori di mirtillo, mela verde, una leggera speziatura, orzo tostato; man mano che la birra si scalda emerga anche una leggera acidità (lattico). Annusandola ad occhi chiusi, difficilmente verrebbe da dire che si tratta di una stout. Anche il gusto è abbastanza particolare, ci vuole più di un sorso per coordinare le idee e buttare sul foglio il nome di qualche descrittore: ci sono le tostature, c'è qualche lieve nota di caffè e cioccolato che ogni tanto fa capolino, ma c'è soprattutto una marcata acidità lattica affiancata da note rustiche e terrose.
Il gusto, poco pulito, è nel complesso gradevole e l'acidità fa sì che questa birra dal 9% di percentuale alcolica si beva con una facilità commuovente. Più che una stout, il risultato è una sorta di Dark Farmhouse Ale, con qualche nota di Brettanomiceti. Il finale è ancora più sorprendente: leggermente salino, una nota di pelle/cuioio, con un retrogusto morbido ed etilico di frutta sotto spirito (prugna, uvetta) e tostature. Si parlava di genialità, ma forse bisogna solo appellarsi alla casualità che probabilmente tende a premiare maggiormente i bravi rispetto ai mediocri; normalmente la stout di De Dolle non è una stout classica, ma da una bottiglia probabilmente "sbagliata" e leggermente infetta, ne esce fuori una specie di Dark Saison gradevole ed interessante, dal profilo rustico e quasi rinfrescante; mi sono capitate diverse (imperial) stout difettate negli ultimi mesi, molte di loro sono finite nel lavandino, ma questa Export Stout dei "birrai matti" è stata alla fine bevuta tutta con una discreta soddisfazione, anche se sicuramente non era la birra che doveva essere.
Formato: 33 cl., alc. 9%, IBU 50, lotto e scadenza non indicati, pagata 4.50 Euro (beershop, Italia).

mercoledì 11 dicembre 2013

Weird Beard Five O'clock Shadow

Terzo appuntamento con il birrificio Weird Beard, incontrato per la prima volta qui: situato nel sobborgo londinese di Hanvell, è operativo da Settembre 2012 con una trentina di birre già listate sul database di Ratebeer. Evidente la predilezione del birrificio per i luppoli, soprattutto quelli americani ed esotici, se si passa in rassegna la lista delle birre prodotte sino ad oggi.  Inevitabile quindi la presenza di almeno una American IPA, in questo caso chiamata Five O'clock Shadow: ringrazio un lettore, Dario, che mi fa notare come questa espressione si riferisce a quell'accenno di barba che compare appunto verso la sera sul viso di chi si è raso al mattino; alle cinque del pomeriggio (i più fortunati) finiscono anche il loro giorno di lavoro e possono quindi dirigersi verso il pub preferito a rilassarsi con un bicchiere di birra. Prodotta per la prima volta ad Aprile 2013, con malti Pale, CaraRed e Monaco; per quel che riguarda i luppoli, il birrificio ha dovuto rinunciare ad utilizzare come aveva previsto solamente Citra e Nelson Sauvin (causa scarsa reperibilità) ed ha optato per Summit, Apollo, Citra e Columbus. Bottiglia purtroppo non freschissima (Giugno 2013), con un semestre sulle spalle: quasi un'inezia, se penso ad alcune IPA italiane che hanno scadenze triennali (!). L'etichetta ricalca fedelmente l'azzeccato layout di tutte le altre birre Weird Beard, con le foglie di luppolo ad incorniciarla ed un teschio dagli "occhi di luppolo".
Di un bel color rame, con sfumature arancio, mentre delude un po' la schiuma, grossolana, di dimensioni molto modeste e assai poco persistente. Naso pulito e dolce, tutto sommato ancora decente, con un mix di frutti tropicali (ananas, mango, passion fruit), arancia e pompelmo. Purtroppo ci è capitata una bottiglia quasi piatta, con una buona morbidezza ed un corpo medio; la sensazione palatale è gradevole, ma la quasi assenza di bollicine la rende poco vitale e molto scarica. Il gusto è ben equilibrato tra i malti (biscotto, caramello), frutta tropicale dolce e scorza di pompelmo; c'è meno freschezza rispetto all'aroma, con un la frutta che tende a virare verso la marmellata piuttosto che alla freschezza. Delude un po' anche il finale, dove non c'è l'atteso "morso" amaro dei luppoli ma della leggerissima resina, un po' svanita, e un po' di scorza di pompelmo. Si percepisce una solida struttura ed un buona somiglianza con le  "vere" IPA americane, ma è una bottiglia penalizzata da troppe cose (zero bollicine, poca freschezza, luppoli stanchi) per tentare un paragone diretto.  Rimandata al prossimo assaggio, se mai capiterà.
Formato: 33 cl., alc. 7.3%, lotto 14, imbott. 06/2013, scad. 06/2014, pagata 2.96 Euro (beershop, Inghilterra)

martedì 10 dicembre 2013

Montegioco Bran

E' sempre con grande piacere e curiosità che ci accingiamo a stappare (ed a scartare, visto l'elegante involucro che avvolge le bottiglie da 75 cl.) una nuova birra del birrificio Montegioco di Riccardo Franzosi. Stasera è la volta della Bran, un'interessante creazione che abbiamo trovato classificata in diverse categorie stilistiche: barley wine, belgian strong dark ale, imperial stout o imperial porter. Ne esiste anche una versione barricata (almeno 6 mesi in botti che hanno ospitato Barbera) che viene principalmente destinata al mercato americano.
Il colore dà un buon indizio di quello che andremo a trovare nel bicchiere: praticamente nero, con una discreta testa di schiuma beige, fine e cremosa, che ha buona persistenza. Aroma pulito, anche se non molto forte, che mostra coerenza con il colore della birra: caffè, orzo tostato, leggeri sentori di salsa di soia, un lieve speziatura e qualche note fruttata (pera?) vanno a comporre un bouquet olfattivo interessante ed abbastanza complesso. Molto bene anche l'arrivo in bocca: morbida, quasi cremosa, poco carbonata, dal corpo medio. Ritroviamo il caffè e le tostature, le lievi note di salsa di soia, la liquirizia e, più nascoste, alcune sfumature fruttate (soprattutto prugna) e di cioccolato. 
Nel finale emerge anche una gradevole leggera nota di sigaro; birra complessa ed arricchita da numerose piccole sfaccettature che la rendono molto interessante, quasi da contemplare sorso dopo sorso. E' facile da bere, l'alcool è ben nascosto e regala un discreto warming, morbido, solamente nel retrogusto, assieme a caffè, liquirizia e prugna disidratata. E' una birra importante (sebbene un po' snellita dal finale che porta in dote la leggera acidità del caffè) che si lascia sorseggiare lentamente a fine pasto, ma è anche quasi scontato vederla abbinata a dolci (di cioccolato o caffè); il birrificio la consiglia in abbinamento a salumi piccanti (nduja calabrese), aringhe affumicate e, per chi fuma, sigari.
Formato: 75 cl., alc. 8.5%, lotto 16/12, scad. 31/12/2016, pagata 10.20 Euro (food store, Italia).

lunedì 9 dicembre 2013

Wild Beer Wildebeest

Della Wild Beer Co. vi abbiamo già parlato in questa occasione la scorsa estate; nel frattempo le loro birre sono arrivate anche in Italia e si possono trovare in alcuni beershop. Dopo un’estiva (ed ottima) Saison, la stagione fredda invita all’assaggio di una ben più sostanziosa  “Imperial (espresso chocolate vanilla) Stout" chiamata Wildebeest, ovvero lo Gnu. Imponente ABV (11%), viene prodotta con cioccolato Valrhona, caffè colombiano e baccelli di vaniglia, ed il birrificio la descrive come una birra da sorseggiare preferibilmente davanti al camino, seduti in poltrona. In mancanza del primo, ci accontentiamo della seconda e passiamo a stappare la splendida  bottiglia serigrafia, con il bel logo della Wild Beer in evidenza.
Nera, impenetrabile dalla luce, forma una testa compatta di schiuma nocciola, fine e cremosa, dalla buona persistenza. Bel naso, pulito ed elegante, con pochi elementi ma molto ben rappresentati: chicchi di caffè, vaniglia, sentori più leggeri di cioccolato. Notevole anche l'ingresso in bocca: corpo pieno, consistenza quasi equiparabile all'olio motore, poche bollicine. Birra molto morbida e rotonda, avvolgente, che rivela però un gusto molto meno interessante e coinvolgente dell'aroma.
Con tanta liquirizia, poco caffè e pochissimo cioccolato, la bevuta tende a saturare il palato abbastanza presto; inevitabile sorseggiarla, non tanto per la gradazione alcolica, molto ben nascosta, ma soprattutto per la viscosità della birra. Una discreta acidità nel finale aiuta un po' ad alleggerire il peso, il finale è discretamente secco ma presenta una nota salmastra non proprio gradevole. Nel retrogusto s'affaccia finalmente l'alcool, caldo e morbido, accompagnato da qualche nota di caffè. Birra un po' deludente, non particolarmente complessa ed un po' noiosa, che parte con un bell'aroma ma che presenta un'inizio di deriva salmastra abbastanza preoccupante e che non promette nulla di buono per i mesi a venire; l'abbiamo forse presa "per i capelli", prima che fosse troppo tardi per berla.
Formato: 33 cl., alc. 11%, scad. 23/05/2014, pagata 5.66 Euro (beershop, Italia).

domenica 8 dicembre 2013

Siren Liquid Mistress

Non solo Londra, ma tutta l’Inghilterra è protagonista  da qualche anno di una interessante rinascita brassicola che vede l’apertura di numerosi microbirrifici;  cerchiamo per quanto possibile di esplorare queste nuove realtà che a volte riservano delle belle sorprese. Siren Craft Brew è di recente apertura (febbraio 2013) ed è stato fondato da Darron Anley;  siamo a Finchampstead, nei dintorni di Reading,  circa 70 chilometri ad est di Londra. Nel suo progetto-birrificio  Anley riesce ad avere a bordo l’americano Ryan Witter-Merithew: barba e tatuaggi, quasi lo stereotipo del birraio a stelle e strisce. Nato in North Carolina, ha iniziato la sua carriera alla Duck Rabbit – racconta -  dove in pochi giorni vede crollare l'immagino del birraio come “un creativo che passa le ore ad elaborare le ricette di nuove birre”. La maggior parte del tempo la passa invece a spalare le trebbie ed a lavare fusti, ma le dimensioni ridotte della Duck Rabbit lo portano lentamente a fare praticamente di tutto: il birrificio produce però solamente birre scure, e l’ambizioso Ryan dopo tre anni di lavoro decide che è il momento di provare altre strade. Emigra in Danimarca, dove inizia a lavorare per la Fanø Bryghus; oltre alle birre della casa, Fanø fa anche quelle di alcuni famosi beer-firm come Mikkeller, Evil Twin e Stillwater. L’idea lo stuzzica, ed ecco che Ryan per la Fanø crea un secondo marchio commerciale, chiamato Grassroots assieme a Shaun Hill di Hill Farmstead (USA, ma anche lui con un passato alla Fanø) e Claus Winther, manager di Fanø. L’idea commerciale è appunto quella di sfruttare la crescente domanda in Scandinavia (ed in Europa) per le birre d’ispirazione americana. Hill e Witter-Merithew elaborano le ricette che vengono poi prodotte alla Fanø  e che spesso vedono la collaborazione di altri birrai, Mikkeller ovviamente in primis.  Nel 2012 il progetto Grassroots europeo viene terminato, con il marchio che prende la strada degli Stati Uniti e che – probabilmente – proseguirà con produzione presso gli impianti di Hill Farmstead. Nello stesso anno termina anche  il rapporto tra la Fanø e  Ryan Witter-Merithew, con quest’ultimo che si trasferisce a  Finchampstead per iniziare l’avventura con Siren: il progetto è chiaro sin dall’inizio, ovvero fare birre d’ispirazione americana  con, al momento, nessuno sguardo alla tradizione Inglese, Belga o Tedesca. Abbastanza (ma non troppo) sorprendente che in nove mesi di vita Siren abbia già prodotto una trentina di birre, incluse numerose collaboration con, ovviamente, Mikkeller ed Evil Twin ma anche con Cigar City e Pizza Port (USA); se tutto ciò non bastasse, ci sono già diverse birre che stanno riposando in botte e che saranno prossimamente commercializzate. Il birrificio sfrutta molto bene i contatti a disposizione; a pochi mesi dal debutto, le birre sono già esportate in diversi paesi europei, Italia inclusa se non erro.
Liquid Mistress è una Red IPA che guarda alla West Coast americana; rossa scura, quasi borgogna, con una testa molto persistente di schiuma beige chiaro, cremosa e dalla trama fine.  Al naso pompelmo, arancia rossa, frutti di bosco rossi (soprattutto fragola), leggero caramello. In bocca ha una buona morbidezza, corpo medio e una frizzantezza molto contenuta;  note di biscotto (a me a ricordato i Digestive), frutti di bosco e toffee sono protagonisti della prima parte della bevuta, che prosegue poi con l’amaro di pompelmo e sfocia in una finale resinoso ed un po' pepato. Secca ma meno pulita che al naso, lascia un lungo retrogusto amaro che aggiunge altra resina e qualche note terrosa. E' una birra che non impressiona né per la freschezza dei luppoli che per la pulizia, sebbene solida e robusta; si beve con discreta piacevolezza ma, una volta finita, non fa certamente nascere la voglia di andarla a ricercare. A sua parziale scusante, una bottiglia forse non molto fresca.
Formato: 33 cl., alc. 5.8%, lotto 3701, scad. 03/2014, pagata 3.39 Euro (beershop, Inghilterra).

sabato 7 dicembre 2013

St. Georgen Bräu Doppelbock Dunkel

La storia della St. Georgen Bräu inizia nel 1624 quando viene fondata a Buttenheim, una ventina di chilometri a sud di Bamberga; siamo quindi in Franconia, Baviera. E mentre qualche secolo più tardi  il paese di Buttenheim diventerà famosa per aver dato i natali a Levi Strauss (sì, l'inventore dei jeans), dedicandogli anche un museo, la tranquilla vita della St. Georgen Bräu rimane nelle mani della famiglia  Modschiedler, i cui successori ne mantengono la proprietà dal 1814 al 2009. Il cambio epocale avviene quando Norbert Kramer, che lavorava già come birraio alla St. Georgen dal 2000, ne rileva la proprietà dagli Modschiedler. Un cambiamento che sembra al  tempo stesso anche garantire una perfetta continuità con il passato nella regione della Germania (la Franconia) con il maggior numero di birrifici ed il maggior consumo di birra pro capite. Nessuna modifica nella gamma di birre prodotte, che rimangono sempre le stesse inclusa anche la Levi Urstoff, dedicata proprio al più famoso cittadino di Buttenheim emigrato poi negli Stati Uniti. Il miglior posto dove bere le St. Georgen rimane la Bräustübla, ovvero il locale con mescita adiacente al birrificio; nell'attesa di recarvi in loco, le potete comunque bere abbastanza facilmente anche in Italia visto che il birrificio gode di una distribuzione quasi regolare.
Ideale per queste fredde serate di dicembre è senz'altro la Doppelbock Dunkel, dal bellissimo color marrone limpido con riflessi rosso rubino; impeccabile anche la schiuma, compatta e fine, quasi pannosa, dalla buona persistenza. Al naso emergono sentori di biscotto al burro, caramello e di pane nero; l'aroma è pulito, discretamente intenso, rispecchia perfettamente le attese. Birra morbida in bocca, dal corpo medio, con una carbonazione bassa che permette di gustare il suo bel profilo maltato. Buona corrispondenza con aroma: toffee e biscotto al burro segnano l'inizio di una bevuta che poi presenta anche qualche leggera nota fruttata (prugna) e, ancora più leggere, di frutti rossi aspri. Molto ben equilibrata in bocca, con la dolcezza che viene stemperata da un bel finale abbastanza secco e lievemente amaricante, con qualche note terrosa. L'alcool (7.3%) rimane molto ben nascosto portando soltanto un leggero calore nel retrogusto, morbido, appagante e leggermente fruttato. Buona Doppelbock, pulita e ben fatta, dalla discreta intensità; sarebbe facile indulgere e cedere alla tentazione di berne più di una, sia a pasto che dopo pasto: fate attenzione, non ha esattamente l'alcool di una session beer.
Formato: 50 cl., alc. 7.2%,  scad. 27/09/2014, pagata 3.50 Euro (beershop, Italia)